Vita nello Spirito

Domenica, 29 Maggio 2011 19:31

Come educare i giovani alla "fiducia" nelle scelte vocazionali (Amedeo Cencini)

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Partiamo da quello che sembra essere l’elemento centrale e strategico: la fiducia nella scelta vocazionale e con l’intento, come sempre, di fornire alcune indicazioni utili, soprattutto per quel povero cristo d’animatore vocazionale a volte tentato dal contrario della fiducia.

 

Amorevoli come una madre... incoraggiandovi come un padre”  (1 Ts 2,7.12)

 Come educare i giovani alla "fiducia"
nelle scelte vocazionali

 

 di P. Amedeo Cencini

Vi sono alcuni termini strategici nel titolo della nostra relazione e nell’occhiello che la solerte segreteria del CNV invia al relatore per spiegargli il piano generale di chi ha ideato il tema di questo incontro. I termini sono: tenerezza, paure, resistenze, fiducia, scelte vocazionali. Termini che senz’altro sono stati almeno implicitamente toccati dalle relazioni che hanno preceduto questa mia finale, secondo varie angolature tra loro complementari. E che noi cercheremo di considerare da un preciso punto di vista, quello pedagogico.

1. Fiducia

Partiamo da quello che sembra essere l’elemento centrale e strategico: la fiducia nella scelta vocazionale e con l’intento, come sempre, di fornire alcune indicazioni utili, soprattutto per quel povero cristo d’animatore vocazionale a volte tentato dal contrario della fiducia.

La fiducia sembra oggi, nella cultura odierna, come un valore in via d’estinzione, la cui assenza determina crisi a vari livelli: da quella dei mercati finanziari a quella dei governi politici (che chiedono – a volte senza meritarla - la fiducia), da quella dei giovani nei confronti degli adulti a quella degli adulti nei confronti dei giovani, da quella dei preti in crisi di fiducia nel loro ministero a quella classica dell’animatore vocazionale che la fiducia spesso se la deve guadagnare, o perché non ne ha granché in se stesso o perché non ce l’ha per il suo lavoro, o perché respira sfiducia nell’ambiente o perché gli viene data dai Superiori in modo condizionato - una fiducia condizionata, come la libertà di certi imputati…-, cioè a partire dai risultati, o in proporzione al numero di vocazioni che riesce a conquistare. E allora che fiducia è? Figuriamoci come un animatore in queste condizioni potrà dare fiducia a un giovane perché faccia un’autentica scelta vocazionale. Ma un convegno vocazionale è per natura sua una risposta alla crisi di fiducia: chi vi partecipa evidentemente ha fiducia. Chi lo organizza ancor di più.

Dal  momento che trasmettere fiducia non è un atto automatico, è necessario riflettere su di essa e sulla sua dinamica, sulle sue radici e la sua evoluzione.

1.1 Componenti e peculiarità

Fiducia, in un senso ancora molto generale, vuol dire un atteggiamento complesso interiore, un modo di guardare a sé e al mondo, agli altri e a Dio, come una percezione-intuizione d’una sostanziale positività dentro e attorno a sé, legata all’io e al tu, a qualcosa di vero-bello-buono che m’attira e che avverto di poter raggiungere o che comunque sento amico e accogliente.

Lo specifico della fiducia è espresso ancor meglio dal verbo che la esprime: mi fido. Che sta a significare, fondamentalmente quattro cose o sensazioni:

  • Anzitutto la combinazione di queste percezioni positive: verso l’io e il tu, verso la realtà esterna e la realtà stessa che mi sta dinanzi o che in qualche modo m’attrae (come ad esempio una scelta di vita); l’importante è che queste sensazioni siano avvertite assieme, ovvero l’autentica fiducia è un atteggiamento globale, universale (se uno non si fidasse almeno un po’, implicitamente o esplicitamente, di sé e delle sue capacità, degli altri e del loro senso di rispetto, della terra e della sua fecondità, di Dio che nutre e feconda la terra, non pianterebbe mai un albero; così come se due genitori non si fidassero l’uno dell’altro, ma anche della vita attorno a sé e di Dio, datore della vita, non si metterebbero mai a far figli).
  • Nel gesto del fidarsi, c’è anche la percezione di qualcosa che sfugge al controllo del soggetto (come quando uno si trova dinanzi a scelte che toccano il suo futuro che evidentemente non conosce, oppure quando la scelta coinvolge un’altra persona), o qualcosa che non è del tutto motivato razionalmente, o qualcosa di difficile per le proprie capacità, quasi d’irrealizzabile in prospettiva futura (ad es Maria di fronte all’Angelo che le rivela il piano “impossibile” di Dio su di lei);
  • Nel primo caso la fiducia è come un dar credito all’altro (di cui mi fido), il fidarmi del quale equivale come a un consegnarmi nelle sue mani, ad affidarmi a lui, ad abbandonarmi (ad es il matrimonio o un’amicizia, ma soprattutto l’innamoramento è fiducia alla radice e al massimo grado, così pure l’atto di fede è “fatto” di fiducia, e il bambino che si fida della madre ne è l’esempio più chiaro); nel secondo caso il fidarsi assomiglia a una scommessa, come un colpo di testa cui è legato un rischio (es Pietro che getta le reti dall’altra parte della barca fidandosi della, o scommettendo sulla, Parola del Maestro; ma anche la scelta vocazionale sa di scommessa, non tanto su di sé, ma su Dio).
  • Di conseguenza da un lato la fiducia è gesto libero, proprio perché nella fiducia non c’è alcuna costrizione, anzi, chi si fida va oltre anche il razionale (e a volte il ragionevole) e sembra sfidare l’impossibile proprio in forza della sua fiducia; d’altro lato, però, è naturale per l’uomo fidarsi, lo deve fare… per forza, in ogni scelta c’è sempre un margine non controllato dal calcolo e gestito proprio dalla fiducia. L’essere umano “deve” consegnarsi a qualcosa o a qualcuno, è fatto per abbandonarsi all’altro, a chi o a che cosa lo deciderà lui, ma non può farne a meno1. E se per caso si metterà in testa di non volersi consegnare a nessuno (“io mi basto a me stesso”) diventerà prima o poi dipendente da qualcosa che lui stesso ignora.

Già da questa riflessione iniziale possiamo dedurre che l’atto del fidarsi è tipicamente e profondamente umano, e pure fondamentale per l’atto di fede (molti credono, pochi si fidano), così come è un atto assieme personalissimo e del tutto relazionale, ma è anche libero e assieme necessario.

1.2 Somiglianze e dissomiglianze

Sorella quasi gemella della fiducia è la speranza, ma con una differenza significativa. Entrambe dicono la positività dell’atteggiamento profondo della persona, quel certo ottimismo che viene dalla fede, in particolare; entrambe dicono ancora l’atteggiamento aperto al futuro; ma mentre la speranza fondamentalmente attende dall’altro, forse con certa passività, l’attuazione del desiderio (o del sogno), la fiducia implica pure la disposizione interiore e attiva del soggetto che s’abbandona, che si consegna all’altro, alla vita, a Dio. C’è molta contiguità tra questi due atteggiamenti virtuosi.

