Se condividiamo questo punto di vista, come cittadini oppure come credenti, è molto probabile che ci chiederemo come fare per elimanare gli ostacoli che, a livello economico-sociale e interpersonale, intralciano la fraternità/sororità. Nel momento in cui cominciano a cercare con umiltà risposte a questa domanda, e ci chiediamo che tipo di relazioni costruiamo con gli altri ogni giorno, sperimentiamo già una dimensione della speranza. Le comunità indigene zapatiste del Messico hanno sintetizzato questa ricerca in modo splendido con l’espressione «camminiamo domandando».
Spiega il filosofo Ernst Bloch in Il principio Speranza[2]: «L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato». La capacità dello sperare di essere sempre un gradino avanti all’avere paura è ciò che spinge, ad esempio, a sperimentare, pur tra limiti e contraddizioni, il cambiamento sociale «qui e ora». Non ci sono domani da attendere o terre promesse da raggiungere grazie all’intervento di qualche divinità. Chi spera sul serio, si mette in gioco, accetta la fragilità[3]. E il rischio del fallimento.
Anche quando il cambiamento sociale o quello della propria vita quotidiana sembrano tardare, la speranza agisce. E come una lente di ingrandimento svela poco a poco ciò che, in un primo momento, è invisibile. Perché la speranza accompagna la nascita di nuovi immaginari, nuove visioni del mondo, nuovi parametri con i quali rapportarci agli altri e valutare quello che accade intorno a noi. Come le palline di un flipper che rimbalzano da una parte all’altra, la speranza capovolge abitudini e linguaggi consolidati: il disobbedire, ad esempio, quando matura come obiezione di coscienza[4], quando è dissenso creativo (nonviolento) rispetto a norme e pratiche che favoriscono relazioni di dominio e di violenza, può diventare improvvisamente una priorità.
Tentare di orientare la propria vita attraverso il principio speranza significa, quindi, osservare alcuni cambiamenti in atto, per scegliere quelli che si vuole favorire con il proprio vissuto. Due utilissimi punti di riferimento in questo sforzo enorme, tra i tanti, sono le analisi del fisico Fritjof Capra e quelle dello studioso di movimenti sociali e di critica dello sviluppo, il messicano Gustavo Esteva. In un libro illuminante e attualissimo, scritto trent’anni fa, Capra sostiene che oggi possiamo riconoscere il confluire di varie transizioni: fra queste ce ne sono tre «che scuoteranno le fondamenta stesse della nostra vita» e che incideranno profondamente sul nostro sistema sociale, economico e politico. La prima transizione, che forse è anche la più profonda e sottovalutata, «è dovuta al declino lento e riluttante ma inevitabile del patriarcato – scrive Capra – La seconda transizione che avrà un'incidenza importante sulla nostra vita ci è imposta dal declino dell'età dei combustibili fossili (...). Anche la terza transizione è connessa con valori culturali. Essa implica quello che oggi viene spesso chiamato un ‘mutamento di paradigma’, un mutamento profondo delle idee, nelle percezioni e nei valori che formano una particolare visione della realtà. Il paradigma che sta cambiando oggi (...) comprende una varietà di idee e di valori (...) che sono stati associati a varie correnti della cultura occidentale, fra cui la Rivoluzione scientifica, l'Illuminismo e la Rivoluzione industriale. Essi comprendono la fede nel metodo scientifico come unico approccio valido alla conoscenza (...) e la fede in un progresso materiale illimitato da conseguirsi attraverso una crescita economica e tecnologica (...)»[5]. Ma la trasformazione che sperimentiamo potrebbe essere più vistosa di tutte le altre che l'hanno preceduta perché il ritmo del mutamento al nostro tempo è più rapido di quanto non sia mai stato prima d'ora. Non solo: i mutamenti sono molto più estesi, coinvolgono il globo intero, e varie transizioni importanti stanno oggi coincidendo.
