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Martedì, 21 Giugno 2016 11:22

La solitudine dell’uomo globale. Incontro con Marc Augé (Paola Bizzarri)

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L'individuo considerato come essere da consolare con il consumismo e non come attore sociale. Si rompono le relazioni tradizionali e non si intravede in che modo poterle ricomporre. Il liberismo selettivo.

C’è chi lo definisce “antropologo del quotidiano", chi “etnologo del metro". Per tutti, Marc Augé resta il “padre" dei "non luoghi", nota definizione coniata per indicare i centri di aggregazione nella moderna urbanità. L’intellettuale francese è senza dubbio uno dei più stimati studiosi contemporanei. La sua vita accademica è ricca di successi: direttore dell'Ècole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, di cui è stato anche presidente, illustre africanista e celebre antropologo della pluralità dei mondi contemporanei. Negli anni Ottanta elaborò l’analisi della dimensione rituale del quotidiano e della modernità.

Professor Augé, il suo nome viene associato alla definizione di surmodernità.

Innanzi tutto, surmodernità è un termine che preferisco a quello di post-modernità. Quest'ultimo porta con sé l'idea che oggi non vi siano più legami con la modernità, come se fossimo "andati oltre". Secondo me non è proprio così. Sono del parere che il periodo che ci troviamo a vivere corrisponda ad un'accelerazione dei fattori che hanno costituito la modernità. Si registra un'accelerazione nella storia, nell'individualizzazione, nell'organizzazione degli spazi e negli aspetti economici e scientifici. E quando si individuano molti fattori in atto, è difficile determinare l'ordine delle cose, pertanto ho usato il termine surmodernità: come definizione quando compaiono molti fattori nella spiegazione di un fenomeno.

La surmodernità vale solo per l'Europa o è un'analisi applicabile anche ai Sud del mondo?

Certo le situazioni non sono le medesime nell'insieme del mondo, ma il fenomeno tocca il globo intero, seppure con modalità diverse. Accanto a paesi economicamente sviluppati, ve ne sono altri impoveriti, ma coinvolti nel processi di accelerazione tipici della surmodernità. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: vi sono settori 'arretrati' in paesi avanzati e, viceversa, Si contano settori super sviluppati in paesi decisamente più fragili.

Lei parla della solitudine del "nuovo uomo globale": cosa significa?

Nei miei libri ho voluto descrivere la solitudine dell'uomo globale, che vive in una società di consumo. Ebbene, l'individuo viene considerato più come un essere da consolare, che come un attore sociale. Il consumismo lo consola offrendogli l'idea di possedere una certa libertà, ma a ben guardare si tratta di un’illusione di libertà. Egli non può che consumare quello che gli viene offerto. Ed è questo andamento che determina il suo gusto e la sua solitudine. Nella surmodernità vengono meno i legami sociali di tipo tradizionale, pensiamo ai legami familiari. Ma l'uomo non può vivere solo, è sempre in relazione. Tuttavia, egli vive in un periodo in cui queste relazioni si devono ricomporre. Il problema della crisi dell'uomo contemporaneo è che non vede chiaramente come le relazioni si ricomporranno.

Spesso ha sostenuto che l'arte sia una forma di resistenza. A che cosa, a chi?

Sì, l'arte può creare forme di resistenza alla solitudine sotto diversi aspetti. Prima di tutto perché l’arte, qualunque sia la forma di espressione artistica ipotizziamo la letteratura - necessita di testimoni. Non si produce arte per essere soli: bisogna essere visti, ascoltati o letti. Da un lato, nel gesto della creazione artistica vi è un appello all’altro, e in questo atto si palesa un gesto di resistenza alla solitudine. Da un altro lato vi è, per esempio nelle arti plastiche, una volontà di pensare che ciò che appare incomprensibile nella società attuale può essere oggetto di rappresentazione e pensiero. Mi rendo conto che possa risultare difficile questo concerto. Il grande pubblico spesso può avere l’impressione che l'arte contemporanea si esprima con linguaggio difficile. Ma credo che, se ci sforziamo di capire quali accadimenti spingono e muovono un artista nella sua creazione, capiremo la semplicità di questo linguaggio. Gli artisti resistono all'evidenza delle immagini. Poiché viviamo in un mondo in cui tutto viene messo “in immagine", l'artista ci vuole suggerire solo che «il mondo non è evidente e semplice come quest'immagine». Egli riflette sulla vita degli uomini, su un oggetto, provoca o cerca di provocare curiosità dicendoci che non è tutto cosi evidente. Tuttavia, il potere delle immagini è così forte che spesso è difficile intendere il messaggio dell’arte. Anche perché il mercato recupera l'arte rendendolo moda, costume. L’arte è una forma di resistenza sempre in movimento.

