"Hai mutato il mio lamento in danza e il mio vestito di sacco in abito di gioia" (Salmo 29).
Un tema urgente
Voglio ricordare che in questo luogo non sono né uno psicologo, né un teologo, né un opinionista: sono un prete che dagli anni '60 accompagna discepoli piccoli e grandi, nei loro fallimenti, cercando di gestire i propri.
Ho formulato questa meditazione in modo provocatorio. Ma il percorso che cercherò di aprire è meno bizzarro di quanto possa sembrare. Sempre che... come sovente capita, già non ci si trovi da tempo dentro questa trappola, accanto alla probatica piscina di Betzaetà come colui che da 38 anni aspetta l'impossibile (Gv 5,1-18).
Non vi accorgete di una cosa strana? Noi cantiamo e preghiamo nella Liturgia spesso dei fallimenti come fossero trionfi, successi. Le sconfitte sono rilette evidentemente nella fede (es. il cantico dei tre fanciulli nella fornace).
Già nel Primo patto la storia della salvezza inizia con il fallimento di Dio, (Gen 3) e poi ha capitoli che puntualmente ripropongono questo tema scandaloso... quando il fallimento tocca il giusto come il profeta o un re come Giosia. Per non parlare della tragedia dell'esilio... di molti Salmi, di molte preghiere della Chiesa.
La morte di Gesù, condannato e sfigurato tra due farabutti, vertice nel Vangelo di Luca, come la Salvezza.
Il ritmo umano del Mistero pasquale (già sottolineato a suo tempo da p. Roguet): la situazione inevitabile di morte, la vita nasce dentro la morte, per l'intervento liberatore che può venire solo da Dio.
Dobbiamo qui citare in particolare la pedagogia rigorosa di Gesù nei Vangeli, per preparare i discepoli al fallimento della Croce (es. la Trasfigurazione) o per ricuperarli nel fallimento quando non hanno capito (Emmaus).
La stessa figura dell'Addolorata nelle Deposizioni è figura di sconfitta.
Il tema del martirio nella Chiesa primitiva e nelle successive stagioni è paradossale: la figura piena del discepolo sembra essere, almeno così appare nella sua manifestazione visibile, la defigurazione o l'annientamento dell'altro... (I due testimoni dell'Apocalisse).
Aspiriamo alla pienezza del centuplo, cioè la felicità promessa e ne dichiariamo la realtà vivendo le beatitudini, come il massimo del desiderio e dell'attesa possibili, dietro l'Uomo delle Beatitudini.
Si potrebbe continuare evocando le scelte fondamentali della nostra vita: i voti. Con essi aderiamo alla verginità di Cristo, come fecondità, la scelta della povertà come risorsa affidabile per il presente ed il futuro, e vediamo nell'obbedienza cristiana la pienezza della libertà, crediamo che il servizio sia un dono. Crediamo che una vita donata sia anche una vita completamente e umanamente ritrovata.
Questa raffica disordinata di allusioni, di appunti ci interroga. Quale rapporto abbiamo con l'esperienza del fallimento. Anche se non siamo nella depressione, né malati, né inclini alla ipocondria, come interpretiamo in genere le nostre e altrui sconfitte?
La ragione dunque della conversazione è quella di attivare in noi quella sensibilità che ci aiuti a cogliere come il fallimento è il tessuto discreto che attraversa l'esperienza della fede, che né è la trasfigurazione non la sottovalutazione. Insieme ci aiuti a decodificare questa esperienza umana molto diffusa, per decidere come aiutarci e aiutare a trasfigurarla. Molti oggi ne sono travolti (li incontriamo nei fallimenti del matrimonio, nei locali della linea Arianna con i suoi percorsi chemioterapici, nei fallimenti educativi, nel mobbing al lavoro, nell'aumento dei suicidi tra i giovani e in quelle esperienze di discesa agli inferi, mappe di zone avvelenate e irrespirabili nella società, e talvolta anche nei conventi e nelle nostre comunità).
Cosa intendiamo per sconfitta?
I linguaggi che ne parlano sono di diversa provenienza. Alcuni provengono dalla teologia. Il linguaggio più classico è quello della teologia della croce. Lo sospendo, lo evito perché siamo subito tentati di scivolare nella Risurrezione. Ma in altri contesti si usano linguaggi, diciamo, più laici, e quindi, più esportabili con i non credenti. Depressione, akèdia: un misto di linguaggi spirituali e psicologici, dunque molto interessanti, ma da usare con delicatezza. Qualche tempo fa si usava la parola échec (= lo scacco).
