Vita nello Spirito

Mercoledì, 29 Febbraio 2012 09:40

Il dolore dei discepoli di Cristo (Robert Scholtus)

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La morte di Gesù fu per i suoi amici tanto più inaccettabile, in quanto, all’ignominia di questo "assassinio legale", che metteva fine alla loro speranza della restaurazione del regno di Dio, si aggiungeva la vergogna per il loro tradimento e il loro abbandono.

Il dolore dei discepoli di Cristo

di Robert Scholtus

La morte di Gesù fu per i suoi amici tanto più inaccettabile, in quanto, all’ignominia di questo "assassinio legale", che metteva fine alla loro speranza della restaurazione del regno di Dio, si aggiungeva la vergogna per il loro tradimento e il loro abbandono.

Ma il loro lutto fu come "sospeso" a seguito della scoperta della tomba vuota , e poi interrotto dalla manifestazione del Vivente nel quale riconoscevano il Crocifisso. Il loro lutto doveva essere "metabolizzato", non più per accettare l’ineluttabilità della morte, ma per credere in quel Vivente, senza vederlo né toccarlo, e capire il senso della promessa che egli aveva fatto, di essere con loro fino alla fine dei tempi e di rimpossessarsene con lui.

Le parole del Vangelo che narrano questa esperienza inedita, hanno una risonanza particolare nei cuori tormentati a causa dell’assenza di un essere amato. Esse non sono immediatamente trasmissibili alla nostra esperienza del dolore, ma danno a coloro che cercano la consolazione , il mezzo per trasfigurare la loro sofferenza nella speranza inaugurata dal Cristo, innalzato alla gloria dei cieli.

La morte, la resurrezione e l’esaltazione del Cristo

Ogni volta che si riuniscono in suo nome, i cristiani proclamano con forza la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. É come se, quasi distrattamente, confessassero che il Resuscitato "è salito al cielo" e che è "seduto alla destra del Padre" Il mistero dell’Ascensione che pure costituisce un articolo del loro credo, trattiene appena la loro attenzione, e non sembra per nulla essere alla base della loro fede, a causa, senza dubbio delle rappresentazioni infantili e mitologiche che ne sono state date nel corso dei secoli.

Nell’ultima parte del suo Vangelo, san Luca potrebbe avvalorare l’idea che gli apostoli attribuiscono poca importanza a questo avvenimento, in quanto lo situa nel giorno stesso della resurrezione e lo descrive come l’ultima apparizione sensibile del Signore , ai suoi discepoli . Il suo intento è, chiaramente, quello di esprimere l’unità e la dinamica del mistero di questo figlio che, poiché si è abbassato fin o alla morte, è stato esaltato dal Padre: "Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è sopra ad ogni nome, affinché nel nome di Gesù, si pieghi ogni ginocchio delle creature celesti, terrestri, e sotterranee ed ogni lingua confessi che Cristo Gesù è il Signore , a gloria di Dio Padre"(Filippesi, 2, 9-11).

E lo stesso San Luca apre il libro degli Atti degli Apostoli, di cui è l’autore, con un secondo racconto dell’ascensione, che pone quaranta giorni dopo la Resurrezione, quaranta giorni durante i quali il Vivente "si era fatto vedere da loro parlando del Regno di Dio" (Atti, 1, 3). Si trova così, spiegata nel tempo, l’unica Pasqua del Cristo, l’unico mistero della sua morte-resurrezione-esaltazione.

La liturgia cristiana , alle origini interamente concentrata sul giorno di Pasqua e sulla domenica, giorno della Resurrezione , si è progressivamente sviluppata, secondo questa cronologia di Luca, per arrivare a solennizzare, il quarantesimo giorno dopo Pasqua, l’Ascensione del Signore e, cinquanta giorni dopo, (Pentecoste) la venuta dello Spirito Santo. Quaranta giorni, dunque, che prolungano l’avvenimento pasquale, e richiamano i quaranta giorni che lo precedono nella liturgia, questa santa quarantena che i cristiani sono chiamati a vivere per fare morire in essi l’uomo vecchio, prima di rinascere alla novità del Risuscitato. Questa simmetria è ricca di insegnamenti in merito al significato dei quaranta giorni che separano Pasqua e l’Ascensione.