Al  contrario, alla fiducia s’oppone una serie di atteggiamenti che vanno dal sospetto più o meno generalizzato all’agire calcolato, dalla diffidenza verso l’altro al rifiuto di far qualsiasi cosa che sia percepita al di sopra delle proprie capacità, dall’esagerata timidezza a un malinteso senso dei propri limiti, dalla paura dell’altro al timore di fare brutta figura, dalla prudenza che è falsa quando inibisce le scelte all’incapacità di sognare e desiderare in grande, dallo sguardo amaramente scettico su tutto e su tutti alla pretesa di fidarsi solo di sé e delle proprie cose, della propria gente e della propria razza…Insomma uno scenario niente male e per niente lontano dalla realtà che stiamo vivendo! E che va inevitabilmente a influenzare la capacità decisionale dell’essere umano: senza fiducia è molto difficile la scelta, particolarmente quella vocazionale.

2. La scelta

La scelta è momento strategico della vita umana, è il momento nel quale l’evidenza del mistero nella vita umana si dà in maniera particolare: quando l’uomo sceglie è inevitabilmente posto dinanzi al mistero, anche se non lo sa, al mistero di sé, dell’altro, della vita, di Dio se è credente, ma anche se non lo è. E, scegliendo manifesta quel che ha in cuore, soprattutto se la scelta è ponderata e rappresenta una decisione rilevante per la vita.

Vorremmo cercare di cogliere una pedagogia della scelta, partendo dalla situazione culturale in cui ci troviamo oggi, per veder poi gli elementi costitutivi della scelta, e ciò che distingue la scelta cristiana dalla scelta puramente umana, e infine dare alcune indicazioni pedagogiche.

2.1 Cultura dell’indecisione (o paura di scegliere)

Oggi viviamo, potremmo dire, addirittura in una cultura dell'indecisione, e i giovani d'oggi, figli di genitori, o con educatori, insegnanti, preti… indecisi, sono esattamente una generazione d'indecisi. La crisi vocazionale non è forse segnale preoccupante proprio di questa situazione? Laddove ciò che preoccupa non è tanto il vuoto più o meno desolante di seminari e noviziati, quanto la mancanza di quell'atteggiamento fondamentale di scelta che ogni giovane dovrebbe avere dinanzi alla vita in genere e al suo futuro in particolare, qualsiasi esso sia. Tale atteggiamento assume forme variegate e interessanti, ma tutte, senza distinzione di sorta, prive della dimensione del mistero e caratterizzate da una crescente paura, la paura di scegliere. Vediamo alcune di queste forme partendo dal livello più povero e inconsistente.

a) La non scelta

È il livello zero, tipico di chi vorrebbe non scegliere mai, se potesse, e quando proprio deve fare una scelta (da quella dell'indirizzo scolastico a quella delle vacanze) la rimanda all'ultimo momento, o traccheggia all'infinito, assalito da dubbi e conflitti o semplicemente tranquillo e adattato allo status dell’homo indecisus.

Di fatto, queste persone scelgono pochissimo nella vita, e rischiano soprattutto di non prender mai posizione dinanzi ai grandi problemi dell'esistenza, restando sempre in una posizione amorfa e neutra, senza mai il coraggio e l’intelligenza di mente e di cuore di porsi dinanzi al mistero. Per giungere magari al termine della vita senz'aver ancora deciso di vivere. Si nasce, infatti, per una scelta altrui, ma la qualità della vita, e normalmente anche della morte, è legata a una decisione propria!

b) Scelta delegata e del “così fan tutti”

In realtà è impossibile non scegliere nella vita; chi pretende viver così si ritrova a dover subire, magari senza accorgersene, scelte fatte da altri al suo posto, come avesse dato la vita (e il cervello) in appalto a qualcun altro. È il caso di giovani, anzitutto, che sembrano subire i propri istinti e sentimenti, divenendone succubi, anche senza saperlo, come dei primitivi adoratori di entità sconosciute o enigmatiche; o che non fanno un'opzione di valori né hanno il coraggio di dare un senso originale alla loro storia, ma assorbono la cultura circostante, bevendo tutto e mai scoprendo il gusto della ricerca personale; o ragazzi che sono psicologicamente “costretti” a seguire la logica del branco, costretti a fare i bulli e farsi schifo alla fine, miseramente schifo; o giovani che non scelgono assolutamente il proprio futuro, perché già programmato da più o meno occulte agenzie di collocamento (i genitori, il mercato, la convenienza economica, l'opinione dominante...). C'è tanto “pappagallismo” in giro oggi, o “neo-pecoronismo”, come un rischio che incombe su tutti in questa società dalla comunicazione imperiosa e imperante, condizionante ogni scelta ed escludente - è ovvio – ogni idea di mistero.

c) Scelta contraddittoria e …infedele

È la decisione di chi in ogni scelta si lascia sempre aperta la possibilità di fare marcia indietro, in qualche modo lasciandosi sempre una porta aperta o smentendo quel che ha deciso, la parola detta o l'impegno preso (così se ci sposiamo lasciamo sempre aperta la possibilità di lasciarci, anzi, conviviamo semplicemente allora, è più semplice; o se t’ingravido e non ti garba basta una pillola e addio bebè; o se intraprendo una strada, se poi non mi piace più ne inizio un’altra…, e tutto diventa fragile e inconsistente, leggero e liquido, proprio come la modernità odierna). È scelta che teme il "per sempre", finendo però per contraddire il mistero della libertà umana, e rendendo banale l'esistere, inaffidabile la parola e incerto il rapporto. Ma anche pretendendo di cancellare il dramma della vita umana: l'uomo può decidere d'abbandonare la sua vita a un ideale, a un affetto, a un progetto..., può consegnarsi a tutto ciò, e in definitiva, a un Altro, o a qualcosa che lo supera e di cui si fida. Anzi, non solo può, ma lo deve fare, come abbiamo visto prima, naturalmente decidendo lui e solo lui a chi o che cosa consegnarsi, ma rimanendovi poi fedele anche quando c'è un prezzo da pagare.

Ogni scelta autentica esprime, implicitamente o esplicitamente, questo dramma che dice assieme la dignità umana e la piena accoglienza della sua dimensione misteriosa.

d) Scelta ripetitiva e sterile

C'è chi teme la novità della scelta e le possibilità che certe scelte aprono davanti al soggetto, e allora decide di non correre alcun rischio: sceglie, ma è come non scegliesse, sceglie infatti di fare solo ciò che è sicurissimo di saper fare, sta ben attento a non fare il passo più lungo della gamba, è superprudente e pretende tutte le garanzie, preferisce battere la strada vecchia, più sicura e senza sorprese, e non s'accorge che si sta ripetendo o che il suo futuro è troppo simile al passato, quasi in un processo di clonazione a ripetere, mentre la vita diventa sempre più noiosa e incolore. In prospettiva vocazionale questo sarebbe il caso di chi decide il suo futuro semplicemente in base a quel che è, alle sue doti, a ciò in cui riesce, a quanto ha già scoperto di sé, e non è disposto ad accogliere alcuna provocazione che lo spinga ad andare oltre se stesso, a rischiare l'inedito, a buttarsi in avventure un po' ardite, ove non ha garanzie precise. D'altronde è solo così che uno scopre la propria identità, e soprattutto scopre che essa è sempre al di là di quel che uno pensa di sé, del suo io attuale o dei suoi test attitudinali.

e) Scelta egoista e cieca

Infine esiste anche la decisione di chi vede solo se stesso e i propri interessi, e decide in base a essi, senz'accorgersi degli altri, del bisogno o del dolore altrui. Scegliere vuol dire aprirsi, accogliere la provocazione che viene dai volti incrociati, tener vigilanti i propri sensi, lasciarsi intercettare da appelli e domande. L'egoista non sa scegliere, poiché vede solo se stesso; e chi non sceglie il “tu” ha già scelto la propria morte.

