Vita nello Spirito

Lunedì, 26 Marzo 2012 21:11

Mosè, un roveto che arde e non brucia: Es 3,1-22 (Sandro Carotta)

Vota questo articolo
(4 Voti)

I volti nelle Scritture. Il libro dell'Esodo ci rimanda al deserto, all'Oreb, dove Mosè, in un roveto che brucia e non si consuma, ha udito per la prima volta la voce di Dio.

 «Ogni giorno, quotidianamente,
la voce divina
scaturisce dal Sinai»
(Mishnà Avot 6,2).

Ecco come il Libro dei Numeri descrive Mosè, la grande guida di Israele:

«Ora Mosè era un uomo (ish) assai umile (anaw), più di qualunque altro sulla faccia della terra» (Nm 12,3).

Mosè è un anaw, cioè un uomo povero, mite, umile; un uomo strettamente legato alla terra, da cui proviene (cf. Gen 3,19). Eppure a quest'uomo Dio ha parlato "bocca a bocca" (Nm 12,8), cioè a viva voce, come accade in un dialogo tra due persone (cf. Es 34, Il; Dt 34,10). Anche per questo la tradizione islamica definisce Mosè come Kalimallah, interlocutore di Dio. Qui troviamo il tratto forse più originale di Mosè: non solo come tutti i figli di Israele, si è posto in ascolto di Dio, di quel Dio che parla e non si vede (cf. Dt 4,11-12), ma questo suo ascolto è maturato in un dialogo. Se ci chiediamo dove questo è avvenuto, il libro dell'Esodo ci rimanda al deserto, all'Oreb, dove Mosè, in un roveto che brucia e non si consuma, ha udito per la prima volta la voce di Dio.

1. L’incontro

«Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio (Elohim), l'Oreb» (Es 3,1).

Due elementi ci fanno subito comprendere che siamo davanti ad una grande svolta per Mosè: il monte e il nome del monte, l’Oreb.
“Monte”, in ebraico har, ha la medesima radice di harah e "incinta". Ad una lettura simbolica possiamo dire che nel suo incontro con Dio, sta per essere generato. Difatti dalla parola di Dio viene a comprendere maggiormente se stesso e il suo legame con Israele schiavo in Egitto. Non a caso in questa linea interpretativa, il Dio che si rivela è l’Elohim. Che cosa significa? "Elohim" è una forma plurale e nella Scrittura viene utilizzata in riferimento alle divinità straniere. In questo caso verbo e aggettivi assumono anch'essi la forma plurale. Quando invece Elohim è riferito al Dio di Israele le regole grammaticali vengono ignorate, e il termine è considerato non una forma plurale ma singolare. Chiaramente questo non per caso; Elohim è usato come collettivo, per dire che tutti i poteri che un tempo appartenevano alle divinità straniere sono riassunti in Dio. L'Elohim è poi il Dio delle separazioni, Colui che crea separando (cf. Gen 1). L'atto della nascita comporta sempre un taglio, una separazione.
Il monte, poi, si chiama Oreb. Oreb deriva da h'arav, che vuol dire "distruzione". Il monte della maternità è un luogo distruzione. Come far coincidere questi due aspetti apparentemente contraddittori? L'incontro con il Dio di Israele al roveto segna per Mosè un' auto-coscienza più matura della sua identità missione. Questo, naturalmente, non senza un travaglio (in tremini più moderni possiamo parlare di destrutturazione e ristrutturazione). Incontrare Dio significa morire per poi rinascere. Emblematico è l'episodio narrato successivamente, quando sta per recarsi in Egitto e Dio, di notte, cerca appunto di morire (cf. Es 4,24-26). Mosè è salvato grazie all'intervento di Zipporà, che circoncide il figlio e con il sangue tocca i genitali di Mosè. Sembra che questo gesto sigilli un percorso che ha visto Mosè dapprima egiziano e straniero, e ora ebreo a tutti gli effetti.

2. La fiamma nel roveto

«L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava» (Es 3,2).

Dio si presenta come il mal' ak JHWH (l'angelo del Signore). Nella Scrittura il mal'ak JHWH è sempre portatore di salvezza ( cf. Gen 16,7 -11). Possiamo tradurre questo nome di vino anche con "Colui che fa essere". Al roveto, Mosè incontra il Dio vivente, il Dio della vita. Lo incontra, abbiamo detto, al roveto, e in un roveto in fiamme. Che cosa significa?
Nel roveto (senè), possiamo individuare Mosè stesso. Molto tempo è trascorso dai fatti dell'Egitto. Per At 7,30-34 Mosè ha ottant'anni. L'insuccesso delle sue imprese egiziane, che poi ne hanno provocato la fuga, forse gli bruciano ancora dentro, sono come delle spine che lo feriscono. Bene, dentro questa sofferenza, che brucia interiormente, e che lo fa sentire come una sorta di roveto spinoso e arido, egli rilegge la sua storia passata e scopre dei segni che lo hanno accompagnato. Dalla tevà (cf. Es 2,3), che lo ha salvato dalla demenza del Faraone, al luogo che lo ha accolto nella sua erranza: Madian, dove ha ritrovato le tradizioni e il modo di vivere dei suoi padri (nomadismo e pastorizia).
Mosè è tutto preso da questa visione, dal prodigio di un roveto che arde e non si consuma. Nel testo ebraico la frase inizia con un verbo al passato a cui segue un verbo al presente. Letteralmente leggiamo: «E vide ed ecco il roveto brucia nel fuoco e il roveto non è lui stesso consumato». Questo è significativo, soprattutto per il lettore, in quanto, con questo espediente letterario, è posto davanti alla medesima esperienza di Mosè.