Come una seconda quaresima dopo Pasqua

Fare la quaresima , in rapporto alla prova del deserto vissuta per quaranta anni dal popolo ebreo , e quaranta giorni dal Cristo, vuol significare rinunciare alle dolci nostalgie della schiavitù e delle immagini idolatre dell’Altissimo, vuol dire imparare a rinunciare alla soddisfazione dei nostri bisogni immediati , per educare al desiderio di Dio e ravvivare la speranza dell’amore totale al di là di ogni morte.

I quaranta giorni che ci offre la liturgia pasquale, rassomigliano ad una seconda quaresima, ad un paradossale tempo di lutto destinato ad insegnarci a rinunciare alla presenza del Cristo secondo la carne, per iniziarci progressivamente , nel cuore stesso di questa assenza, alla sua divina e gloriosa presenza.

Nel Vangelo, questi quaranta giorni, costituiscono certamente il lasso di tempo indispensabile , affinché la resurrezione di Gesù possa essere attestata da un certo numero di "apparizioni" a Maria di Magdala e alle sue compagne, ai discepoli di Emmaus, a Simon Pietro e agli Undici.

Ma questo arco di tempo assume anche un valore pedagogico: esso è destinato a permettere ai primi testimoni di entrare in un nuovo tipo di rapporto, al di là della morte, con colui che fu il loro maestro e amico lungo le strade della Palestina. Essi debbono ormai imparare a credere in una presenza che non si farà più né vedere né toccare: "Beati coloro che non hanno visto e che hanno creduto" (Giov 20, 29). Essi debbono accettare la scomparsa del Cristo nei segni che egli da della sua presenza: le brucianti parole che egli affida alla loro memoria e alla loro intelligenza, e il gesto della frazione del pane. Poiché il Resuscitato, si manifesta agli occhi della fede, solo nel momento in cui si nasconde agli occhi della carne: "I loro occhi si aprirono ed essi lo riconobbero…. ma egli disparve ai loro sguardi" (Lu 24, 31).

I quaranta giorni preparano così il passaggio che si compie con l’Ascensione, dal tempo del Cristo, al tempo della Chiesa. Ordinando loro di andare in ogni paese, di fare dei discepoli e di battezzarli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Gesù li rassicura: "Sarò con voi fino alla fine dei tempi" (Ma 28, 20). La presenza del Cristo viene loro assicurata, nel momento stesso in cui egli affida loro la missione di renderlo presente al mondo intero e di edificare il suo corpo visibile, la Chiesa.

Senza questo periodo altamente simbolico dei quaranta giorni, l’Ascensione avrebbe potuto ridursi ad una" brutale evaporazione" nell’eternità, di Dio, portando con sé, come conseguenza, una specie di rottura del Risuscitato, con la sua propria umanità e con la nostra. La tradizione della Chiesa, ha sempre sostenuto, al contrario, che è "nel suo corpo" che Cristo è salito al cielo, per accedere così, nella sua umanità, alla pienezza della sua divinità.

Accettare l’assenza

È indubbio che l’Ascensione segna il termine di quella che comunemente si chiama una "presenza", quella che viene percepita dai sensi. Non solamente la nube divina dal cielo, sottrae definitivamente il Cristo agli sguardi dei suoi discepoli, ma, come per prevenire ogni tentazione di prolungare la sua presenza, nel cielo dei loro sogni, ecco i due angeli che distolgono i loro occhi da questo vuoto improvviso. "Perché rimanete là a guardare verso il cielo? Questo Gesù che, tolto a voi è stato elevato al cielo, verrà nello stesso modo in cui voi l’avete veduto salire al cielo" (At 1, 11).

Si tratta dunque di una partenza. E se il Vangelo è il racconto dell’avvento del Verbo di Dio nella nostra storia, è in sovrappiù la cronaca di una partenza annunciata. Annunciata a parecchie riprese da Gesù stesso che, in numerosi capitoli del Vangelo, abbandona la compagnia di coloro che vogliono stare con lui, e si ritira in disparte, in luoghi deserti per pregare.