f) Scelta imbecille e odiosa

Infine c’è la scelta di chi non sa più cosa fare per occupare il tempo, ovvero per sentirsi vivo, reattivo, capace di godere della vita, o che forse ha esaurito varie possibilità in tal senso, andando a cercare felicità nei santuari moderni, e ricevendo in cambio solo illusione di gioia, e si ritrova che non sa più cosa fare davvero per “ammazzare il tempo”. Un po’ come quei giovani assolutamente normali che, negli anni passati, non trovavano niente di meglio che “divertirsi” gettando sassi dal cavalcavia, giovani “vuoti”, come ebbe a giudicarli Andreoli2; o come quegli altri di Rimini, giovani di buone famiglie, che una notte di qualche mese fa decidono di dar fuoco a un povero barbone che sta tentando di difendersi in qualche modo dal freddo pungente notturno, ovvero decidono che la loro voglia di provare un’emozione diversa sia più importante della dignità e della vita di quest’uomo. Per poi giustificarsi dicendo che non volevano fargli del male, ma solo spaventarlo, così, “per gioco”; e i genitori a difendere “teneramente” i loro pargoli ventenni perché… “mica l’han fatto per cattiveria”. Forse, il vuoto mentale forse è ereditario… In quale vuoto, in quale educazione al nulla sono cresciuti questi ragazzi “normali”? Che cos’è un uomo e chi ci sia dietro al volto d’ognuno, è mistero per qualcuno perduto, memoria colmata dal nulla…

2.2- Elementi costitutivi della decisione

Ogni decisione personale, ci ricorda l’analisi rigorosa psicologica, implica quattro componenti: la preferenza (o il desiderio), la rinuncia, il legame col passato, l’orientamento verso il futuro3. Ma ne aggiungo un’altra, in linea con la prospettiva del mistero che avvolge la vita umana e che proprio nel momento della decisione si rende paradossalmente evidente; è la componente, dunque, della zona scoperta e in qualche modo a rischio.

a) Desiderio (elemento preferenziale)

Si sceglie una possibilità non perché è la sola possibile, ma perché preferita ad altre pur accessibili. O perché c’è un desiderio intenso che attira in quella direzione; desiderare, infatti, significa concentrare tutte le proprie energie nella tensione verso qualcosa che la persona sente come centrale per la sua vita. Se la concentrazione energetica è come la pressione delle acque sulle pareti d’una diga, la decisione è il punto di rottura della diga che fa fuoruscire l’acqua. In termini spirituali potremmo dire che se il desiderio rappresenta la componente mistica, la decisione è l’attuazione ascetica.

C’è dunque un’attrazione positiva all’origine d’una scelta, che diventa improbabile o che sarà debole se tale attrazione è povera o assente. Ed è sempre tale attrazione o il desiderio a motivare la rinuncia, perché non diventi mortificazione costrittiva. Nell’autentica decisione i valori o le alternative cui s’è rinunciato non vengono in alcun modo disprezzati. Non è la malizia di ciò che si esclude, ma la desiderabilità di ciò che si sceglie a provocare l'esperienza dell'addio. Questo ha già un’implicazione pedagogica di assoluto rilievo per quanto ci riguarda: se non vi sono decisioni vocazionali occorre lavorare sul suo primo elemento costitutivo, il desiderio. Altrimenti detto: la decisione vocazionale non può esser provocata artificialmente, ma solo favorendo la capacità di desiderare e di desiderare ciò che è degno d’esser desiderato, e al tempo stesso alla capacità dell’animatore di dire la bellezza dell’ideale, capacità che è presente solo se egli ne è innamorato.

b) Rinuncia (elemento mortificante)

Per realizzare ciò che desidero devo rinunciare. Volere una cosa significa automaticamente rinunciare a un'altra incompatibile con la precedente. C'è una rinuncia comunque, anche quando si decide di non decidere, anche se il soggetto non se ne avvede.

La rinuncia di cui parliamo è una rinuncia non solo e non tanto a cose esterne (abilità, occasioni...), quanto a una parte dell'io stesso, ad alcune sue esigenze e bisogni, o al loro esercizio. Se voglio dare un senso alla mia giornata devo rinunciare ai desideri opposti: dormire, semplicemente evitar guai, fantasticare...

Ogni decisione, va dunque detto molto realisticamente, è una limitazione delle potenzialità personali, una mortificazione, anche se il termine appare desueto e poco invitante. Ma riguarda la natura della decisione in quanto tale, della decisione qualsiasi. Ovvero il concetto di rinuncia non è necessariamente cristiano, esso appartiene a una sana psicologia. In prospettiva pedagogica ciò significherà che nessun educatore può chiedere una rinuncia se al tempo stesso non lascia intravedere lo spazio di libertà che quella rinuncia spalanca al soggetto. In prospettiva vocazionale ciò sta a dire quanto sia importante che l’animatore sia capace di presentare la bellezza della prospettiva vocazionale, la libertà che essa dona, la pienezza di vita che essa regala. È chiaro, infatti, che la rinuncia fa paura nella misura in cui la prospettiva positiva non è abbastanza evidente. D’altro canto i giovani hanno il diritto che si trasmetta loro, da parte degli adulti, ideali, e non solo scetticismo e cinismo. La forza d’attrazione posseduta dall’ideale diventa forza per la rinuncia.

c) Legame col passato (elemento temporale)

Ogni decisione, anche quella che sembra banale e comunque poco significativa, ha la sua storia e dice qualcosa di noi, è inevitabilmente connessa con scelte precedenti o con uno stile di vita già collaudato. La scelta del presente in qualche modo svela questo passato, o ne svela conseguenze e implicanze, abitudini indotte e a volte profondamente radicate, al punto da risultare difficilmente modificabili. Non esiste, in tal senso, scelta innocua o che non lasci traccia alcuna, al contrario, ogni scelta tende a ripetersi o crea comunque tendenza nella medesima direzione. Per questo la prospettiva psicologica dà molta importanza alle singole decisioni di una persona, che non vanno mai sottovalutate. Nella logica di quanto dicevamo dianzi potremmo dire: non esiste scelta troppo piccola da non poter condizionare quelle successive. È chiaro, allora, che anche la grande scelta vocazionale è preceduta da una quantità di microscelte, potremmo dire, che la preparano aprendo una strada che va in quella direzione. Oppure il contrario, piccole scelte di segno opposto (antivocazionali) allontaneranno sempre più il soggetto dalla possibilità di fare un’autentica opzione vocazionale.

Il legame tra scelte passate e scelta presente non va comunque in alcun modo assolutizzato o enfatizzato, fino a eliminare tout court libertà e responsabilità, come vorrebbe oggi certa cultura deresponsabilizzante e dilettante (nel senso che sembra proprio giocare con certa psicologia mal divulgata e peggio ancora assimilata, quasi da rotocalco). La verità è che noi possiamo non essere responsabili, o non esserlo del tutto, delle tendenze ereditate dal passato, ma siamo in ogni caso ora responsabili del rapporto che stabiliamo verso di esse, di quanto facciamo per esserne consapevoli, per coglierne le radici e per tenerle sotto controllo4. Qui si decide la maturità della scelta.

d) Orientamento verso il futuro (elemento prospettico)

La scelta fatta, specie se si tratta d’una scelta esistenziale, d’uno stato di vita o di qualcosa che per natura sua coinvolge l’intera esistenza, diventa il fondamento per tutte le scelte future che devono ancora essere pensate. Decidersi è come disegnare una cornice: delimita dei confini e distingue lo spazio interno da ciò che rimane fuori; questo spazio dovrà essere riempito dalle decisioni future, le quali saranno qualificate come riuscite e vere solo se saranno nella stessa linea di questo primo inizio liberamente scelto. “La condizione dell'impegno è che la persona si renda incapace di rovesciare la sua decisione... Deve mantenere un atteggiamento inequivocabile verso l'alternativa scelta e rinunciare all'altra; tale rinuncia darà un contenuto di gioia all'alternativa scelta”5.

