Jean-François Colosimo, scrittore, editore insegna patristica all'Istituto di teologia ortodossa Saint Serge di Parigi.
Cos'è un monaco?
Si cerca sempre di dare un senso, un'utilità alla vita monastica, ma il monaco non serve fondamentalmente a nulla. Nella parola monacos c'è la radice monos che indica l'unicità, l'unità. Per giungervi il monaco deve passare attraverso un'esperienza di trasformazione radicale. Deve scomparire dalla faccia della Terra. Il primo movimento della vita monastica è la partenza, l'anachoresis (il ritirarsi), l'esilio. È un'impresa di resurrezione che domanda prima di morire agli altri, al mondo, a se stessi, cioè ai propri bisogni fisiologici, al proprio orizzonte immaginario, alle proprie energie psicologiche, alla propria storia personale. Questa anachoresis si vive in funzione d'una pura disponibilità alla grazia: avere solo Dio come programma, sola consolazione, consolidarsi nella pura verticalità fino a morire alla morte stessa. Una vita angelica, escatologica, che conduce immediatamente al Regno.
Cosa nella vita di Gesù e nelle scritture può giustificare una tale radicalità?
Questa radicalità ricorda tutte le grandi figure profetiche dell'Antico Testamento, cominciando da Mosé al Sinai: "Tu non puoi vedermi senza morire". Poi c'è Elia che trova Dio "nel silenzio". Nel Vangelo l'apostolo Giovanni è un altro grande modello: la sua testa riposa, nel corso della Cena, sul cuore di Cristo ed ecco che il suo soffio si armonizza con quello del Dio incarnato. La preghiera è precisamente questa armonizzazione fra il soffio dell'uomo e quello di Dio. Un'inattività che fa del monaco un viaggiatore. Il suo corpo e il suo spirito divengono il suo laboratorio. È la promessa della beatitudine sperimentata su questa terra. C'è un'accoglienza completa della vita di Cristo nell'esperienza monastica; i quaranta giorni nel deserto, il Golgota, la Pasqua e, soprattutto, la Trasfigurazione, che è la piena manifestazione della divinità nell'umanità, la permeabilità alla luce eterna che la tradizione monastica dice "senza declino" e che è il segno d'una unione intima con il Padre eterno, il vivente.
Il monaco anticipa la vita futura
Egli la realizza, ne fa la propria vita. In questo la vita monastica è la verificazione esistenziale dell'esattezza del dogma. Non è un cristianesimo specializzato per dei supercristiani! È l'essenza del cristianesimo, il monaco non fa che rinnovare in modo totale la promessa del battesimo, l'acquisizione dei doni dello Spirito Santo. "Dio si è fatto uomo perchè l'uomo divenisse Dio": la vita monastica è l'emigrazione verso questo divenire. Ciò vuol dire che è totalmente orientata, articolata, coordinata con un solo scopo, il possesso del Regno e la realizzazione quaggiù di ciò che è in divenire per tutto il resto dell'umanità. Il monaco non ricerca dunque di bonificarsi moralmente nella diversità. Cerca Dio nella pace, il silenzio e la preghiera.
Quali sono i pericoli della vita monastica?
Fino alla fine, niente è definitivamente acquisito. Storie di monaci che si perdono a più di 70 anni, abbondano negli Apoftegmi dei Padri del deserto.
La vita monastica è una corsa fino alla morte. Uno dei suoi più grandi pericoli è l'illusione. Infatti il monaco deve compiere un viaggio antropologico nelle profondità dell'inconscio collettivo. Incontrerà angeli e demoni, proverà terrori, ma anche grazie e estasi... Se si può verificare la verità del dogma nell'esperienza, non ci si può verificare da soli in se stessi. Una guida è dunque indispensabile per imparare la geografia di questi territori poiché c'è il rischio, in questa ricerca, di divinizzare ti proprio io, di credere di pregare Dio mentre si prega se stessi. Questa illusione spirituale è la più tragica perché se nel mondo si è sempre ripresi dall'alterità, la relazione con l'altro, nella vita monastica ci si ritrova di fronte al vuoto vertiginoso. Se non c'è Dio, allora non c'è niente di più idiota al mondo della vita monastica. Colui che non l'ha trovato può divenire pazzo o peggio, una bestia selvaggia. L'accidia (apatia) è un altro pericolo che insidia il monaco. È il demonio del mezzogiorno, quando ci si dice che la metà della giornata è finita e che ancora una volta non è successo niente. Questo demonio incita il monaco ad uscire, gli mormora che il suo combattimento è vano, che la sua vita è un fiasco. In questo preciso momento, il solo mezzo di lottare è riposarsi ed aspettare ore meno nere. Colui che resiste a queste crisi maniaco-depressive, prova, dopo, una gioia ineffabile. Occorre tuttavia che il monaco faccia morire ciò che è, per divenire quel vuoto nel quale può penetrare la luce.
Sono numerosi quelli che non ci riescono?
La maggior parte dei monaci non ci riesce. Tuttavia ciò non è grave, direi anche che è il modo in cui un monaco non ci riesce che è primordiale. Infatti l'insuccesso stesso diventa un modo di avvicinarsi a Dio. La grande lezione del monachesimo infatti è proprio di evidenziare l'infermità dell'umanità, senza la grazia. Il monaco non è un eroe secondo il pensiero di Nietzeche, non è con la sua volontà che giunge al suo scopo, ma con l'idea di lasciar fare a Dio. I monaci donano tutta la loro vita a Dio e mostrano così che c'è una vera beatitudine nel vincere la nostra solitudine, nel creare lo spazio per lasciare entrare Dio.
Questa chiamata divina richiede delle disposizioni speciali?
Non c'è un profilo psicologico particolare per divenire un monaco. Fra i 1800 monaci del monte Athos, le biografie, le sensibilità, le culture sono molto diverse. La vita monastica può raccogliere tutto ciò che costituisce realmente il fondo umano, ma nella solitudine, l'ascesi davanti a Dio. Quando certi pensieri l'assalgono violentemente il monaco scopre il fondo turbolento dell'umanità e trova in lui il furto, l'incesto, il delitto.
Lo stato monastico non protegge da nulla e se il monaco non sperimenta queste realtà, vuol dire che si trova ancora al Club Mediterraneo della spiritualità.
La sola disposizione che mi sembra primordiale consiste nel possedere una sensibilità artistica. Il monaco è lo scultore della sua vita. Senza l'idea che l'esistenza è la nostra prima opera, non c'è vita monastica possibile. La teologia del monaco è dunque quella della bellezza che si distingue dalla filosofia, l'amore della sapienza.
Paradossalmente, questa vita inutile, ma che ha raggiunto l'intimità più profonda dell'uomo, non eleva l'intera umanità?
Una potenza sovversiva si eleva dal monachesimo. È una contro-testimonianza permanente. No, ci dicono, l'umanità, finita, non può definirsi di per se stessa. Che posto lasciamo all'infinito nei nostri amori, la nostra maniera di mangiare, di bere, di lavorare? È il terzo mondo delle nostre vite. Il nostro mondo di abbondanza, di rumore, di piacere ha bisogno dei monasteri come di sentinelle, di fari nella notte. Per questo la gente visita i monaci. Loro soli dimorano in questa estrema concretezza della vita cristiana. Non hanno prezzo.
Risposte redatte da Jennifer Schwarz
(In Le monde des religions, giugno 2009)