Ancora un prete, un prete maledetto, un prete ubriacone. Un eroe negativo questo di Graham Greene (Il potere e la gloria, "Oscar classici moderni", Mondadori, Milano 2009). Il romanzo, pubblicato nel 1940, affonda le radici nel diario di viaggio in terra messicana (Le vie senza legge, 1939) durante il regime sanguinario e anticlericale di Elias Callas. Le vicende del reportage vi diventano ora materiale immaginario, non per questo inverosimile. Il prete maledetto - non meno del tenente suo antagonista - ripropone assai da vicino umori, situazioni, contraddizioni.
Gli scenari sono quelli di una nazione, nei primi decenni del '900, sedotta dall'utopia di una rivoluzione sociale. Di fatto stretta in un potere assoluto e violento. Francisco Madero, Alvaro Obregón, Victoriano Huerta, Pancio Villa, Emiliano Zapata, Venustiano Carranza si intrecciano in un gioco al massacro che non mantiene le promesse. Li accomuna un profondo sentimento anticlericale, un esplicito disegno di cancellare l'istituzione ecclesiastica, colpevole d'avere appoggiato politiche di oppressione. Potremmo interpretare il romanzo come una "caccia' all'ultimo prete rimasto. E, paradossalmente, a essere ancora vivo, obbligato, suo malgrado quasi, ad assolvere i compiti di un ministero più volte tradito, è un prete che si preferirebbe non fosse tale, per la rozzezza umana che lo contraddistingue, per l'incapacità di assolvere ai suoi compiti. La sua è una religiosità statica, ossequiosa di gesti obbligati, in realtà morta, inefficace, inadeguata alla crisi politica, alla domanda dei fedeli, la cui fede è non meno povera, iscritta com'è nel ripetitivo circolo dell'obbedienza e della sottomissione.
Un uomo alla deriva
Solo i capitoli della prima delle quattro parti ricevono un titolo. "Il porto", "La capitale, "ll fiume", "Gli spettatori", contestualizzano gli scenari geo-politici di una fuga che scopriamo in corso d'opera. Un uomo malmesso, vestito di nero, cerca il battello che lo dovrebbe portare lontano. Si intrattiene in inglese con un dentista altrettanto malridotto; scappa più volte un "ora pro nobis", pur negando, a precisa domanda, d'essere cattolico. Due umanità disperate nell'implacabile sole messicano. Dal loro dialogo smozzicato apprendiamo che l'uomo sconosciuto è in cerca di un tale fucilato alcune settimane prima e ancor di più di un goccio d'acquavite.
Ed è la voglia di bere a portarlo a casa del dentista, una baracca abbellita da una vetrata (raffigura la Madonna) sottratta a una chiesa saccheggiata. Apprendiamo che quel villaggio lungo il fiume non era così prima che arrivassero le "Camicie rosse". E nell'intreccio surreale di due solitudini, ecco interferire un ragazzo in cerca di un medico per la madre morente. Medico o no che sia, qualcosa obbliga l'uomo vestito di nero a seguirlo, non senza avere ancora bevuto, non senza aver detto al suo ospite, congedandosi, "pregherò per lei". ll dentista raccoglie il libro che lo straniero ha dimenticato, uno strano libro, la cui copertina nasconde l'interno scritto in latino. Lo sconosciuto arranca in groppa a un asino mentre il battello che avrebbe potuto salvarlo lentamente salpa e prega: "fa che mi prendano presto... fa che mi prendano". L'A. commenta: «era come il re di una tribù africana, lo schiavo del suo popolo, che non può neppure coricarsi, casomai il vento cessi di spirare». Nessun sentimento solidale, nessuna volontà di servizio; solo l'ineluttabilità di un compito, di un penoso dovere a cui è impossibile sottrarsi.
Alla caccia di un prete
Il secondo capitolo disegna grottescamente i persecutori. Manca un prete alla caccia, malgrado si pensasse d'averli fucilati tutti. E da una foto sbiadita, per l'instancabile tenente (aver onorato il compito non gli darà poi gran sollievo), affiora ciò che gli rende il prete odioso: gli erano arrivate troppo presto le cose belle della vita: «il rispetto della gente, una rendita sicura. Il trito verbo religioso sulla lingua, le barzellette per rendersi simpatico, la pronta accettazione dell'omaggio altrui... un uomo felice» (p. 24-25). Emerge altresì l"'orrore" del profumo d'incenso nelle chiese, dei ceri e dei merletti, della presunzione e delle richieste avanzate dai gradini dell'altare «da uomini che non conoscevano il significato della parola sacrificio» (p. 25).
Il quadro della religiosità contro cui insorge il principale e accanito segugio è davvero deprimente nel disegnare la debolezza ossequiente dei vecchi contadini stremati dalla fatica, incapaci di rifiutarsi alla rituale domanda di denaro. Al prete, a un individuo siffatto, è preferibile un bandito. Quello stesso per cui, per portargli conforto, il prete finirà con il farsi prendere in trappola (pp. 199ss.). Dinanzi alla necessità di cancellare dalla terra questa genia di sfruttatori, l'astuzia di mettere a morte a caso un abitante dei villaggi presso cui potrebbe trovar rifugio il fuggiasco, così da spezzare il cerchio solidale di chi di lui si avvale e lo protegge.
