LA SPERANZA PER UN FUTURO POSSIBILE
Scrutatori di nuovi orizzonti
di Rino Cozza csj
Realizzare un progetto di vita innovativo significa pensarsi in modo nuovo per poter pensare il nuovo; ma ciò non è possibile se si deve fare riferimento a realtà nate nel contesto di quella cultura secolare in cui ciò che in quel tempo è percepito come “verità” assume il carattere di immutabilità.
Anche nella nostra vasta area geografica, imprevedibilmente, stiamo assistendo a una inaspettata vitalità delle forme di vita evangelica delle quali la vita religiosa ne è un particolare modello. Numerose sono le nuove fondazioni, che esprimono una incuriosente vitalità, sorte in questi ultimi decenni, la cui forma aggregativa è originale rispetto alle canoniche. Il fine primario – che è quello di rendere attuale la presenza di Cristo e la sua missione sanante – è comune a tutte queste e alle forme di antica fondazione.
Quanto sta avvenendo ci induce a essere attenti scrutatori di orizzonti ove convergono le linee dei tramonti e delle aurore.
SPERANZA E RICOLLOCAMENTI RICHIESTI
Si tratta di rispondere alla domanda: che cosa debbo fare per avere la vita?” consapevoli che le risposte del Signore sono sempre all’interno di un dato contesto culturale e storico.
In alcuni interventi dello scorso anno, su questa rivista, mi ero soffermato nel dire che la speranza era riposta nella capacità di riacculturare la spiritualità, che non significa soltanto diventare più spirituali ma avere la capacità di marcarla con le attuali coordinate di vita e di ridirla con il linguaggio di coloro a cui ci si rivolge, non essendo più sufficiente quello delle nostre origini. Secondo: che per poter essere fermento la vita religiosa deve cercare spazi nel dinamismo della vita ecclesiale, impastandosi con le altre vocazioni. E ancora: rispondere alla istanza di fraternità, vale a dire alla esigenza di passare dall’essere “confratelli” all’essere “fratelli” per una esperienza spirituale vissuta insieme, in funzione del divenire “creatura nuova” nell’oggi, non estranea alla maturazione delle esigenze che vanno meglio a esprimere autenticamente la persona.
Ora, nella attuale riflessione enucleo altri “semi” in cui è riposta la speranza.
Nel passato, per i Religiosi/e l’identità era data per lo più da ciò che facevano, ora – e questo è stato detto più volte e da più parti – le opere apportano pochissimo all’identità: «Questo fatto può essere letto come un segno provvidenziale che invita a recuperare il proprio compito essenziale di lievito, di fermento».(1)
NUOVE TRACCE DI SENSO
È tempo dunque di passare dalle opere alle sfide e di accogliere in particolare le povertà a cui nessuno risponde. Dire questo non significa preclusione a ogni tipo di opera ma a quelle che non sono trasparentemente strumento in funzione delle sfide. Come andare avanti non frenati da verità virtuali (non nel senso teologico) espresse con parole senza senso per l’attuale sensibilità culturale? La chiave è nella capacità di inventiva o creatività, che significa capacità di produrre nuove rappresentazioni dei problemi e delle soluzioni; di rifigurare a ogni appello i propri sistemi organizzativi e mentali ricollocando dinamicamente l’identità a misura del bisogno per poter porre il Vangelo nell’oggi della storia. Creatività è la capacità di proporsi dei progetti che siano passibili di continuo adattamento ai bisogni sempre nuovi. Tutto ciò può essere prodotto da quei gruppi capaci di pensare mondi possibili, spinti dal sogno, vale a dire da un valore intravisto e sostenuto da una positiva emozione e dalla voglia di “esserci”, perché nessun valore entra nella vita della persona se questa non ha partecipato a costruirlo. Il futuro è «in piccoli gruppi di giardinieri che si sostituiscano ai notai»,(2) e in “spazi” che consentano di liberarsi da eccessive pressioni di conformità per poter essere grembo fertile di significati nuovi in riferimento a un valore, in grado di inventare nuove forme di vita individuale e collettiva.