In un saggio recente pubblicato on line[6], invece, Gustavo Esteva analizza i grandi sommovimenti sociali apparsi nel 2011 in molti angoli del mondo, fonte di speranza per milioni di donne e di uomini. Secondo Esteva si tratta di una sorta di iceberg: la Primavera Araba (con le sue differenti sfumature), gli Indignados in Spagna, quelli del movimento statunitense Occupy e molti altri, sono in realtà parte di una insurrezione in corso da alcuni anni: in ogni paese, in diverse forme, esistono gruppi di persone che diffondono pensiero critico, che agiscono in modo sotterraneo sul tessuto sociale, che cercano relazioni di reciprocità e si prendono cura dell’ambiente (quello che in America latina molti chiamano oggi buen vivir). Mettono in discussione insomma l’ideologia profitto a tutti i costi. Gruppi di persone che costruiscono con pazienza un modo diverso di fare le cose, forme nuove di coesione sociale e di mutuo soccorso. In molte città europee, aggiunge Serge Latouche in un testo dedicato a ciò che si muove su questi temi a Roma[7], si assiste al fiorire di una miriade di reti e organizzazioni dissidenti, a cominciare dalle associazioni senza scopo di luco, o almeno non esclusivamente a scopo di lucro: imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, Lets (Local exchange trading system), Sel (Système d’éxchange local), banche del tempo, Gruppi di acquisto solidale (Gas), comitati di quartiere, banche etiche, movimenti per il commercio equo e solidale, ma l’elenco è molto lungo: «Si tratta di università popolari che mirano a questo obiettivo: armarsi per resistere e decolonizzare l’immaginario. Fanno parte di quella che il filosofo e pedagogista statunitense, John Dewey, definisce democrazia creativa».
L’insurrezione attuale, spiega inoltre Esteva, «è una sfida al regime politico dominante, anche se appare sotto la forma di una ribellione dispersa, senza articolazione né organizzazione». Richiamando, tra gli altri, il pensiero di Michel Foucault, Esteva dice che ora si tratta di «con-muovere», non di sviluppare coscientizzare organizzare le persone, ma prima di tutto di «muoversi con loro», come in una danza, e farlo con tutto, con il cuore e lo stomaco, non solo con la testa. «La conmocion agisce per contagio». Ma ciò che rende davvero unico e fonte di speranza questo cambiamento, anche se poco visibile e lento, è che in molti casi, per la prima volta, i protagonisti della ribellione sentono di non poter delegare ad altri le proprie capacità e responsabilità nel condurre la trasformazione. I protagonisti cioè sono spesso (ma non solo) gli impoveriti[8], le donne, le vittime del razzismo, i senza potere. Per dirla con il Vangelo, gli ultimi, gli oppressi[9].
Se dunque è vero, come io credo, che la speranza sia prima di tutto ricerca della fraternità, superamento della paura, messa in discussione di abitudini e linguaggi, muoversi con e verso l’altro, capacità di osservare e favorire i cambiamenti in corso verso una società più conviviale[10] e di liberazione permanente[11], è vero anche che occorre alimentare ogni giorno questa idea di speranza con tenerezza e stupore. Scrive la scrittrice e teologa Adriana Zarri: «Non basta un discorso rivoluzionario, ove manchi l’ascolto attento del reale. Dobbiamo farci consapevoli che non c’è organizzazione, non c’è politica, non c’è lotta sindacale, in grado di darci l’otium, l’amore, lo stupore. E, senza trascurare questi aspetti concreti in cui la lotta prende corpo, il problema va affrontato più a monte: nella tessitura di un’armonia tra l’uomo e il mondo»[12].
Gianluca Carmosino, giornalista
[3] Sul tema della fragilità vale la pena leggere alcuni articoli pubblicati dal settimnale Adista e alcuni libri della teologa domenicana Antonietta Potente – come Un bene fragile. Riflessioni sull’etica (Mondadori 2011) –, ma anche i saggi del sociologo polacco Zygmunt Bauman, prima di tutto Vita liquida (Laterza 2005).
[4] Su questi temi ha scritto molto Ernesto Balducci, ad esempio, in L’uomo planetario (Giunti 2005) e in Gli ultimi tempi (Borla 1991).
[8] Un testo straordinario su questo tema è La potenza dei poveri di Majid Rahnema e Jean Robert (Jaka book 2010).
[9] Del resto, come ricordano Jacques Ellul in Anarchia e cristianesimo (elèuthera 1988) e Ulrich Duchrow in Alternative al capitalismo globale. Dalla storia biblica all’azione politica (Emi 2004), il Dio biblico è anzitutto un liberatore: l’Esodo, la liberazione dalla schiavitù egiziana, è ben più antico della Genesi, e tutta la storia biblica è in realtà la storia di uomini e di donne che, animati dalla fede nel Dio/liberatore, hanno resistito alle forme di dominio e cercato alternative, con alterne fortune, nell’affermazione della dignità umana.
[11] Sul concetto di liberazione e sul significato della rivoluzione oggi è possibile leggere «Cambiare il mondo senza prendere il potere» di Jonh Holloway (Intra moenia/Carta 2004) e Contropotere del filosofo e psicoanalista franco-argentino Miguel Benasayag e di (Elèuthera 2000). Per una lettura più datata ma attuale rimandiamo volentieri a Il potere di tutti di Aldo Capitini (Guerra edizioni 1999).