Acclamato come "colui che viene nel nome del Signore" è anche sempre colui che percorre il misterioso cammino di Pasqua, spinto dall’ardente desiderio di ritornare nella casa del Padre per accogliervi i suoi fratelli. Ma essi non comprendono la promessa contenuta nelle sue parole di addio. Essi non capiscono che è "a Dio" che egli va. Gesù è ancora con loro, ma l’imminenza della sua partenza fa precipitare nello smarrimento e nel dolore i loro cuori già orfani. Non possono "acconsentire" all’assenza di colui che con la sua presenza li aveva affascinati e ricolmati, nello stesso modo in cui, l’indomani della sua resurrezione, faranno fatica a credere nella presenza di colui che era stato crocifisso.

Una distanza necessaria

Nel Vangelo di Giovanni (13-16) gli ultimi incontri di Gesù con i suoi, sono intessuti da questo malinteso tra il gioco divino della presenza-assenza che egli insegna loro, e l’impossibilità in cui essi sono di rapportarsi in una maniera diversa dal loro concepire una immediata presenza o una insuperabile assenza. Venendo poi ai vangeli sinottici, si constata che è necessaria l’Ascensione, perché i discepoli scoprano il senso della sua dipartita, non più vista come una sparizione ineluttabile, un abbandono insopportabile, ma come una presa di distanza, un movimento di ritrazione che, paradossalmente, lo rende più presente agli uomini, di quanto non lo consentisse la sua sola presenza fisica.

Lo sappiamo per esperienza, le separazioni sono spesso devastatrici e l’allontanamento può far morire poco a poco un rapporto. Ma ogni relazione forte, ha bisogno di sperimentare questa distanza nella quale l’altro, non è più colui che si prende e che si tiene accanto, ma colui che si lascia scoprire al di là di ciò che si può cogliere sensibilmente di lui. La distanza, mi priva dell’altro a mia immagine, ma me lo restituisce quale egli è veramente, unico e insostituibile.

L’Ascensione porta all’incandescenza questa esperienza umana della distanza che riavvicina, del silenzio che fa risuonare la parola, dell’assenza che fa crescere la presenza. Improvvisamente, colui che se ne va, appare come colui che arriva. Nel momento stesso in cui se ne va verso il Padre, con lo stesso movimento, Gesù viene verso di noi come dice egli stesso ai suoi discepoli con una strana frase: "Me ne vado, e vengo verso di voi" (Gio 14, 28). Ritirandosi dal mondo, sottraendosi alla realtà della presenza, egli li introduce nello spazio incommensurabile della sua intimità, nella dimora dell’amore che unisce al Padre, nel cuore della Trinità.

L’Ascensione significa questo passaggio dalla vicinanza, a ciò che Marie-Paul Dion chiama "la coabitazione interiore": "Prima che gli Apostoli stessi siano in grado di rendersene conto, Gesù li ‘abitava’ e, poco a poco, la sua parola e la sua azione avevano modellato in essi il suo ‘Volto di gloria’. La sua dipartita non fece che svelare questa presenza, esente da ogni nostalgia perché immersa ora nell’ebbrezza trinitaria".

Il Cristo si è ritirato dal mondo visibile per fare ai suoi il dono di una presenza invisibile. Ma, è stato sufficientemente messo in rilievo che egli si separa da loro in un gesto di benedizione: "Mentre li benediceva, si separò da loro e ascese al cielo" (Lc 24, 51)e che subito dopo sono essi che troviamo nel tempio di Gerusalemme ove" se ne stavano continuamente lodando e benedicendo Dio" (Lc 24, 53) ?

E allo stesso modo, alla tavola della locanda di Emmaus, il Cristo scompare ai loro sguardi nel gesto della benedizione, cioè, donandosi a loro, facendosi "presente", sempre offerto, presenza divina da celebrare e annunciare, corpo eucaristico da condividere, corpo ecclesiale da costruire.

Il Cristo nel cuore di ogni uomo

Illuminata così dalla promessa del Cristo, l’Ascensione non può più essere vista come la semplice e felice soluzione di un tragico destino. Non solamente lo Spirito, salva il ricordo dei primi testimoni , conservando viva nel cuore delle generazioni future la memoria delle parole di Gesù, ma rilancerà la sua storia tra gli uomini. L’avventura non è finita.

