Il cinema va nella direzione contraria della realtà? Strano, ma vero. In un tempo dove in vari campi dell’esistenza molti ipotizzano di compiere, improvvisare, bleffare o continuare a fare ciò che non sanno essere, sul grande schermo cresce invece il numero degli inadeguati che ammette di esserlo. Alla fila di Giorgio VI de Il discorso del re si accoda ora anche sua santità Melville protagonista di Habemus papam. Dopo i sudditi inglesi disorientati dalle balbuzie regie, è la volta dei cristiani urbi et orbi che, dopo la tanto attesa fumata bianca, ai piedi del balcone attendono un saluto che tarda ad affacciarsi, anestetizzando il gaudium magnum proclamato dal cardinale camerlengo. Se il sovrano inglese accompagnato dal suo logopedista affrontava il limite afferrando alla fine lo scettro regale, tra sofferenza e umiltà, il neoeletto francese getta invece la spugna malgrado in suo soccorso corrano i migliori psicanalisti sulla piazza. Nessuna fiducia in sé o mancanza di fede?
Tra pochi giorni in concorso alla 64ª edizione del Festival di Cannes Nanni Moretti, assente alla regia ormai dal 2006 con il tormentato Caimano, rientra in pista con una storia geniale scritta con Federica Pontremoli e Francesco Piccolo sulla fragilità umana. Benché si tratti di un film in gran parte chiuso a chiave in Vaticano, tranne qualche esterna nella città di Roma, vi si respira un Moretti più libero dalle sue convinzioni che garantisce significati e interpretazioni che ben si spingono al di là dell’Oltretevere.
Un gioco di sguardi. Habemus papam si apre con un preambolo su San Pietro di immagini di repertorio tratte dai funerali di Giovanni Paolo II. Si parte da un punto di vista distaccato, quasi documentaristico, che ritroveremo solo verso la fine replicato da una folla disorientata stavolta non più dall’assenza della dipartita bensì dal rifiuto di chi rimane in vita. La distanza del pudore cede poi il passo ad un occhio più invasivo che si posa sui volti dei cardinali come un corvo che tira a campare con la speculazione sulla morte, il conclave e la crisi del neoletto. L’osservazione morbosa dell’informazione televisiva, a cui non si sottraggono nemmeno le telecamere del servizio pubblico, si aggiudica la critica più feroce e diretta dell’ultimo Moretti.
Il punto di vista cambia nuovamente quando le porte si chiudono al mondo e il regista ci mostra quello che, secondo lui, può accadere in un conclave. Essendo una delle rare forme di privacy mantenuta nell’era contemporanea, il conclave come oggetto di sceneggiatura assicura una licenza poetica che consente di fare una commedia senza essere dissacranti, di inventare un modus vivendi di un evento riservato solo ad un centinaio o poco più di porporati senza le briglie della fedeltà ad una verità volutamente non condivisa. Qui lo sguardo della macchina da presa si fa sempre più vicino e partecipe su papa Melville (lo stupendo Michel Piccoli) e i suoi elettori; a tratti sornione, ironico ma pure affettuoso, umano, perfino tenero.
Si scava ancora più in profondità con il sopraggiungere dall’esterno dello sguardo intimo dello psicanalista Brezzi, interpretato dallo stesso Moretti, chiamato ad aiutare il pontefice smarritosi di fronte al nuovo incarico. Un occhio già discreto per segreto professionale che comunque, senza preavviso, viene rinchiuso a chiave “negli appartamenti” con una Bibbia sul comodino come unico intrattenimento del soggiorno obbligato.
Anche se l’anima non è l’inconscio, come si affretta a ribadire un cardinale, la situazione si fa così complessa e rischiosa che la Santa Sede ammette anche la terapia freudiana gestita per di più da un non credente. Quando il pontefice in libera uscita si affida alla ex moglie di Brezzi (pochi attimi di Margherita Buy), anch’ella psicanalista con il tarlo del “deficit di accudimento”, e tra le mani del marito rimangono solo (si fa per dire) i cardinali, si raddoppiano gli sguardi della messa in scena con un efficace gioco ad incastro.
Come se gli specchi non fossero ancora abbastanza, completa la carrellata l’incontro del santo padre fuggitivo con una compagnia teatrale che, portando in scena Il gabbiano di Čechov, recupera la sua storia personale che i cardinali avevano sconsigliato caldamente di utilizzare a sostegno delle conversazioni terapeutiche assieme ai sogni e le idee di realizzazione, i ricordi d’infanzia e il rapporto materno e, immancabili, le tematiche sessuali.
La molteplicità dei punti di visione, messa in campo in modo elegante e strategico in parallelo dalla regia e dalla sceneggiatura, aumenta e intreccia in modo esponenziale le letture e le interpretazioni dell’opera che si possono azzardare e di cui tentiamo almeno due approcci.
La “Stanza delle lacrime”. Nel 2001 il Festival di Cannes premiò con la Palma d’Oro il film di Moretti, La stanza del figlio, nel quale egli già interpretava la parte di un padre psicanalista molto sportivo. I suoi pazienti illustri avevano il ruolo di restituire come in uno specchio il profilo del terapeuta che emergeva nelle varie sedute e occasioni d’incontro.
Dieci anni dopo Moretti cambia stanza ma mantiene hobby e professione e corre in aiuto di sua santità che uscito con i paramenti papali dalla “Stanza delle lacrime” – così è soprannominata la sacrestia della Cappella Sistina –, dovrebbe affacciarsi alla Loggia delle Benedizioni per aprire ufficialmente il suo pontifica-
to. Brezzi, come il logopedista di Tom Hooper, non deve sapere il nome del suo paziente. Nella “Stanza delle lacrime” avviene davvero quello che il nome porta con sé: la vestizione diviene il simbolo del peso immane di cui il nuovo successore di Pietro dovrà farsi carico tanto che la successiva uscita nel mondo circostante per trovare pace avverrà proprio come contraltare con i vestiti borghesi.
