La spiritualità - come la sessualità - è una dimensione costitutiva della persona umana. È una potenzialità che può essere coltivata o trascurata. Una persona sprovvista di spiritualità si chiude alla capacità di percepire la profondità della sua soggettività: in lei, l’appagamento dei desideri verrà prima di ogni possibile ideale cui tendere.
Socrate e Cartesio hanno suscitato l’interesse per l’intelligenza razionale. Daniel Goleman, con le sue scoperte sull’architettura emotiva del cervello, ha proposto di educare all’intelligenza emozionale, da cui dipendono anche l’intelligenza cognitiva e la capacità di motivare e di guidare sé stessi nell’azione operativa. La britannica Danah Zoar, filosofa ed esperta in fisica quantistica, ha richiamato la nostra attenzione sull’intelligenza spirituale. Oggi, il gesuita Mariano (Marià, in catalano) Corbì, suggerisce che la spiritualità si riassume in “IDS”, cioè: interesse (per la spiritualità stessa), distacco (dai “sé stessi” e dai propri beni materiali) e silenzio (per concentrarsi su sé stessi al fine di “dis—centrarsi” poi sull’Altro e sugli altri).
Apparentemente, la spiritualità sembra opporsi alla materialità: si afferma che lo spirito è contrario al corpo. Oggi, però, questo dualismo platonico è superato, dal punto di vista sia della scienza che della teologia. Siamo tutti e tutto una sola unità! La materia, nelle sue meravigliose diverse realtà, è data dalle molteplici combinazioni di soli 92 atomi (i 92 elementi chimici), che si differenziano fra loro per “numero atomico” e “massa atomica”. Gli atomi del nostro corpo altro non sono che gli stessi “mattoncini” che formano l’insieme dell’universo.
La spiritualità prescinde (e “viene prima”) delle religioni: può essere vissuta senza di esse. Esistono religioni prive di spiritualità, asfissiate dal peso del dottrinarismo autoritario. Socrate e Seneca erano persone profondamente “spirituali”, veri e propri “santi pagani”, anche se non particolarmente “religiosi”.
Le religioni sorsero nel periodo neolitico, quando l’essere umano, fino ad allora raccoglitore e cacciatore nomade, divenne produttore di cibo sedentario, allevando animali e coltivando i campi. Una grande svolta si ebbe nei secoli 8°, 7° e 6° a. C., più o meno quando nacquero e vissero i primi profeti biblici; Budda, Lao-Tsé e Zaratustra. Fu in quell’epoca che la religione si trasformò in istituzione. Prima di allora, predominava una cosmovisione tribale e comunitaria, per lo più orientata a placare le ire degli dei e a ottenere da essi protezione in caso di catastrofi naturali, e la persona umana ancora non si poneva individualmente davanti alla divinità in termini di relazione interpersonale. Questa coscienza sembra essere apparsa attorno al secolo 7° a.C.
La religione nasce come forma di controllo della società agro-pastorale: i suoi racconti mitici mirano a disciplinare il “caos etico” e, nello stesso tempo, a dare fondatezza al potere dell’autorità.
Oggi a essere in crisi non è la spiritualità, ma le forme tradizionali della religione. Nel nostro mondo secolarizzato e “disincantato”, i valori etici sono sostituiti dalle conoscenze scientifiche, l’avere sopravanza l’essere, la bramosia primeggia sull’ideale, e l’altruismo lascia il posto al consumismo. La religione, tutt’al più, è relegata nel privato e circoscritta al luoghi di culto, senza alcuna incidenza sulla vita sociale.
Anche in seno alle stesse chiese si registrano dicotomie: i fedeli si discostano facilmente dalle morali ufficiali prescritte dalle rispettive autorità. Esattamente come in altre situazioni della vita sociale - ad esempio, nel mondo del lavoro -, anche nella religione si dà per scontata una certa “flessibilità” nel credo professato: si è, pertanto, alla presenza di un amalgama di proposte che vanno a formare un mosaico non sempre di facile comprensione.
Come la crisi della cristianità - con il Rinascimento - non significò una crisi del cristianesimo, così l’odierna crisi delle religioni non è sinonimo di crisi di spiritualità. Oggi abbiamo a che fare con una spiritualità laica, post-religiosa, incentrata sull’autonomia dell’individuo. Ciò che caratterizza questa spiritualità post-moderna è la ricerca non più dell’altro, ma di sé stesso, del proprio benessere, della propria tranquillità spirituale, della pace del proprio cuore (per questo, può essere definita “spiritualità egocentrica”, cioè centrata sul proprio io); nello stesso tempo, è possibile scorgervi il desiderio di diventare “politica”, volta alla promozione della giustizia e della pace, e anche pronta a venire a termini con un’etica sociale e con un impegno per la salvaguardia del creato.
Credo sia utile riassumere schematicamente il pensiero di Marià Corbì. Innanzitutto, una odierna spiritualità evangelica deve avere chiari i propri obbiettivi: il mio proprio benessere soggettivo o anche una società fondata sulla giustizia? Deve, inoltre, favorire il distacco dai beni “finiti” (gli averi, il potere, il denaro, la fama) al fine di coltivare i beni “infiniti” (l’amicizia, la solidarietà, la compassione). Infine - e soprattutto - deve fondarsi su quel silenzio interiore che diventa apertura dialogica e orante a Dio, atteggiamento di servizio agli altri e rispetto di devozione nei confronti del creato.