Cristo, non è finito. La sua crescita prosegue nella e per mezzo della Chiesa, che è il suo corpo. Ciò spiega l’inesplicabile: che cioè la partenza del loro maestro, possa aumentare la gioia dei suoi discepoli. È la gioia di partecipare alla sua gioia, è la gioia di attestare la sua presenza con la loro testimonianza, è la gioia dello Spirito che mette in essi l’impazienza di superare i limiti, è la gioia di essere depositari di una bella speranza: un uomo come tutti, di umile famiglia, come ce ne sono tanti, un artigiano di paese convertito alla predicazione, un innocente suppliziato, un uomo, non un fantasma, non un extraterrestre, un uomo chiamato Gesù, è salito presso Dio.

I veli sono caduti e tutto ciò che egli ha vissuto, la sua infanzia, il suo lavoro, la sua lotta per la verità, ;tutto ciò che egli ha detto, le sue parole di misericordia, le sue parole di condanna, le sue promesse; tutto ciò che egli ha sofferto fino alla morte, tutto ciò, è ormai compiuto, raccolto, nelle mani del Padre e tutto si trova immortalato, divinizzato, glorificato. Con lui ormai, l’ultimo orizzonte dell’umanità sfocia in Dio. Con lui, tutta la nostra esistenza diventa seme di eternità. Innalzato al di sopra di tutti i tempi e di tutti i mondi, al di sopra di tutte le potenze e di tutte le dominazioni , il Cristo si pone alla stessa distanza , ugualmente vicino a tutte le creature. Egli è presente, nel segreto del cuore di ogni uomo. La sua salvezza è porta ad ogni uomo.

L’Ascensione ci rafferma così nella sicura speranza di un avvenire con Dio e per Dio. Come diceva San Paolo, noi siamo già adesso cittadini dei cieli, sappiamo che l’avvenire è cominciato. Poiché già ora abitiamo il cielo con il Cristo, più che mai dobbiamo abitare la terra, colmarla dell’amore di Cristo, plasmandola secondo le sue Beatitudini, liberandola dai suoi fantasmi e dalla sua disperazione, operare per il suo avanzamento verso la luce.

Mistero dell’esaltazione del Cristo posto alla destra del Padre, l’Ascensione ci permette di credere nell’elevazione dell’umanità fino a Dio. Glorificando nel più alto dei cieli e nel più intimo del suo mistero l’umanità di Gesù, il creatore del mondo ci da a comprendere che nulla di ciò che è umano può essergli estraneo, dal momento in cui in Gesù egli ha condiviso il nostro pane e le nostre lacrime, le nostre speranze e le nostre angosce. L’Ascensione attira i nostri sguardi verso il cielo, solo per farli riflettere su questo mondo. Il Cristo si è allontanato da esso, affidandoci gli uni agli altri, perché, amandoci come lui ci ha amati, noi rimaniamo nel suo amore e nessuno di noi si perda.

Il Cristo nel cuore di ogni uomo

Illuminata così dalla promessa del Cristo, l’Ascensione non può più essere vista come la semplice e felice soluzione di un tragico destino. Non solamente lo Spirito, salva il ricordo dei primi testimoni , conservando viva nel cuore delle generazioni future la memoria delle parole di Gesù, ma rilancerà la sua storia tra gli uomini. L’avventura non è finita.

Cristo, non è finito. La sua crescita prosegue nella e per mezzo della Chiesa, che è il suo corpo. Ciò spiega l’inesplicabile: che cioè la partenza del loro maestro, possa aumentare la gioia dei suoi discepoli. È la gioia di partecipare alla sua gioia, è la gioia di attestare la sua presenza con la loro testimonianza, è la gioia dello Spirito che mette in essi l’impazienza di superare i limiti, è la gioia di essere depositari di una bella speranza: un uomo come tutti, di umile famiglia, come ce ne sono tanti, un artigiano di paese convertito alla predicazione, un innocente suppliziato, un uomo, non un fantasma, non un extraterrestre, un uomo chiamato Gesù, è salito presso Dio.