L'insieme di questi quattro elementi permette già di intendere la decisione come un orientamento che pone le sue radici nel passato e che è liberamente imposto all'intera nostra esistenza. Libertà e auto-imposizione si richiamano a vicenda: l’auto-imposizione è la conseguenza della libertà, così come l'imperativo è la conseguenza dell'indicativo.

Una volta deciso, la persona si vede «costretta» a interpretare tutta la vita seguente alla luce dell'orientamento scelto. La decisione presa diventa una chiave di interpretazione per il futuro: la vita sarà genuina solo se fedele a questo inizio. Ci si decide e poi ci si vede prenotati per il futuro. Questa auto-imposizione non significa freddo volontarismo o castrazione di sé, ma esprime l'elemento preferenziale implicato in ogni scelta libera. Tale imposizione fatta non per forza, ma per scelta darà un contenuto di gioia al resto della vita.

e) Zona scoperta e a rischio (elemento misterioso)

Ma permane in ogni caso in ogni decisione, e specie in questo tipo di decisioni importanti per la vita, una zona buia, in cui scarseggiano le evidenze e gli appoggi e non bastano i calcoli e le previsioni. Forse è il punto in cui la scelta mostra il suo legame col mistero. È anche questa elemento costitutivo della scelta umana. Proprio per questo sosteniamo che “alla radice della decisione non c'è un'evidenza matematica, ma un atto libero che si basa solo su una certezza morale: rimane sempre un residuo di insicurezza intellettuale che può essere superato solo osando e rischiando. Non è possibile prevedere i singoli eventi futuri; decidendosi, l'uomo fa un passo nel futuro sconosciuto sorretto tuttavia dalla conoscenza delle proprie forze morali e quindi dalla conoscenza del suo modo probabile di agire di fronte a futuri avvenimenti. Ma il futuro rimane libero, tutto da fare; è un processo di avveramento continuo che mette alla prova la capacità di integrazione di chi decide. Tuttavia questo futuro, anche se rischioso, non è mai arbitrario perché guidato dall'orientamento liberamente scelto, ovvero da una fiducia di fondo, verso se stessi, anzitutto, ma poi verso l’altro, con colui con cui in qualche modo ci si sta legando e cui si sta consegnando, come vedremo.

E qui esplode il mistero dell’essere umano e la sua dignità: che un uomo possa consegnare il proprio futuro, che non conosce, nelle mani d’un altro, d’un Altro, o che possa dire a una donna: “Ti prometto di starti accanto, ovvero la mia fedeltà, nella buona e nella cattiva sorte” è mistero grande, non è solo commovente, ma è qualcosa che evoca la grandezza dell’essere umano, e che si può spiegare solo con l’intensità dell’amore. Perché solo ciò che è intenso ha bisogno di estensione e può abbracciare tutta la vita.

Non si capisce davvero perché oggi si voglia impoverire la vita di queste esperienze e privare il soggetto di queste sensazioni. In esse è tutta racchiusa la bellezza dell’esistenza umana. Il “per sempre” può far paura, paura sana come la paura del mistero, che fa venire le vertigini, ma nel vero senso della parola, vertigini che attraggono e risucchiano la persona: in quel lasciarsi attrarre-risucchiare dal mistero consiste la decisione. Se la paura, invece, non viene dal mistero, ma dal timore di perdere le possibilità o le alternative cui uno deve rinunciare, allora non c’è alcuna decisione, ma solo l’implosione su di sé, egoista e sterile.

2.3- Prezzo e differenza della decisione cristiana6

Ammesso anche che decidersi è bello, importante e …indispensabile, non lo si fa; specialmente i giovani d’oggi mostrano una singolare allergia decisionale. La decisione fa problema, quella cristiana ancor di più e - se possibile - più ancora la scelta vocazionale. La scelta cristiana è di un tipo tutto particolare che con le altre decisioni ha in comune solo il nome: se ad essa applichiamo criteri che non le appartengono appare assurda e rimane necessariamente inevasa7.

La perfetta decisione «umana», infatti, deve essere:

a) Sicura: gli elementi di rischio devono essere ridotti al minimo; fra tutte, è migliore quella decisione che più sa assicurarsi contro l'errore e il rischio di sbagliarsi. Di qui la ricerca di quanto possa in qualche modo non solo progettare, ma prevedere, se possibile, il futuro, a partire da ciò che la persona è ed è sicura di saper fare. Qualsiasi scelta che preveda prestazioni percepite oltre le proprie capacità sono accuratamente evitate; il rischio sarà quello di scegliere non il massimo di quel che si può dare e di ripetere quel che si è già, in una sorta di autoclonazione psicologica.

b) A minimo costo: è preferibile quella decisione che raggiunga l'obiettivo con il massimo di efficienza e il minimo di perdita. Sembra criterio molto logico; in realtà nasconde la paura di complicarsi la vita e finisce non di rado per orientare la decisione verso obiettivi non troppo impegnativi, o per ridurre, impercettibilmente, livello e qualità delle proprie aspirazioni.

c) Precisa e chiara prima ancora della sua attuazione e in tutti i suoi dettagli: gli obiettivi, finali e intermedi, devono essere esaurientemente analizzati fin dall'inizio in modo da ridurre al massimo l'intromissione, nella fase di attuazione della scelta, di variabili future impreviste. Anche questa pretesa sembra molto razionale e prudente; ma lascia aperto un interrogativo altrettanto realista: è mai possibile fare una scelta così, che riesca davvero a prevedere tutto, quando si tratta di scegliere per la vita? È davvero “umano” questo tipo di decisione, visto che esiste una zona scoperta che il calcolo non può del tutto prevedere e controllare?

d) Rivedibile (o reversibile). Come abbiamo visto più sopra, la decisione umana, calcolatrice e il più possibile preveggente, spesso e volentieri si lascia una uscita di sicurezza, nel caso l’opzione non dovesse funzionare per i più svariati motivi. In realtà è una scelta paurosa, paurosa della definitività, incapace di abbandono, timorosa o scettica nei confronti di colui che si sceglie e cui ci si dovrebbe in qualche modo “consegnare”… La paura del “per sempre”rende leggera e inaffidabile ogni scelta, e svela una sottile disperazione in chi compie la scelta (apparente).