3. Vedere o ascoltare?

«Mosè pensò: "Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?". Il Signore vide che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: "Mosè, Mosè!". Rispose: "Eccomi!"» (Es 3,3-4).

Davanti al prodigio, Mosè osserva per un tempo prolungato. La meraviglia fa poi sorgere in lui la domanda: «Perché non brucia?». Ecco, Dio vuole proprio questo, vuole che l'uomo si interroghi. Solo allora parla. Quando l'uomo presta attenzione alla sostanza della realtà, quando impara ad accogliere il mistero Dio risponde. E se è vero che Mosè si sposta per vedere, Dio stesso osserva questo movimento e lì lo chiama per nome: «Mosè, Mosè!». Il messaggio è chiaro: bisogna ascoltare quanto ci circonda, quanto vive in noi stessi, quanto accade nella storia . Ciò che poi unifica fatti e situazioni in una logica salvifica è la voce di Dio, la sua parola. Una parola che crea, definisce e sorregge la realtà; una parola nella quale l'uomo può sempre ritrovare se stesso e la sua verità più profonda. A questa parola, Mosè risponde con l'assenso della fede: «Eccomi!» (hinneni).

4. La terra santa

«Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!» (Es 3,5).

Se Mosè voleva vedere, Dio gli dice di non avvicinarsi. C'è l'ordine di togliersi i sandali. Cerchiamo di capire. Dio non dice a Mosè: «Il luogo sul quale io sto è un suolo santo», ma «Il luogo sul quale tu stai (in piedi) è un suolo santo». Il luogo santo è dove gli uomini poggiano i piedi, dove - fuori metafora - stanno in posizione eretta, simbolo della loro dignità. L'uomo nella sua dignità è un luogo santo (adamat-qodesh hu). Nell'incontro con Dio, Mosè (e in lui ogni uomo) è rimandato a se stesso; nella luce divina coglie la sua dignità. Ma per fare questo deve obbedire al comando di Dio, quello di togliersi i sandali cioè scoprire il piede, metterlo a nudo. Bisogna sapere che il termine "sandali" (na' al) deriva da un verbo ebraico che significa "chiudere", "stringere". Quando Mosè si libererà da tutto ciò che lo tiene compresso, chiuso, stretto scoprirà pienamente la sua identità e vocazione nelle quali risplende la sua dignità di uomo e credente.
Mosè perviene poi ad un' altra rivelazione di Dio; Colui che gli sta parlando dal roveto è il Dio dei padri. Questo gli ricorda che una storia lo precede; una storia di fede, che ora giunge a lui e lo interpella. Infine, nel manifestare a Mosè il progetto di liberare Israele dalla mano dell'Egitto (cf. Es 3,7-10), Dio fa emergere il tratto più originale che ha sempre caratterizzato la sua relazione con il popolo: la fedeltà. E il Dio fedele che Mosè incontra al roveto, ai piedi del monte Oreb.

5. L'Emmanuele

Mosè risponde prontamente a Dio. Formula però anche una domanda: «Chi sono io per andare dal Faraone e far uscire gli Israeliti dall'Egitto?» (Es 3,11). «Chi sono io?» (Mi anòchi?). Prima ancora di Dio è la sua stessa biografia a rispondere: è l'unico bambino scampato dall'infanticidio perpetrato dal Faraone, è un uomo colpevole di omicidio e, infine, è un pastore di Madian. Di sé dirà di essere un emigrato (gher) in terra straniera (cf. Es 2,22) e chiamerà Gherson (da gher) il suo primo figlio. Che cosa risponde Dio? «lo sarò con te. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte» (Es 3,12). La risposta di Dio è alquanto strana. «Io sarò con te» (Eié immàc). Mosè è un uomo che avrà Dio con sé lungo tutta la sua vita. La sua identità è perciò determinata da questa presenza. Gli viene dato persino un segno: il servizio. Servire Dio significa vivere un rapporto particolare con Lui, rapporto che la Scrittura definisce alleanza. Mosè pone allora un' altra domanda, relativa questa volta al nome stesso di Dio. Dio risponde:

«lo sono colui che sono!". E aggiunse: "Così dirai agli Israeliti: "lo sono mi ha mandato a voi"". Dio disse ancora a Mosè: "Il Signore, il Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi". Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (Es 3,14-15).

Eiè ashèr eiè («Io sono colui che sono») è una risposta e, a rigore, abbiamo grammaticalmente per due volte il futuro del verbo essere alla prima persona. Letteralmente dovremmo tradurre: «Sarò colui che sarò». Dio non rivela la sua essenza, ma comunica, nel suo nome, la sua fedele presenza, come dicevamo, lungo la storia. Ma non è tutto: al v. 15, si presenta con il nome di JHWH, il tetragramma sacro, il Nome ineffabile e impronunciabile. Anche il tetragramma non è il le di Dio, ma la Sua apertura sul tempo, sulle dimensioni del tempo umano: il passato, il presente e il futuro. Il Dio del roveto, che ha fatto udire la sua voce a Mosè, come la farà udire al popolo di Israele, è un Dio che entra nella storia, l'Emmanuele che libera dalle svariate forme di schiavitù e stabilisce l’uomo nella sua comunione di vita.
Così R. M. Rilke si rivolge al Dio vicino:

«lo sempre sto in ascolto. Da' un piccolo cenno. Sono molto
Sono molto vicino.
Soltanto una sottile parete sta tra noi,
per caso; e dunque, potrebbe accadere:
un richiamo della tua o della mia bocca -
e crollerebbe lei
completamente, senza suono né fragore».

Sandro Carotta*

* Monaco dell'Abbazia "S. Maria Assunta" di Praglia, Teolo (PD).

(da La Scala, n. 3, 2010, pp. 170-175)

 

Letto 12648 volte Ultima modifica il Martedì, 27 Marzo 2012 21:49
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search