I veli sono caduti e tutto ciò che egli ha vissuto, la sua infanzia, il suo lavoro, la sua lotta per la verità, ;tutto ciò che egli ha detto, le sue parole di misericordia, le sue parole di condanna, le sue promesse; tutto ciò che egli ha sofferto fino alla morte, tutto ciò, è ormai compiuto, raccolto, nelle mani del Padre e tutto si trova immortalato, divinizzato, glorificato. Con lui ormai, l’ultimo orizzonte dell’umanità sfocia in Dio. Con lui, tutta la nostra esistenza diventa seme di eternità. Innalzato al di sopra di tutti i tempi e di tutti i mondi, al di sopra di tutte le potenze e di tutte le dominazioni , il Cristo si pone alla stessa distanza , ugualmente vicino a tutte le creature. Egli è presente, nel segreto del cuore di ogni uomo. La sua salvezza è porta ad ogni uomo.

L’Ascensione ci rafferma così nella sicura speranza di un avvenire con Dio e per Dio. Come diceva San Paolo, noi siamo già adesso cittadini dei cieli, sappiamo che l’avvenire è cominciato. Poiché già ora abitiamo il cielo con il Cristo, più che mai dobbiamo abitare la terra, colmarla dell’amore di Cristo, plasmandola secondo le sue Beatitudini, liberandola dai suoi fantasmi e dalla sua disperazione, operare per il suo avanzamento verso la luce.

Mistero dell’esaltazione del Cristo posto alla destra del Padre, l’Ascensione ci permette di credere nell’elevazione dell’umanità fino a Dio. Glorificando nel più alto dei cieli e nel più intimo del suo mistero l’umanità di Gesù, il creatore del mondo ci da a comprendere che nulla di ciò che è umano può essergli estraneo, dal momento in cui in Gesù egli ha condiviso il nostro pane e le nostre lacrime, le nostre speranze e le nostre angosce. L’Ascensione attira i nostri sguardi verso il cielo, solo per farli riflettere su questo mondo. Il Cristo si è allontanato da esso, affidandoci gli uni agli altri, perché, amandoci come lui ci ha amati, noi rimaniamo nel suo amore e nessuno di noi si perda.

Una tenerezza nuova nei confronti della vita

Alla tentazione sempre presente di rinchiudersi nella solitudine del proprio dolore, risponde la chiamata evangelica a contemplare il Primo-nato tra i morti, per il quale si sono aperti i cieli. A contatto dell’esperienza degli Apostoli, dovremo nuovamente imparare che bisogna saper contare sul tempo, non il tempo che passa e cancella il passato, ma sul tempo che lava la memoria e la unisce alle promesse dell’amore che è più forte della morte.

Il lutto è questa lunga pazienza e questa dolorosa ascesi che ci fa ritrovare colei o colui che ci è stato strappato nella sua eterna giovinezza di figlio di Dio. Il suo bruciante ricordo, non è più la nostalgia di una felicità perduta, ma la testimonianza portate davanti a Dio, a una vita unica e insostituibile e a ciò che in essa non morirà mai. La memoria, esprime la nostra solidarietà con i morti. Essa è la sola protesta che noi possiamo opporre alla morte che ci separa. E nella fede, essa diventa memoria dell’avvenire che il Cristo ha inaugurato per noi, e nel quale già ci precedono tanti nostri compagni.

Il destino di Gesù, professato dalla fede cristiana, fin dalle origini, ci permette di trasformare l’ineluttabilità del destino, in un passaggio verso la luce , e di aprire, nel vicolo cieco della tristezza, brecce di speranza E un gran numero di uomini e di donne, sprofondati nel dolore possono darne testimonianza: la ferita provocata dalla perdita crudele di un congiunto, di un figlio, di un amico, proprio perché inguaribile, può diventare la fonte di una tenerezza nuova nei confronti della vita, e di una dolce compassione per la sofferenza del mondo; questi sentimenti, trasfigurano il dolore in gioia: gioia di amare, gioia di testimoniare che la morte non ha più l’ultima parola.

(fine)

Letto 2334 volte Ultima modifica il Mercoledì, 04 Aprile 2012 20:49
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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