La decisione «cristiana» è invece:

a) A rischio: rimane sempre un residuo di insicurezza intellettuale, e non solo mentale, abbiamo visto, che può essere superata solo osando e rischiando, o con quel supporto psicologico e spirituale offerto e garantito dalla fiducia, o dalla fede che porta a fidarsi e a fidarsi di Dio. Nel discernimento cristiano il credente corre il rischio massimo per umana creatura: scoprire la volontà di Dio. Rischio reso ancor più …rischioso dalla solitudine sostanziale in cui egli viene a trovarsi poiché la decisione è personale. Come dice, infatti, magistralmente Moioli sulla scia di S. Ignazio, egli sa che nessun comandamento oggettivo, nessuna regola esterna, nessun parere o consiglio di altre persone, persino della guida spirituale, potrà mai dargli la certezza che quanto deciderà di fare è quello che Dio vuole che egli faccia. “La decisione e quindi il discernimento personale, in concreto, devono essere della persona, del soggetto che si fa «dirigere»: in funzione di ciò, il discernimento esercitato dal direttore spirituale si concepisce come ordinato non a sostituire o ad imporsi autoritariamente, bensì a «condurre», a sostenere il discernimento del soggetto”8. Tutto ciò dice la necessità e delicatezza d’un ministero spirituale che orienti e sostenga, aiuti a purificare le motivazioni e a liberare il cuore da attaccamenti di vario genere, consci e inconsci; al di fuori, però, d’ogni tentativo (autoritario, volontaristico, fideistico) di rendere meno autonoma e personale la decisione per l'ubbidienza della fede.

b) A massimo costo: nella decisione cristiana è preferibile quell'azione che fra tutte esprime il massimo di quel che posso dare, anche se mi chiederà un notevole prezzo da pagare, e la maggiore intensità di amore anche se avrà un risultato minimo. La scelta fatta in nome del Radicalmente Altro che misteriosamente attrae il cuore umano viaggia su valori ideali massimi, per consentire di vivere in una realtà spesso attraversata da limiti di vario tipo, che si faranno assoluti nel momento della morte. La decisione è cristiana quando esprime il dono di sé, e quando mette la persona in condizione di mantenere l’offerta di sé anche quando questo comporta rinuncia e chiede un prezzo alto: soprattutto allora ci vuole corrispondenza tra i due livelli, quello del costo-rinuncia e quello dell’amore-desiderio. Più il costo è alto più grande deve essere l’amore, fino a integrare il massimo della rinuncia di sé col massimo del dono di sé. Per questo ogni decisione è in qualche modo simbolo della morte, perché la fine dei propri giorni sarà il momento in cui il limite o la rinuncia toccheranno il punto massimo, il vertice estremo; sarà allora necessario “vivere” quell’istante (e la preparazione a esso) caricandolo al massimo grado di senso, andando cioè liberamente incontro alla morte, come epilogo d’una vita diventata progressivamente dono, come momento supremo della propria scelta vocazionale.

c) Ancora, la decisione cristiana deve essere precisa, ma mai potrà esser chiara in tutti i dettagli, al punto da risultare prevedibile e da porre al riparo da ogni sorpresa: i valori accettati all'inizio devono essere oggettivi e realisti, ma non saranno mai esaurientemente chiari; ogni passo della loro attuazione indica una conquista e un compito nuovo; la scelta si scopre man mano che la si attua, in un processo che è di formazione permanente proprio per questo. Discernere e decidere, ancora una volta, non significa disporre del futuro, quasi sapendolo con certezza in anticipo. Significa piuttosto saper leggere una direzione nel presente, che pure va oltre il presente; significa leggere una coerenza tra ciò che si legge e la verità dell'essere cristiano, tra ciò che si comincia a intuire e una possibilità di attuare quella verità in un progetto di vita, dove “io” (cioè il mio essere cristiano qui ed ora), non solo non vengo escluso, “ma vengo assunto come luogo, anzi come realtà di una sintesi che deve essere trovata. Mi sembra cristiano che io faccia così; mi sembra chiaro che io posso fare così; è prudente che io lo faccia; dunque Dio vuole che io lo faccia, e che, facendolo, io non trovi nel sapere anticipato la sicurezza; la trovi, invece, fidandomi ed affidandomi a Lui9. E siamo di nuovo all’elemento fondante, all’architettura di base del processo decisionale credente: la fede che diventa fiducia. La scelta aumenta la fiducia, scegliere è voce del verbo fidarsi.

d) La decisione cristiana è tutta giocata sulla fiducia. Fiducia in un Altro, in Dio e nel suo essere mistero, come abbiamo ricordato all’inizio. Mistero buono, abbiamo detto, perché si svela; mistero amico perché mi viene incontro; mistero vocazionale perché prima della mia scelta di lui, c’è la sua scelta di me. È un po’ il paradosso vocazionale: noi stiamo riflettendo sulla decisione da prendere e su come educare i giovani a scegliere la propria vocazione, ma in realtà si tratta di lasciarsi scegliere, di educare alla libertà di fidarsi nella vita, che è il massimo della libertà umana. E che è legata naturalmente anche all’esperienza umana del soggetto, come vedremo poi, ma soprattutto all’esperienza spirituale di Colui-che-chiama, e che chiama perché ama, o che chi-ama, e che di fatto mi ha chiamato da tutta l’eternità, ovvero mi ha amato da sempre preferendomi alla non esistenza. Mistero grande! Come non fidarmi di questa Volontà Buona? La quale mi ha già scelto e chiamato alla vita, quando io non potevo minimamente meritare tutto ciò? A essa sono già affidato, da sempre, vivo solo perché sono nelle sue mani. Dunque è del tutto naturale continuare a fidarmi, a lasciarmi scegliere da essa perché vuole il mio bene e la mia felicità, anche quando mi chiede qualcosa di difficile e costoso, o che va o sembra andare al di là delle mie capacità o oltre una certa logica che sembra così logica o di certi calcoli che paiono così evidenti…. Anzi, a questo punto capisco cos’è la fiducia: la fiducia è e diventa lo spazio della decisione rimasto scoperto dal calcolo, o che il calcolo non può o non riuscirà mai a occupare, che il calcolo deve per forza lasciar libero. Per qualsiasi tipo di decisione: dalla decisione di credere a quella vocazionale per le quali non può bastare il calcolo razionale. La fiducia può occupare quello spazio e solo essa può farlo; una scelta vocazionale senza fiducia sarebbe un non senso per una vocazione votata al fallimento. Tanto più la vocazione cristiana. La quale invece, proprio perché è espressione di fiducia, apre all’esperienza del Dio affidabile10. Se non è la fiducia a occupare quello spazio, sarà la presunzione dell’individuo a occuparlo o comunque la sua lettura soggettiva, con le paure, i dubbi, le resistenze, le interpretazioni riduttive, le aspettative irrealistiche, le difese che sappiamo. Ma se è la fiducia che occupa quello spazio scalzando via il calcolo, allora la scelta è totale e radicale, e irreversibile come tutte le scelte fatte per amore, perché ci si sente amati.

3- Pedagogia della decisione

Abbiamo già detto diverse cose rilevanti sul piano pedagogico, cerchiamo ora semplicemente di metterle in ordine, senz’alcuna pretesa di fornire un vademecum o un prontuario del perfetto animatore vocazionale, e ben ricordando quanto dicevamo agl’inizi: l’animazione vocazionale è espressione della propria fedeltà vocazionale, dice la qualità della propria vita spirituale, è la cifra della propria formazione permanente. Per questo - tra l’altro - investire, a livello di diocesi o di istituti religiosi, nell’animazione vocazionale, correttamente intesa, è saggio e pure economico, poiché significa una provocazione su più campi, ma che poi converge al centro, va all’essenziale.