Non ho una definizione pratica, capace di disegnare il volto cupo di questa realtà, senza confonderla con le crisi normali o il disagio normale.
A me piace un'immagine della incrodatura, immagine alpinistica quando si è nella situazione di non poter più procedere né tornare indietro. Quando fallire è come morire! E facendo il bilancio di una vita si dice con disincanto o cinismo: sono un vinto, sono a mani vuote con un bilancio fallimentare. E lo sono comunque sulle cose che contano della vita, non su aspetti marginali.
La sconfitta ha il volto della depressione, dell'indifferenza, del cinismo, dell'angoscia, della paralisi sconfortata, dell'amarezza che accusa e si autoaffonda e dell'evasione per sopravvivere.
R. Vignolo (1) vede nella figura del Qohelet una forte pedagogia, un percorso dal fallimento alla risimbolizzazione e ridimensionamento di quel narcisismo e philautìa cause che conducono alla depressione, nome nuovo della accidia.
Forse si potrebbe ricondurre queste esperienze negative a un personaggio concreto come Giobbe: è dunque più facile alludere a situazioni o personaggi che dare definizioni astratte.
Evitare alcuni grossolani fraintendimenti.
Non è luogo per fare letteratura o poesia sul fallimento. Non vogliamo benedire il fallimento come valore in sé né furbescamente mistificare situazioni che vanno energicamente superate e guarite. (3)Ne parlo con convinzione ma anche con disgusto. Ne nascerebbe una spiritualità masochista, debosciata, rinunciataria. O un'ideologia del tanto peggio, tanto meglio, che gode dello sfascio, degenera in rancore, aggressività, lamenti e guai, inoperosità e ripiegamenti vari. Nel passato queste sensibilità sono state sin troppo incoraggiate.
A questo proposito non va dimenticata la lezione di Bonhoeffer, come è riproposta dal suo studioso italiano più accreditato, Gallas (4): Dio è inutile. Non va evocato come tappabuchi. Non va evocato o interpellato come riposta ai nostri bisogni e fallimenti, tamponando le nostre magagne. "Se vi è ancora uno spazio per Dio, questo va dunque ormai ricercato al centro della vita e non più al margine di essa". (5)
Va anche detto che non ci occupiamo del fallimento per sonale non quello ancor più drammatico del fallimento delle ideologie o di aspetti della vita della Chiesa come settori dell'Evangelizzazione o chiese del Nord o dell'Est del mondo...
Nello stesso contesto, (lo lascio al lavoro personale), sarebbe illuminante un'operazione di ecologia sull'immagine dei vincenti, che imperversano dappertutto, nei media, nei discorsi comuni, nei messaggi che vengono dalla società: su isole, tra opinionisti, politici, manager, operatori culturali... (Ma potrei essere mosso da invidia, risentimento, orgoglio...). (6)
Esercizi di lettura delle proprie sconfitte.
L'esercizio dell'analisi lucida, spietata delle proprie sconfitte.
Rischiamo di negare i fallimenti.
Si deve iniziare riconoscendo con lealtà, con limpidezza ed onestà le proprie ferite: senza fingere, minimizzare o... respingere su altri le proprie situazioni negative. Vedere in sé alcune emozioni impensabili... sconcerta. (Paura, disgusto, odio, rabbia, voglia di scomparire...). Non da molto abbiamo iniziato a fare i conti con le proprie emozioni, al nostro sentir! E tendenza diffusa di esportarli, come fossero conseguenza di un contagio subito da altri. Questo esercizio di memoria ci aiuta a non ripetere esperienze passate, a capire agli altri, a riapprezzare i frutti che nascono dai fallimenti. (7)Nella lettura in questa stagione ci aiutano contributi delle scienze umane, che spingono oltre che scontate interpretazioni moralistiche o vagamente intellettuali, comunque astratte. (8) Ci consentono una conoscenza ricca ed articolata, evidenziano snodi, leggi, strutture che appartengono alla nostra finitudine e creaturalità. Una discreta valutazione ci consente di andare oltre l'oscillazione, nostra o dei nostri superiori, che attribuiscono poteri magici a questi percorsi o non li prendono in considerazione perché superflui o inconcludenti. Penso a cammini come la logoterapia, agli scavi di Jung (cfr. le opere di divulgazioni dell'abate Grünn o di Nouwen)...