BISOGNA DE-ISTITUZIONALIZZARE
Ogni fondatore, al gruppo di iniziatori ha dato il nome di “famiglia” religiosa; con il passare di pochi decenni lo stesso gruppo si è ritrovato “istituto” religioso, non solo per esigenze di diritto canonico ma per un processo naturale che si chiama istituzionalizzazione. Il carisma nasce da una inedita e libera azione dello Spirito, l’istituzione viene in aiuto con la sua funzione di volano che è quella di immagazzinare la forza dinamica delle origini per riproporla via via nel cammino della sua storia. Il momento però diventa critico quando finisce un’epoca, per il fatto che il volano (istituzione) non è capace di disimparare per apprendere. Quando sopravvengono nuovi contesti l’originalità di ispirazione deve essere tutta incentivata dai nuovi orizzonti sociali ecclesiologici e antropologici e non solo dai “saperi” immagazzinati dal “volano”. Certamente i termini carisma e istituzione non sono in contrapposizione, ma è altrettanto certo che il loro rapporto rimane sempre dialettico e che in ogni caso l’istituzione è in funzione del carisma e non viceversa. La storia di san Francesco è quasi il paradigma di questa conflittualità permanente tra carisma e istituzione, tra VR come segno profetico e VR come modello istituzionale (3) Non è certo possibile prescindere dalla dimensione istituzionale essendo questa un rilevante patrimonio di memoria e intelligenza ma è altrettanto vero che un carisma nato in controtendenza, estemporaneo alle norme sociali ed ecclesiali finisce dall’essere da queste “normalizzato”. Per poter abitare il futuro la vita religiosa dovrà ricomporre l’equilibrio ora sbilanciato sulle norme. G. Riglet, un sacerdote belga vicerettore dell’università di Lovanio, sintetizza bene questo punto: i nostri contemporanei vogliono senso, sì, ma rifiutano l’esorbitante pensiero normativo. E la Chiesa fa fatica a produrre senso senza produrre norme. Ecco la straordinaria conversione che è chiesta alla vita religiosa. E capisco che sia un cambiamento vertiginoso: proporre senso senza rinchiuderlo. Un senso che dia respiro”. (4)
Che dire di varie nuove comunità monastiche che nella riplasmazione di nuovi modelli hanno scelto di non far parte dell’ Ordo monasticus per dar vita a un monachesimo nella Chiesa locale? In effetti realizzare un progetto di vita innovativo significa innanzitutto pensarsi in modo nuovo per poter pensare il nuovo, il che non è possibile se si deve fare riferimento a realtà nate in contesto di quella secolare cultura secondo la quale ciò che in quel tempo è percepito come “verità” assume il carattere di immutabilità.
CARISMA CONDIVISO CON LE ALTRE VOCAZIONI
Questo discorso – è bene riproporlo – è presente nello strumento di lavoro del Congresso 2004 dove si dice che «si sta definendo un nuovo modello di vita consacrata attorno a nuove priorità, nuove forme organizzative e di collaborazione aperta e flessibile con tutti gli uomini e le donne di buona volontà». (5) Nel processo rifondativo il punto di partenza dei religiosi è l’accoglienza di alleanze come una questione radicale dell’esistenza consapevoli che un sistema chiuso va verso l’entropia e l’asfissia: laici e religiosi sono due polmoni che favoriscono la dinamica respiratoria. (6) La maggior parte delle nuove forme di vita evangelica – come già ho avuto modo di dire in un altro articolo – adotta, in funzione del carisma, la forma di realtà concentriche che consiste nel diverso livello di partecipazione e di appartenenza. Al centro c’è un cerchio più piccolo che sceglie a tempo pieno la forma della consacrazione, stabilendo vincoli giuridici stretti con l’istituzione. Radialmente poi ci sono cerchi sempre più ampi, formati da quelli che si riconoscono nell’ispirazione carismatica in forme di impegno diversificato. Nella strategia delle realtà concentriche dunque sono possibili livelli di maggiore o minore prossimità integranti l’unico carisma in modo differenziato, dinamico e progressivo.(7) Da tale forma organizzativa è derivata, anche, la fortuna dei movimenti. Per parte dei laici e dei religiosi partecipare a uno stesso carisma significa, assumendone la globalità, condividerlo in qualche suo aspetto, come parte di un tutto con il quale confrontarsi, integrarsi, sistematizzarsi, senza “confondersi”, a partire dal presupposto che come religiosi «non solo abbiamo qualcosa da dare ma anche molto da ricevere», specialmente quello di riesprimere in situazione di secolarità il nostro bagaglio spirituale a partire dalla consapevolezza che le risposte di ieri non bastano più.
Segno di un carisma che ha fatto la scelta della integrazione è dato dal sentire che ognuno cresce nell’esercizio dello scambio di doni che sono quelli della laicità e della consacrazione. Allora per carisma condiviso si intende una realtà nuova «in cui si dilata e si arricchisce il carisma spirituale e apostolico del fondatore». Questa è grande novità: la ricchezza di un carisma che si manifesta in pienezza quando si concretizza nei diversi modi di vivere la vita cristiana e fa maturare una comunione di vocazioni. Quanto espresso conduce a dire che il carisma nelle sue due dimensioni, spirituale e apostolica, per poter essere dono alla Chiesa nella pienezza delle sue potenzialità, non soltanto concede spazi ma necessita di complementarietà.