3.1- Ulisse e Orfeo

Partiamo da un’immagine mitologica, anzi da due immagini a confronto. Si tratta oggi di passare, nel difficilissimo cammino dell’educazione (dell’emergenza educativa), dalla figura del mitico Ulisse a quella del più modesto Orfeo. Ulisse, come ricorderete, per ascoltare il canto ammaliante delle sirene e resistere al loro potere seduttivo si fa legare all’albero della nave, ma tappa con la cera gli orecchi ai suoi marinai, perché non sentano minimamente e non cadano in tentazione. E così con questo stratagemma, supera l’ostacolo, pur avvertendo dentro di sé tutta la potenza dell’attrazione dei sensi. Lo supera, ma senza per questo crescere interiormente, anzi, probabilmente avrà avuto la sensazione d’aver perso un’occasione unica, una gratificazione irripetibile e altrove introvabile. Egli non ha affrontato l’ostacolo, né ha consentito ai suoi d’affrontarlo; ne ha avuto paura, senz’altro è stato prudente, si potrebbe anche dire, e anche consapevole dei propri limiti facendosi legare, ma certo non è maturato dentro né ha fatto maturare i suoi. Imponendo loro di mettersi della cera negli orecchi ha mostrato sfiducia verso di loro, oltreché verso se stesso. C’è come una violenza psicologica in tutto il suo agire, poiché l’elemento mortificante (=la rinuncia) appare privo dell’elemento preferenziale (= il desiderio).

Orfeo, invece, agisce in modo essenzialmente diverso: egli affronta l’ostacolo a viso aperto. Orfeo aveva ricevuto in dono dal padre un meraviglioso strumento musicale, la lira, e aveva imparato addirittura dalle muse a usarla, in un modo che non poteva che esser divino: una volta che anch’egli si trova in prossimità dell’isola delle sirene, in qualche modo le sfida col suo strumento e con la bellezza che riesce a tirar fuori da esso. E la spunta. Vince con il suono della sua cetra la dolcezza del loro canto aiutando i suoi compagni a non cedere alle loro lusinghe. Semplicemente perché il canto della lira di Orfeo era più bello del canto delle sirene. E non poteva non esser preferito (=l’elemento preferenziale è forte e dà forza alla rinuncia). Orfeo ha fiducia nei suoi compagni, e ancor prima ha fiducia in sé e soprattutto nella capacità d’attrazione di ciò che è bello e più desiderabile delle sirene e dei loro inganni.

Abbiamo qui la sostanza del percorso decisionale. E ve la lascio come immagine che resti sullo sfondo della nostra riflessione, quasi una metafora dell’animazione vocazionale oggi. Essa può nascere soltanto sulla logica dell’attrazione, della libertà interiore, della preferenza per ciò che è più bello e vero e buono, non sulla logica della costrizione, dell’imposizione, della sfiducia di fondo. L’animatore vocazionale deve essere un moderno Orfeo, suonatore di lira, ma forse senza pretendere di arrivarvi subito, né improvvisandosi grandi suonatori di lira, senza la prudenza e anche quel po’ di furbizia presente in Ulisse.

3.2- Principio generale: favorire la circolarità dei processi (spirituale e psicologico)

Vediamo d’indicare alcuni punti utili per il nostro discorso, che è - chiariamo subito - di duplice natura: teologico e psicologico, o religioso e umano. Si tratterà, allora, di favorire la circolarità e complementarità dei due processi, perché l’uno sfoci nell’altro, in una sequenza sempre più unica e costante. È la bellezza e la sfida del nostro lavoro, che è portato avanti come su due fronti. Vediamo come attuare questa circolarità processuale tra il religioso e l’umano.

1) Donare fiducia (dal problema religioso al problema psicologico): anzitutto è indispensabile aver molta attenzione all’umanità dei nostri giovani. Abbiamo parlato di fiducia come elemento costitutivo e dunque indispensabile della decisione cristiana in particolare. Ora, la fiducia non è qualcosa che uno si sente nascer dentro spontaneamente, ma è frutto di educazione, particolarmente della prima o primissima educazione, dalla quale - secondo quanto ci dice la psicologia evolutiva - il bambino dovrebbe uscire con un senso di basic trust, di fondamentale fiducia. Detto diversamente, i genitori dovrebbero manifestare nei suoi confronti una accoglienza incondizionata dalla quale nasce poi la stima di sé, di cui la fiducia è parte sostanziale: fiducia in sé, negli altri, nella realtà, nella vita, in Dio… Come un substrato umano indispensabile.

Oggi, purtroppo, ci troviamo con tanti giovani che non vengono da questa esperienza primitiva familiare. E non occorre spendere tante parole per provare questo, in un contesto quale quello attuale di famiglie spezzate, di relazioni ferite, di figli mal amati, di orfanaggi vari, reali o psicologici, verticali ma pure orizzontali, di solitudini desolanti all’interno del nucleo familiare, di educazione che non insegna a vivere e scegliere, di non educazione o di mala educazione, banale e vuota, indifferente e senza valori, di legami morbosi che obbligano a restare bambini o, al massimo, a divenire adultescenti, di contraddizioni aberranti nella distribuzione dei ruoli genitoriali…

È essenziale, allora, capire la situazione, non colpevolizzare né pretendere che l’età biologica corrisponda sempre con quella psicologica, ma al contrario capire che ciò che manca o è venuta a mancare è esattamente questa accoglienza incondizionata, e dunque l’affetto per la persona così come è. L’animatore vocazionale non è uno psicoterapeuta né un counsellor, ma se ha sperimentato la tenerezza del mistero eterno che si svela e fa conoscere è  in credente che può capire la debolezza umana e manifestare con la sua la tenerezza del Dio amante ogni suo figlio.

E il primo segno di questa tenerezza divina manifestata dalla tenerezza umana è proprio la disponibilità della persona, del fratello maggiore che si pone accanto per aiutare nel cammino di discernimento. Il principio in fondo è questo: se una persona non ha avuto un’esperienza positiva di accoglienza incondizionata nel suo passato l’aiuto migliore per lui è fare un’esperienza di accoglienza incondizionata.

Questa è la tenerezza di cui ha bisogno. Che vorrà dire in concreto, da parte dell’animatore, affetto sincero, dedizione di tempo, pazienza soprattutto nel rispetto dei suoi ritmi e nell’attesa del suo progresso. Ma, al tempo stesso, senza dimenticare che la propria accoglienza, con tutta la sua tenerezza, è solo uno strumento, una mediazione. Che dovrebbe fare scoprire la tenerezza divina. Questo, dunque, l’obiettivo educativo: condurre la persona a riconoscere all’interno della sua storia, pur nei limiti della sua esperienza passata, i segni dell’amore di Dio che in ogni caso hanno accompagnato i suoi giorni. Ovvero occorre che la verità di fede, l’amore di Dio, venga “verificata” (=resa e scoperta come vera) nella propria storia, incarnata in essa. Il problema teorico diventa allora storico, o il problema teologico diventa psicologico. Ed è la prima fase di quel processo circolare di cui dicevamo all’inizio. Ovvero l’amore umano in qualche modo e da qualsiasi persona ricevuto, financo il minimo segno d’attenzione a livello umano, viene caricato di valenza teologica, diventa segno della tenerezza dell’Eterno e percepito come sua manifestazione. Ma occorre che ciò avvenga, ai fini della maturazione reale e non illusoria dell’individuo, attirandone l’attenzione sul proprio passato non per lamentarsene, ma per imparare a cogliervi l’amore assolutamente personale dell’Eterno.

La persona acquisisce la fiducia di fare una scelta; solo se scopre l’amore ricevuto, tanto più sorprendente se scoperto dentro le pieghe d’una realtà debole e precaria, tanto più convincente se tale amore è capace di giungere all’uomo anche attraverso mediazioni improbabili se non contraddittorie. Anzi, proprio per questo rivelatore del mistero, del mistero dell’amore perfetto di Dio che sopporta anche la mediazione imperfetta. Di solito è cammino duro e lungo, ma preliminare a ogni possibilità di scelta autentica; occorre dunque camminare su questa strada e non rinunciare a questo obiettivo se si vuole costruire la capacità decisionale sulla roccia della certezza d’essere già stati amati, amati da Dio lungo la propria storia e attraverso i deboli amori umani.