Al riguardo rimando alla ricca relazione di A. Cencini, Dal modello della perfezione al modello dell'integrazione, fatta all'Associazione Membri Curie Generalizie (2003). Ci aiuta a smascherare i modelli che agiscono in noi a partire dalla educazione ricevuta e dalla storia personale in genere.
In questo senso esistono molte esperienze positive, luoghi, servizi di qualità, inimmaginabili quando nel post Concilio si incominciava ad educare ed affrontare queste frontiere, che insieme coinvolgevano la dimensione fisica, psichica e spirituale.
E' dunque saggio distinguere per riunire le tre dimensioni, che sono sempre coinvolte nell'esperienza del fallimento (il fisico, lo psichico, lo spirituale). Altrimenti o ci si imbottisce di Tavor, o si conta solo su rimedi spiritualisti o si investe lo psicologo, lo psichiatra, l'analista di un potere che lo stesso professionista rifiuta. Provate a pensare come affrontare un'insonnia, che nasce dentro un'esperienza di fallimento ed erode progressivamente le energie, giorno dopo giorno, compresa la capacità di reazione, di lavorare, di aver cura di sé, di relazionarsi.
La Buona Notizia: cioè la fede come esperienza trasfigurante.
In sé, diciamolo subito, né successo né fallimento sono nomi di Dio. Sarà l'esperienza quotidiana della Parola a provocare, sulla strada di Emmaus, il cambiamento del cuore, divenuto ardente, ed il ritorno alla vita. Partire dalla Parola di Dio, perché solo in essa possiamo rilanciare quei processi vitali che il fallimento e la sconfitta tendono a bloccare. Il fallimento colpisce al cuore e diviene incapacità a percepire e a volere. Interrompe quella trasformazione che dal cuore nuovo arriva ad una visione nuova ed assunzione della realtà.
Solo Lui può trasfigurare e rigenerarci: perciò crediamo nella forza trasfigurante della sua vicinanza (medita il Mistero della Trasfigurazione!).
La sua pedagogia, in particolare in Luca, mette in cattedra una serie di vinti: l'ultimo, il farabutto graziato, è figura chiave del terzo Vangelo, forse la figura chiave, una delle rivelazioni più importanti di tutta l'opera lucana (Tremolada). Gesù, la Salvezza, si presenta con il volto sfigurato di un condannato a morte. Lo scandalo è qui: lo salvo quando muoio per amore? I suoi tratti regali sono infamia, complicità con farabutti, scherno e vergogna. 'E' stato annoverato tra i malfattori'. (Cfr il Cristo di Grunelwald a Colmar... e di alcuni espressionisti...).
Riabilita quando è un uomo finito, consola quando è nella desolazione più disgustosa, trasforma l'ultimo dei farabutti in un discepolo. Il fallito diventa maestro. Lì impariamo, poveri di sicurezza, di energie, di riconoscimenti e di risultati che Dio è compimento e pienezza, non fallimento.
Dunque la Parola illumina le tenebre della sconfitta e ci chiama ad una condivisione della sua vicenda pasquale, come sicura ed estrema risorsa perché la sconfitta sia luogo di fecondità e di bellezza. Il paradosso: il fallimento come luogo di bellezza.
"Qualunque cosa faccia di me, io ti ringrazio". Cioè l'abbandono.
Così pregava in sostanza fr. Carlo de Foucauld. Come Lui molti giusti hanno trovato nell'abbandono la chance che ha vissuto la crisi come opportunità, oltre l'intellettualismo che non riesce a dare carne e sangue a questi momenti difficili per la fede, oltre il moralismo, appiattito su un'esecuzione non illuminata dalla Grazia. A proposito penso a molte testimonianze raccontate. Pagine di diario di malati terminali (Franca di Reggio), di martiri contemporanei, (Van Thuan, Testimoni della speranza), di credenti irraggianti una vera esistenza alternativa (Chenu Bruno, Thévenot, Avanza su acque profonde). Vivono una comunione di volontà con il Signore in un movimento di resistenza e resa nella vita. Commuove la risposta di P. Cristoforo a Lucia nel Lazzaretto.
"Ma lei, Padre? Povera me, come è cambiato! Come sta? dica: come sta?”. “Come Dio vuole e come per grazia, voglio anch'io." (Promessi Sposi , cap. XXXVI).