Lontano da ogni commozione di gioia, il pontefice è vittima di un senso di soffocamento, di panico di fronte all’imponenza del futuro. Non come si usa dire di solito in modo retorico in simili circostanze, si sente davvero inadeguato. Più volte invoca di essere aiutato e percepisce che la Chiesa ha bisogno di un pastore comprensivo che sappia parlare a tutti. Come dirà alla fine: «C’è bisogno di uno che sappia condurre e io invece ho bisogno di essere condotto».
La gestione del potere, come un’esperienza ardua che spaventa e deprime, è il motore del film tanto che le invocazioni intime dei cardinali in conclave non sono tanto per il futuro eletto, quanto perché il Signore non li elegga. «Non io, Signore» mette in bocca ai cardinali il regista da cui ci si sarebbe aspettato piuttosto uno stuolo rosso porpora di carrieristi pronti a tutto pur di essere eletti. E invece sono colpevoli solo di eccessiva autostima come lui d’altronde, che si definisce il più bravo. Da bravo professionista del dialogo, con il giochetto delle quotazioni dei bookmakers inglesi sul conclave o con le partite a scopa, smaschera questa sicurezza siglata però dall’imprevisto egoismo di non voler per sé questo ruolo. È una condanna essere il più bravo tanto nella psicanalisi quanto nella teologia e nella pastorale. Lo sa Brezzi. Lo sanno i cardinali.
La capacità cooperativa che in loro manca e che lo psicanalista sottolinea con il torneo di pallavolo, emerge in negativo nella capacità di coalizzarsi contro la possibilità che il conclave riprenda con nuove votazioni. La visita in teatro di una delegazione vaticana (cardinali, monsignori, suore…) per riportare a casa una sorta di Pinocchio sperdutosi nel mondo, dove lui potrà recarsi in futuro solo in “tournée”, risulta drammatica e malvagia perché diviene una sorta di imboscata tesa a Melville ad opera dei cardinali per salvare se stessi. Rivelando all’esterno la sua identità, sono convinti di costringerlo ad uscire allo scoperto e di non fingere
una presenza figurante nell’ombra. Tutti cercano di mandare avanti un rituale e con esso il nuovo corso che non può subire imperfezioni e men che meno interruzioni. Ammirevole quanto deplorevole in questa indefessa tensione il portavoce vaticano.
Domande senza risposta. Se la riflessione di Habemus papam sul ruolo e il potere è universale e applicabile ad ogni sfera della vita oltre le dinamiche interne del Vaticano, è innegabile che nel film si tratteggi anche un discorso critico, se non sulla fede, quantomeno sulla Chiesa cattolica.
Rimanendo fedeli al tipo di estetica che Moretti dedica ai vari passaggi narrativi, i toni più sferzanti non risultano quelli riservati alla panoramica sui cardinali che si barcamenano tra gocce tranquillanti e partite a carte ma lontani da intrighi e trame degni di palazzo. Talvolta teneri (uno che si sveglia di notte chiamando la madre), altre volte al passo con i tempi (uno che dice il breviario con la cyclette) o d’altri tempi (uno che invoca palla prigioniera al posto della pallavolo) o surreali (uno che si rilassa con un puzzle) e altre volte ancora satirici (una brigata desiderosa di cappuccio con bombolone con annessa gita mondana nella città eterna). E se non li avesse dipinti così, tutti pronti con i cannoni perché non li ha resi in modo umano. Non si può certo dire che il regista si sia lasciato influenzare dagli scandali di ogni genere che hanno colpito il clero di tutto il mondo.
Ma è il papa il più umano di tutti: incarnato nel panico e nella crisi che attanaglia l’uomo contemporaneo di cui è consapevole. Impensabile? Qui sta il punto: manca la fede in quest’uomo perché rifiuta di essere la guida della Chiesa di Roma? Eppure lui stesso assicura che problemi con la fede non ne ha. Avere fede si esprime solo con un “sì” indiscriminato, ancor più se si tratta del papa? È da infedeli fare i conti con i propri limiti? Non si avalla un processo perverso per cui, dietro la maschera della fede, si giustifica ogni incapacità che non aiuta la Chiesa stessa? Tutte domande sullo sfondo mo-rettiano che scavalcano le transenne di San Pietro e che non dovrebbero lasciare indifferenti nemmeno gli spettatori cristiani più convinti.
Voci autorevoli della stampa cattolica hanno ipotizzato che Moretti, da non credente, abbia concluso Habemus papam con le dimissioni di Melville perché l’assenza di Dio nella sua vita non gli consente di intravedere un ulteriore sviluppo di una crisi così intensa. E se la fede servisse anche per ammettere i propri limiti? Dio può dirsi davvero assente perché il cardinale vuole rimanere soltanto tale? “Cambia il pastore il suo pascolo” canta Mercedes Sosa nella stupenda Todo cambia che sua santità ascolterà nel suo vagare romano come un indifeso del Vangelo. Anche un rifiuto può cambiare il mondo? Anche un “no” può testimoniare un “sì”? Nessun vilipendio alla religione, men che meno “condoglianze” alla Chiesa o offese al papa, solo molte domande universali per chi vuol sentirle.
Arianna Prevedello
(da Settimana, 1 maggio 2011, n. 17)