2) Leggere il mistero: diventa molto importante, a questo punto, partire dai fondamentali: insegnare a leggere e scrivere. Ma anzitutto a porsi dinanzi al mistero. Perché il giovane impari ad affrontare la realtà scoprendone il senso profondo, e non fermandosi all’aspetto puramente esteriore e superficiale. Noi non possiamo nemmeno immaginare come potrebbe cambiare la vita d’un giovane se imparasse quest’arte e divenisse familiare alla prospettiva del mistero. Parliamo qui di mistero come di categoria interpretativa, come modo di percepire e interpretare la realtà, come di attitudine e abitudine, in tutte le cose, a chiedersene il senso profondo, a coglierne il lato nascosto, a intuirne la ricchezza e la ricaduta su di sé e la propria vita. E possibilmente partendo dalle realtà più abituali e quotidiane, più vicine a lui, nella logica del principio di Von Balthasar: “il tutto nel frammento”11.

Pensate, ad esempio, quanto potrebbe esser importante per un giovane riflettere sui suoi desideri, sulla sua stessa ricerca di felicità, sulla sua personale storia di tale ricerca, sulla sua speranza di ottenerla in certo modo, in certe situazioni, in certi ambienti, da certe persone, da certe relazioni, sull’esito di questa ricerca e magari sulla sua delusione susseguente… O la riflessione sulla sofferenza, o sul volto umano, o sul senso del rapporto con Dio e di come la stessa ricerca di gioia o il problema della sofferenza possano trovare risposta o illuminazione in tale rapporto… Se è vero che l’uomo non è mai identificabile con quel fa o quel che dice, con quel che teme o coi suoi desideri (o quel che dice di desiderare), né con quel che pensa di sé o gli altri dicono di lui…, e che c’è sempre nell’uomo qualcosa che supera regolarmente il livello dell’immediatamente inteso o percepito, allora dobbiamo insegnare il gusto di saper riconoscere il mistero in ogni situazione e circostanza, in ogni sentimento e sensazione, in ogni paura e in ogni desiderio, anche quelli della vocazione. Il rapporto con la vita senza rapporto con il mistero perde gusto e intelligenza, diventa meschino e tale rende l’essere vivente, specie chi -come il giovane- avrebbe bisogno di riferimenti alti.

Abbiamo bisogno di tornare a riflettere e d’insegnare a riflettere in grande. Sullo sfondo del mistero.

3) Convertire paure e resistenze (dal problema psicologico al problema religioso)

Tutti conosciamo perfettamente le paure di cui è piena la vita d’un giovane d’oggi. D’altro canto non è poi così strano oggi aver paura: sui giornali o alla TV c’è un’istigazione vera e propria ad avere paura: del musulmano, del poverocristo che approda alle nostre coste, del diverso, del rom…, del futuro, della crisi. I giovani hanno l’angoscia di fronte a un mondo troppo complicato e atroce, tremano, si fanno prendere da “attacchi di panico” al solo pensiero del futuro. Così come è evidente l’atteggiamento di resistenza da parte del giovane non solo dinanzi alla possibilità di grandi scelte nella vita, ma pure dinanzi alla costatazione dell’amore ricevuto lungo la sua vita, magari per non doversi sentirsene poi responsabile. Come gestire pedagogicamente tale situazione?

Anzitutto è importante aver il coraggio delle proprie paure, ovvero invitare il giovane a riconoscere i propri timori, dar loro un nome, capirne se possibile le radici, vederne le conseguenze nei vari ambiti della vita. Cercare di prender confidenza con essa, perché così è più maneggevole. Ciò che ignoriamo di noi stessi evidentemente ha molto più potere su di noi.

Ma il passo decisivo è un altro: si tratterebbe di trasformare lentamente la paura psicologica in timore biblico, o la resistenza psicologica in resa spirituale. E sarebbe la seconda fase del processo circolare, complementare alla prima: quella più deduttiva, questa più induttiva. Suona forse un po’ strana e ardimentosa l’operazione, ma sarebbe una conseguenza della lettura del mistero. Più precisamente se la paura ha sempre delle radici psicologiche (da ricercare eventualmente nel proprio passato o comunque nella propria personalità), ogni paura inevitabilmente nasconde anche una paura di Dio (così come ogni desiderio è alla radice desiderio di Dio). Così è per ogni paura umana: se un giovane, ad esempio, ha paura di scoprire dentro di sé chissà quale nequizia e perversità, probabilmente ha paura d’un giudizio di qualcuno autorevole, del giudizio di Dio in fondo; se ha paura del futuro, teme che colui che gli ha dato la vita, anche se non ci crede paradossalmente, non gi abbia fatto un dono autentico; se teme l’altro (con la “a” minuscola), teme soprattutto l’Altro (con la “A” maiuscola), non c’è scampo, ecc. Ma sarebbe enormemente vantaggioso fare questa scoperta, perché allora la paura, per strano che possa sembrare, diverrebbe più gestibile, meno “paurosa”, più chiara nel suo significato di fondo, meno difficile o meno complessa da risolvere, perché in fondo ha ancora ragione Davide: “è meglio cadere nelle mani di Dio che non nelle mani dell’uomo” (2Sam 24,14). E l’esperienza psicologica diverrebbe di fatto esperienza religiosa, o la lotta psicologica, senza senso, e senza sbocchi, tutta giocata dentro di sé (come una lotta intestina) e contro di sé (o contro una parte dell’io) diventerebbe lotta religiosa, lotta sana, lotta biblica, lotta – in realtà - con l’amore di Dio… Lotta che prima o poi uno deve perdere, esattamente quando s’arrende di fronte a questo amore. E ci si abbandona. Ovvero, dalla pretesa di resistere alla decisione della resa.

Allora la paura diventa fiducia, la resistenza abbandono, e la resa come l’altro volto della fiducia di chi s’abbandona. Ciò che rende l’individuo più libero per fare una scelta.

Certo, anche questo è un cammino lungo e faticoso, che richiede una certa esperienza alla guida, una certa forza nel sostenere questo combattimento col divino, ben conosciuto da tutti i veri amici di Dio, tutti anche lottatori col divino, come ci raccontano le Scritture sante.

Ed è fine arte pedagogica accompagnare in questo cammino e in questa trasformazione, senza commettere l’ingenuità di voler evitare lo scontro con Dio. La vocazione è frutto anche di questo scontro.

3.3- Annuncio doppiamente “personale”

Inoltre credo che faccia parte dell’autentica pedagogia vocazionale il sottolineare, senza darlo mai per scontato, che ciò che alla fine noi siamo chiamati ad annunciare è una persona precisa, Gesù Cristo, a un’altra persona precisa, che è da accogliere nella sua unicità-singolarità-irripetibilità.

1) Annuncio di una Persona è quel che ha ribadito il Papa: “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”12. L’accompagnamento vocazionale ha senso solo se è parte di questo avvenimento-incontro di quella Persona che è Gesù Cristo. Che va dunque proposta e indicata esplicitamente, con forza e passione. Dice l’arcivescovo di Rossano, S. Marcianò citando l’esempio di Paolo “l’evento di Damasco svela a Saulo che, anche se egli non lo sapeva, in realtà stava perseguitando colui che sarebbe diventato il “Tu” della sua vita. Potremmo dire che, anche da persecutore e proprio da persecutore, egli aveva già impostato una relazione con una Persona: Era questo che Paolo non sapeva: ma quando questa verità illuminò i suoi occhi, l’amore vinse per sempre”13. Questo significa che Cristo, la sua persona, va comunque proposto, perché in ogni caso ha il potere di provocare la persona, di confrontarla, di metterla salutarmente in crisi. Verrebbe da dire: che il giovane ci lotti con Cristo, lo contesti, lo perseguiti persino, l’importante è che stabilisca un rapporto con lui, in qualsiasi modo. A questo rapporto deve continuamente rimandarlo la guida. Suonando al meglio la sua lira, come Orfeo coi suoi compagni di nave. Come un artista appassionato e creativo, non come un mestierante che ripete sempre le stesse cose. Esser cristiano significa esser “di Cristo”.