Volere la volontà di Dio, vivendola in una comunione amorosa, affettiva ed effettiva. Il Card. Ratzinger in una sua riflessione molto feconda, (9) ci ricorda che come Israele sperimenta nella legge la vicinanza di Dio, perché essa svela l'enigma del da dove proveniamo, dove andiamo e che cosa dobbiamo fare, con la stessa gioia il cristiano deve scoprire e fare la volontà di Dio per riconoscere e ricreare la propria umanità. “ La volontà di Dio non è qualcosa di estraneo per l'uomo, come un potere che si imponga dall'esterno, ma la direzione della sua stessa essenza. Per questo la rivelazione della volontà di Dio e la rivelazione di ciò che vuole la nostra stessa volontà: una grazia. Dobbiamo perciò tornare ad imparare a essere riconoscenti del fatto che nella Parola di Dio ci sia manifestata la volontà di Dio e il senso di ciò che noi siamo". (10)
Questo atteggiamento rimane fecondo anche quando l'esperienza della sconfitta si prolunga nel tempo e in situazioni comunitarie e personali complesse, inguaribili.
Tra l'altro è straordinario ciò che Giovanni della Croce dice all'anima che vuole vivere la grazia dell'unione con Lui. Egli la guida nelle purificazioni, anche le più notturne, per far uscire l'uomo da se stesso e liberare in lui la gioia. Dio non si rassegna a ciò che abbruttisce l'uomo e, nella sua fedeltà, ne ha cura attraverso dolorose purificazioni.
Fu sorte felice per lei
l'essere stata introdotta
da Dio in questa notte
Che le sarà fonte di tanto bene;
essa infatti non sarebbe stata capace di entrarvi
perché l'uomo per arrivare a Dio
da sé solo non riesce a liberarsi
da tutti gli appetiti (Salita I libro ,1, 5).
Esistono le guide e maestri che ci accompagnano nel cammino della Trasfigurazione
E' molto illuminante il capitolo 'sconfitte’ nell'esistenza dei profeti, dei santi. Ovviamente quando l'agiografo è onesto e non si lascia prendere dall'apologetica. Ricordo, facendo di ogni erba un fascio: Paolo (cfr. nella 2° a Timoteo), Isacco di Ninive, (con l'esperienza del proprio limite da avvolgere nell'umiltà e misericordia), Gerson, e la sua mendicità spirituale, Giovanni della Croce e la crisi di Toledo, Teresa d'Avila (pedagogia dell'umiltà in Cammino di perfezione 38/39), S.Francesco di Sales, il fallimento del suo compito di evangelizzatore verso la città di Ginevra, J.- Pierre de Caussade, gesuita (+ 1751) nel suo L'abbandono alla divina Provvidenza. Soprattutto la 'dottora' la piccola Teresa, maestra di abbandono. (12)
Dunque in ogni figura spirituale oltre agli appelli generici alla santità, importa riscoprire come è entrato nelle sue notti e ha vissuto l'abbandono nelle mani del Padre, come Maria, in comunione con il Figlio, Amore Crocifisso.
Il fallimento: laboratorio di originale fecondità, in una stazione straordinaria di crescita.
Uno dei maestri del monachesimo suggeriva al discepolo come favorire la grazia che trasfigura.
Ciò che Evagrio il Pontico ha scoperto e tramandato sull'accidia si rivela come terapia insostituibile di sostegno nel fallimento. La 'terapia' suggerita da Evagrio il Pontico a proposito del nostro tempo è estremamente efficace: ne hanno scritto in molti (Bunge, Piovano, ecc.). Non l'evasione o l'iperattivismo, non la disperazione ma nella perseveranza della fede, l'invocazione, il lavoro, il saper rimanere nelle situazioni, anche patendo. E vigilare, nella pericolosità della situazione, attento ai cenni di Dio e ai suoi passaggi, che guariscono.
Ma altri maestri, più vicini a noi, che stiamo vivendo forme nuove di fallimento suggeriscono:
a. Passività, cioè lasciarlo agire: in queste situazioni spesso il Signore ci apre una porta stretta per introdurci in una nuova stagione della vita spirituale. Comunque solo Lui è capace di trasformare in chance la sconfitta. Vivere l'abbandono, come ci insegna la piccola Teresa. Il primato dell'azione di Dio va riconosciuto e custodito.
b. La meditazione della Passione (Cranach). L'immagine nostra di Dio ne esce sconvolta positivamente (la scoperta di Marinella). A suo modo anche il film di Mel Gibson è capace di farci intuire nella devastazione del corpo di Gesù, la sua continua ricerca di ciò che piace al Padre, soprattutto nei momenti di tentazione.