L'arte può essere un progetto collettivo di liberazione?

Progetto collettivo potrebbe essere un'espressione un po' ambiziosa. Tuttavia, anche la forma più individuale o individualista di arte cerca dei testimoni, ed è in questo senso che l’arte si pone come un fenomeno collettivo.

Esistono altre forme di resistenza a questa modernità di solitudine?

Certo. E lo si può affermare partendo dall’evidenza che l'individuo non può vivere solo. Egli ha bisogno di "senso sociale". Colui che resiste al sistema istituzionale attuale - dove lo Stato non gioca il suo ruolo, i sindacati assorbono meno seguito - affronta crisi di fiducia nel confronti del sistema sociale. Tuttavia, quando c'è una crisi, si registrano anche nuove ricomposizioni. Per esempio, vediamo che i luoghi associativi ottengono molta attenzione. Abbiamo sotto gli occhi tentativi per riorganizzare la società. I partiti politici, in Francia come in Italia, non contano molti militanti, perché la gente è stanca dei messaggi politici tradizionali. Ma la società opera comunque attraverso mezzi associativi, nuovi per certi versi. Dureranno quanto dureranno, ma c'è sempre un'intensa vita associativa e pertanto sociale. Tutto ciò può essere considerata una forma di resistenza alla contemporaneità.

Come è gestito il fenomeno dell'immigrazione dai governi europei? Gli immigrati si rifugiano nei non-luoghi?

L’immigrazione è certamente un grave problema per l'Europa. Però la nozione di non luogo è relativa. Quello che può essere un non luogo per qualcuno, può essere un luogo per altri. Lo spazio di un aeroporto - per esempio - non assume lo stesso significato per il passeggero che ci si imbarca una volta, e per l'impiegato che ci lavora durevolmente con i colleghi.
Ma è interessante vedere chi abita questi non-luoghi: gli spazi di un ipermercato, o la stazione della metropolitana. Diciamo che vi è un'occupazione dei non-luoghi, che può farne luoghi particolari. Più generalmente il problema è che, considerato che gli immigrati sono isolati in quartieri particolari, quello che per i francesi è un luogo, diventa un non-luogo per gli immigrati. Il problema dell’integrazione deve passare attraverso il superamento della ghettizzazione o esclusione spaziale, a volte segni di un'assenza di legami sociali.

L'attualità registra l'attacco degli Stati Uniti in Somalia...

Credo vi sia il timore immediato che l’Africa dell'Est sia una base nuova per l’islamismo. É incontestabile che sussistano movimenti islamici in Africa, e penso che gli americani, già sconfitti sotto questi aspetti, vogliano prevenire un conflitto. O meglio, non vogliano trovarsi di fronte a un nuovo conflitto. É una questione molto delicata: potremmo essere tutti inquieti quando viene utilizzata in forza, e nello stesso tempo essere preoccupati per la volontà di penetrazione del proselitismo islamico. Certo abbiamo gli occhi volti verso il Medio Oriente, ma è indubbio che sta per accadere qualcosa anche nell’Africa dell'est, e non solo lì.

Serge Latouche afferma: «Gli africani non hanno mai pensato di essere poveri, fino a quando qualcuno non è andato a dirglielo... L'80% degli africani sono considerati esclusi e marginalizzati, ma non è così». Qual è il suo pensiero a riguardo?

Non penso affatto che l'Africa sia un continente povero. Presenta grandi ricchezze: minerarie, petrolifere sulla costa dell'Ovest, con Stati dotati di considerevoli possibilità agricole. Tuttavia sono del parere che dovremmo discutere paese per paese per valutare come e quanto la colonizzazione abbia impoverito l'Africa.
La colonizzazione francese, per esempio, ha sviluppato economie di esportazione. Il cotone del Mali ne è un esempio. Il prodotto viene esportato certamente non per bisogni locali, e ciò ha permesso l'ingresso del paese all'interno di logiche mondiali, in opposizione a logiche locali. Il vero problema, rispetto alle potenze dominanti, è il mercato: mai veramente liberalizzato, come invece viene detto. Il cotone maliano, di ottima qualità, viene venduto a prezzi bassi. I maliani hanno difficoltà a vendere il loro cotone, perché Usa e UE sovvenzionano i loro produttori. Nello stesso modo l'Europa, sostenendo fortemente i propri agricoltori, nuoce alla possibilità agricola africana, sbarrando le sue potenzialità. Invece l'Africa può nutrire l'Europa. Dietro i noti rapporti di forza non si nasconde il liberismo, ma un liberismo selettivo.

Paola Bizzarri

(in Solidarietà internazionale, n. 2, 2007, pp. 18-19)

 

Letto 4412 volte Ultima modifica il Martedì, 19 Dicembre 2023 12:14
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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