2) Annuncio a una persona: l’annuncio-proposta va fatto a una persona, anche al gruppo in quanto tale, ma sempre in quanto composto di individualità distinte per quanto convergenti tra loro. Poiché per natura sua la parola di salvezza interpella individualmente, va in cerca di ognuno, raggiunge la pecorella smarrita, si fonda sulla pietra scartata, è “il più piccolo di tutti i semi della terra”. Il Cristo riconduce ciascuno alla sua insostituibile e preziosa singolarità, luogo naturale di discernimento vocazionale.

Stiamo dunque attenti a non lasciarci prendere dalla mania del collettivo, dall’apostolato unicamente dei gruppi, dalla formazione in serie. L’antica tradizione della chiesa, in questo in linea perfetta con le scienze moderne, ci ricorda che non può avvenire alcuna crescita reale nella fede se non attraverso l’intervento sul singolo. È lì che problemi personali, paure e resistenze possono esser detti e confidati, confrontati e rielaborati, è lì che la storia d’ognuno può riconoscere la presenza misteriosa del Dio amante, fino a far nascere quella fede che diventa fiducia, e piano piano anche scelta vocazionale. Più forte d’ogni paura e resistenza.

3.4- Più parresia

Non vorrei infine scadere nel moralistico e fare raccomandazioni un po’ scontate e paternalistiche, ma credo in sincerità che oggi la pastorale vocazionale abbia bisogno di animatori più coraggiosi ed espliciti, e tali perché più fiduciosi, profeti di fiducia. Se non altro perché li richiede la situazione in cui versano i giovani oggi, come ben sappiamo e come abbiamo anche accennato in questa conversazione: se oggi i nostri ragazzi dalle braghe basse e l’ombelico in mostra vivono in un contesto di cacofonia assoluta e disorientante quanto bisogno avranno d’una parola chiara e coraggiosa, semplice e comprensibile, vera e confermata dalla vita di chi l’annuncia? Proprio perché oggi viviamo nel Pantheon delle false divinità occorre che la proclamazione del Dio vivo e vero risuoni alta e convincente da parte di chi se ne sente teneramente amato e lo ha messo al centro della sua vita. Proprio perché questi nostri giovani sono figli della società dell’indecisione è indispensabile che abbiano davanti a sé degli esempi inequivocabili, di persone che hanno scelto il massimo e sono felici, che hanno rischiato d’abbandonare tutto e si son ritrovate col centuplo. Proprio perché i nostri adolescenti si sentono spesso traditi dagli adulti, anche quelli a loro più vicini, non possono esser ancora illusi e ingannati da chi dice d’avere trovato la via, la verità e la vita, e poi è pauroso e titubante, pigro e disanimato, ripetitivo e preoccupato di sé e della sua salute più che dell’annuncio di salvezza da dare a tutti. Proprio perché sono pochi gli eletti, e oggi sempre più pochi, sarebbe terribile che fossero pochi anche i chiamanti, o che costoro chiamassero con flebile voce, quasi avessero paura di chiamare, d’insistere nella chiamata, o che poi non sapessero accompagnare verso la decisione. Proprio perché il nostro mondo sta perdendo il senso della bellezza e stiamo tutti per esser soffocati dall’immondizia della bruttezza e dallo scadimento del gusto, quanta necessità c’è di esistenze belle e di umanità ricche, di giovani che possano dire ad altri giovani che esiste una bellezza incancellabile nel più profondo d’ogni essere umano, che nulla potrà mai offuscare, misteriosa e pure luminosa. Proprio perché ci sono tante sirene è indispensabile che l’animatore vocazionale non abbia alcun dubbio sulla miglior qualità del suo canto!

Non vi pare che oggi la animazione vocazionale abbia bisogno d’un nuovo slancio vitale ed evangelico, di rinnovata creatività, di più voce e più dinamismo, di maggiore attenzione alla qualità della sua presenza nella chiesa…? O forse, in una parola, di una più grande fiducia, in se stessa, nella chiesa, nei giovani, in Dio, mistero buono.

Essa sa, o dovrebbe sapere, a chi ha dato la sua fiducia.

 

Note

  1. Lo dice molto chiaramente Rahner su un piano non semplicemente psicologico: “L’uomo si affida necessariamente ad altri ed è necessariamente portato a farlo” (K. Rahner, Che significa amare Gesù?, Roma 1983, p.13).
  2. Così li diagnosticò il famoso psichiatra veronese: “Questi giovani non sono malati; non sono neppure cattivi. Purtroppo sono vuoti, e quindi incapaci di distinguere il bene dal male”.
  3. Prendiamo lo spunto per questo paragrafo dalle penetranti analisi di A. Manenti, Vivere gli ideali. Fra paura e desiderio, Bologna 1988, pp.208-213. Ma cf anche M.E. Kaplan – S. Schwartz (eds.), Human judgment and decision processes, New York 1975; I. Janis- L. Mann, Decision making. A psychological analysis of conflict choice and commitment, New York 1977.
  4. Cf A. Cencini – A. Manenti, Psicologia e Formazione. Strutture e dinamismi, Bologna 1998, pp.198-200.
  5. Il riferimento di fondo di queste pagine è una teoria sulla decisione umana che è piuttosto datata, ma che mi sembra ampiamente confermata non solo da studi più recenti, ma soprattutto dalla realtà esperienziale della vita: cf H.B. Gerard, Basic features of commitment, in R.P. Abelson, Theories of cognitive consistency: a sourcebook, Chicago 1968, p.457.
  6. Sfrutto in questa sezione, in parte e con aggiunte sostanziali, una mia riflessione di qualche tempo fa, pubblicata in A. Cencini, Chiamò a sé quelli che volle. Dal credente al chiamato, dal chiamato al credente, Milano 2003, pp.41-45.
  7. Cf C.J. Pinto De Oliveira, Lieux et enjeux de l'experience morale aujourd'hui, in «Le supplement» 129 (1979), pp.175-176; 179.
  8. G. Moioli, Discernimento spirituale e direzione spirituale, in L. Serenthà-G. Moioli-R. Corti, La direzione spirituale oggi, Milano 1982, pp. 66-67.
  9. Ibidem p. 64
  10. È il titolo della poderosa opera di P. Sequeri, Un Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Brescia 1996.
  11. Il principio balthasariano è ben reso da Varillon con questa espressione: “non poter essere racchiuso dal massimamente grande, ed essere tuttavia contenuto dal massimamente piccolo è proprio di Dio” (F. Varillon, L’umiltà di Dio, Magnano 1999, p.60)
  12. Benedetto XVI, Deus Caritas est, 1.
  13. S. Marcianò, “Non avere paura… e non tacere”. Paolo, il coraggio dell’evangelizzazione, Lettera Pastorale nell’anno di S. Paolo, Rossano 2008, p.21.

(da Vocazioni, marzo/aprile 2009)

Letto 4712 volte Ultima modifica il Lunedì, 08 Aprile 2013 10:21
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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