CARISMI D’ISTITUTO IN COMUNIONE TRA LORO
L’immagine comunionale della Chiesa è centrale nella teologia del Vaticano II. È interessante quanto fa notare al riguardo Von Balthasar secondo il quale il termine communio, dal punto di vista filologico può derivare da cum-munio che significa difendersi insieme, fare corporazione, oppure, altra lettura, da cum-munus, che vuol dire mettere insieme i propri doni, due significati che non si oppongono. S. Paolo si esprimerebbe così: “a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1 Cor 12,4-5). C’è come una tensione nella Chiesa, cioè un movimento incessante: dalla diversità all’unità, dall’unita alla diversità. La diversità senza l’unità porta alla frantumazione, al caos; l’unità senza la diversità porta alla massificazione, quindi all’inerzia, alla paralisi nella Chiesa. L’esortazione apostolica Vita fraterna in comunità parla di indebolimento della fraternità nella Chiesa originata dalla “scarsa qualità della fondamentale comunicazione dei beni spirituali. Ogni carisma è rilevante, perché dono della Trinità alla Chiesa per il mondo, tanto che non è possibile immaginare di esaurirlo all’interno della propria vocazione. I carismi, per manifestarsi pienamente, devono far leva sulla condivisione perché sono doni che non appartengono esclusivamente a chi li detiene. Condivisione di carismi significa scambio reciproco di un qualcosa che non si possiede come proprietà privata ma come dono da ricevere e donare.
Allora è tempo di un ripensamento creativo circa le relazioni tra carismi, perché la Chiesa non può essere «un supermarket di valori (carismi) ma un’unica grande comunione, a somiglianza trinitaria». Questa comunione non significa sfondersi ma prendere coscienza della propria identità per aprirsi all’alterità, diversamente ci si consegna a un inevitabile destino di estraneità e diversità, con la conseguenza che un dato carisma diventa insignificante.
In conclusione si può dire: la vita religiosa non è soltanto in funzione dell’annuncio dell’aldilà atteso, ma è costituita perché l’aldilà sia presente nella storia con sforzi di prefigurazione, di profezia reale, di storie vissute, in funzione dell’avere più vita. Per questo uno sceglie di consacrarsi: per avere la vita in abbondanza, certamente secondo logiche evangeliche, che però oggi si calano su un concetto di persona evoluto secondo alcune istanze antropologiche in precedenza misconosciute. Da questi presupposti «sorgono da ogni parte nuove proposte – particolarmente dal laicato – che per la loro spontaneità e il loro entusiasmo di gioventù, tracciano un sentiero dinamico e stimolante».(8) La maggior parte degli iniziatori sono laici e come tali portano all’interno della consacrazione la sensibilità ai valori terreni, specie la gioia dello stare assieme, l’amicizia.
Per quanto riguarda la VR quali gli ostacoli alla speranza di futuro? Il Congresso 2004 avvisava del pericolo in atto di investire il più delle forze sul possibile del “già” piuttosto che sul possibile del “non ancora”. È l’istinto di autoconservazione, di autodifesa di fronte all’incertezza del futuro (9) che porta a cogliere la propria identità prevalentemente dal tempo precedente: ma questo è come volere che un giovane in fase evolutiva leghi la propria identità nel passato. La preoccupazione del “già” induce a operazioni di ordinaria manutenzione, deboli in tempi in cui non sono neppure sufficienti i lavori di straordinaria manutenzione ma necessita mettere mano alle fondamenta della “casa”.
Le prospettive di futuro chiamano in causa il tipo di formazione dei consacrati. Perché tanti insegnamenti non generano apprendimento? M. Guzzi risponde così alla domanda che lui stesso si pone: «perché l’apprendimento è inteso come trasmissione di informazioni e non come ristrutturazione di significati e muove da una concezione individuale e non relazionale, nega dimensioni come le emozioni, il tempo, l’ambiente… Ciò avviene perché la maggior parte di coloro che insegnano, lo fanno in base a quello che hanno imparato quando sono stati allievi. Lo stile è quello indicativo di nozioni certe, lineari, e aconflittuali.
Al centro della formazione non c’è la creatività ma la ripetitività, mentre è un processo continuo di definizione e ristrutturazione del significato”. (10) Da quanto detto si può presumere che usciranno dall’attuale situazione critica quelle forme di VR che sapranno cogliere il momento presente come parola di Dio iscritta nella odierna storia di salvezza e con quella sollecitudine che solo la novità può alimentare, senza cedere alla tentazione di racchiuderla negli schemi cristallizzati di un sistema culturale che ci portiamo dietro perché “fedeli” a logiche di quel tempo che non c’è più.
Note
1) Ripartire da Cristo (n. 13).
2) M. Guzzi.
3) P. Arnold.
4) M. Guzzi in Servitium, Bergamo 2000, pag. 169.
5) Instrumentum laboris, Congress 2004 n. 73.
6) P. Generale Fatebenefratelli.
7) J.B. Libanio.
8) S.P. Arnold, Dove ci porta il Signore – Paoline p. 111.
9) F. Ciardi.
10) M. Guzzi.
(da Testimoni, 15 settembre 2006 n. 15)