c. La lucidità: senza farsi illusioni. Scoprire i vari modelli che interagiscono in noi, passando dalla perfezione desiderata alla povertà offerta (vedi sopra la riflessione di Cencini).
d. La prospettiva: le realtà ultime! La chiamata alla beatitudine aiuta se è quotidiana. Non è tanto il dimorare in un oltre. Il futuro è già incominciato. (Commento di Tommaso d'Aquino, rito ambrosiano venerdì della 2°settimana di Avvento). Bisogna invece vivere la grazia dell'incarnazione in atto, secondo Tommaso d'Aquino. (13) L'oltre è già in questo mondo ove il Cristo, asceso al cielo si è fermato. (Suggestiva l'interpretazione di P. Rupnik nella Cappella Redemptoris Mater)!
Conclusione
Se il Cristo è Colui che è venuto per dare la vita e la vita in abbondanza (Gv 10,10), occorre allora dimorare in questa comunione, pur nel vortice dell'angoscia. Lì possiamo sempre essere da Lui rigenerati e protetti, custoditi preventivamente e guariti dalle ferite della vita, anche le più disperate.
Lì impariamo i due verbi della fede, resistenza e resa.
A questo ci educava don Moioli, pochi mesi prima di morire:
"Non al dolore mi arrendo, ma a Dio, a questa vicinanza che sembra una lontananza.... Dentro di me sono un povero, abbandonato: è questa la resa al Mistero di Dio. E' qui tutto il segreto di una fiducia, di una speranza, di una confidenza. Questa, che sembra una resa, è in realtà una forza straordinaria, perché la resa suscita una resistenza. In tal senso ho pazienza davanti a Dio. E so fare del dolore un dono come fa Gesù Cristo” (Don Moioli).
Romano Martinelli (*)
Note
1) Vedi due articoli molto documentati sul Dimorare in Gesù, antidoto all'accidia, in La rivista del clero italiano, nn. 9 e 10, 2004.
2) La pastorale vocazionale e le scuole pratiche di Direzione Spirituale hanno ottimi laboratori al riguardo. Vedi la rivista Vocazioni, in particolare, La direzione spirituale di fronte alla sofferenza, alla prova e alla crisi. N. 3, 2001.
3) Penso al tema più volte evocato del morire di comunità, gruppi, famiglie religiose. Un intervento significativo di Th. Radcliffe, Forti nella debolezza, in Testimoni, 30 nov., n. 20, 2003.
4) Da poco scomparso, è ricordato da Gian Luca Podestà nella commemorazione all'Università Cattolica in Cristianesimo come decisione, Rivista del Clero, novembre 2004, pagg. 784-796, in particolare alle pagg. 786 -789.
5) loc. cit ., pag. 787.
6) M. Veneziani, I vinti. I perdenti della globalizzazione e loro elogio finale, Mondadori, 2004. C'è una commossa rilettura di due 'perdenti di successo', cioè P. Pio e il S. Padre.
7) Non era De Andrè che cantava in Via del Campo: “Ama e ridi se amor risponde! piangi forte se non ti sente! dai diamanti non nasce niente! dal letame nascono i fior…”?
8) Penso alla rivista recentemente lanciata dall'editrice Ancora 3D.
9) J. Ratzinger, Il Dio vicino, San Paolo, 2003, pp. 108-111.
10) Ivi pag. 110.
11) Molto interessanti gli Atti del Raduno carmelitane Scalze, Macugnaga 2003., dal titolo ... "anche se è notte". In particolare l'analisi dei diversi ‘appetiti', che entrano in gioco nelle diverse stagioni dell'esperienza di comunione con Dio. Su questo ha scritto anche il carmelitano olandese, Stinissen, La notte è la mia luce, Città nuova, 2004.
12) Fr. Ephraim Mardon-Robinson, L'amore folle di Dio , Ancora, 1988.
13) P. Nault, citato da R. Vignolo in Dimorare in Gesù, antidoto all’accidia, La Rivista del Clero Italiano, n. 9, sett. 2004 pag. 607.
Altri testi che con frutto si possono meditare sul tema: A. Grün, M. Robben, Come vincere nelle sconfitte, Queriniana, 2003. Inoltre D. Pezzini, La forza della fragilità, (provocazioni sulla speranza cristiana), Paoline 2004.
(*) Docente nel Seminario Maggiore della Diocesi di Milano.
Relazione tenuta agli Aspiranti dell'istituto Cristo Re il 12 febbraio 2006.
(da Vita religiosa in Lombardia, XX, n. 70, 2006, pp. 60-71)