C'è certamente un che di delirante nell'accanimento. Ma le violenze di cui l'A. parla non sono immaginarie. Realmente a centinaia furono uccisi preti e fedeli, considerati responsabili di quella intollerabile povertà e di quello sfruttamento contro cui avrebbe dovuto dirigersi la rozza utopia dei presidenti e generali già ricordati. L'epopea della fede, della sua difesa, la sua povera e ingenua trasmissione, trova posto anch'essa nel romanzo. La esemplifica, evocata ben tre volte, la storia del piccolo Juan che muore gridando "Viva el Cristo Rey!". La si narra e rinarra nel segreto di quella famiglia che ha accolto e nascosto per un giorno il “prete spugna” (così ubriaco da battezzare un maschietto con il nome di Brigitta). Ma non c'è solo quest'ultimo a turbarne la fede; c'è anche padre José che per restar vivo ha accettato di sposarsi e trascina tristemente i suoi giorni pensando con invidia ai confratelli che hanno scelto di morire e la cui breve sofferenza ha ricevuto il nome di martirio... «...la Chiesa è padre José e il prete spugna... che io sappia non ce ne sono altri. Se la Chiesa non ci piace, be' allora dobbiamo lasciarla» (p. 30), dice il capofamiglia alla moglie.
Un finale imprevisto
Paradossalmente il fuggiasco trova asilo in persone straniere, magari d'altra religione. Lo vediamo, alla fine, ospitato da una strana coppia di evangelici. È la sua ultima spiaggia: tra indios poverissimi esercita le sue funzioni, circondato da affetto e da rispetto. Da lì dovrebbe muoversi rinfrancato oltre il confine. Invece se ne allontana, ritornando indietro e mettendosi definitivamente nelle mani dei nemici, complice un ambiguo meticcio, motivato a consegnarlo non da ragioni ideologiche, ma dalla taglia che pende su di lui.
Lungo il romanzo lo abbiamo veduto confessare, celebrare... In uno dei villaggi ben da cinque anni non era passato nessun prete. La fuga disperata lo riporta là dove ha consumato l'atto più riprovevole, là dove s'è unito per pochi minuti a una donna rendendola madre. Eppure Maria, così si chiama, seguita a chiamarlo padre, a trattarlo da prete. Protesta vedendogli addosso abiti non suoi. Scopriamo così che Brigitta è il nome della figlia. Per lui la donna ha pronta l'acquavite, l'anestetico dell'anima a cui egli ricorre, l'unico che lo renda impavido… La comunità, la sua comunità, vorrebbe che se ne andasse. Eppure egli resiste, testardo. È l'unico prete. «Senza di lui, sarebbe stato come se Dio avesse cessato di esistere...» (p. 75). Celebra mentre i soldati si fanno sempre più prossimi; assiste mescolato agli altri all'interrogatorio cui è sottoposto il villaggio; lo scagiona la stessa figlia indicandolo come suo padre. E, dinanzi alla scelta dell'ostaggio, si offre inutilmente: chi gli sta dando la caccia non lo riconosce e lo lascia andare.
Potremmo osservare che il “prete spugna” non è cosi perverso come appare. Qualcosa si è spezzato dentro di lui. È morto nel venir meno ai suoi doveri, all'immagine ideale di sé che s'era costruita. L’automatismo dell'assolvere la sua funzione, lo stesso offrirsi come ostaggio (senza rivelare chi veramente sia) rientrano in un tran-tran che non lo soddisfa, che non lo eleva, che non lo giustifica. Il dramma non è la fuga, pure tentata in ogni modo, quanto piuttosto il consuntivo del proprio fallimento, tanto più grave quanto più immediato e ingenuo, magico quasi, è il riconoscimento del suo ministero.
Una redenzione finale
Alla fine anche il “prete spugna” viene annoverato tra i martiri. Finisce la sua vita contro il muro del cimitero, senza aver ricevuto la pur bramata assoluzione. Ha sempre avuto coscienza delle sue azioni, perciò non riesce ad assolversi. Le sue ultime ore sono nel segno dell'acquavite e di una difficile domanda di perdono che nessuno ascolta.
«Come sono inutile; non ho fatto niente per nessuno: come se non fossi mai vissuto...». A questo punto però non è più la paura a segnarlo, né del dolore, né della dannazione. È solo deluso «di doversi presentare davanti a Dio a mani vuote, senza un'opera da offrire. Gli parve in quel momento, che sarebbe stato così facile essere un santo... Si sentiva come chi, per pochi secondi, avesse mancato l'appuntamento con la felicità. Adesso sapeva che, alla fine, una sola cosa conta veramente: essere santi» (p. 236).
Il “prete spugna”, dunque, si redime e la sua morte non è vana. Né d'altra parte è l"'ultimo prete". Gli subentra un altro, uno sconosciuto, sbarcato dopo aver risalito il fiume di notte. Ed è accolto con quell'immediato gesto di rispetto - il bacio della mano - comprensibile nell'immaginario dell'A., convertitosi al cattolicesimo nel 1926, ma inquietante per noi che, sociologicamente, vi cogliamo un atto di sottomissione, non il riconoscimento di un servizio.
Cettina Militello
Docente alla Pontificia Facoltà Tèologica Marianum
(in Consacrazione e Servizio, n. 3, 2010)