Per quanto ammirabile sia l'invito, né il Sinodo né il Papa sembrano in grado di precisare cosa questo comporti in termini pratici. Ricordo il coraggio con cui alcuni vescovi nell'aula sinodale invitavano i politici cattolici «ad agire con integrità ed evitare ogni tipo di corruzione, o ritirarsi dalla vita pubblica». Frasi profetiche, certo, ma molto generiche.
Cosa dovrebbe fare un amministratore pubblico? Dare le dimissioni? O iscriversi a un partito "onesto", senza possibilità di essere eletto? In uno stato a partito unico o in mano al partito di governo che estende la sua influenza a ogni angolo del settore pubblico o privato, cosa significa «operare con integrità», se solo i rapporti "giusti" ti consentono di vivere? Si sta invitando i cattolici a ritirarsi del tutto dalla vita pubblica?
La chiesa potrebbe promuovere il "buon governo" appoggiando gli organismi non governativi e i movimenti della società civile. Anche se non immuni da corruzione, ciò che questi stanno facendo è encomiabile. Ma, in ultima analisi, spetta ai cittadini decidere se intendono continuare con le vecchie politiche corrotte o adottare un nuovo modo di gestire la cosa pubblica.. Se decidono di cambiare, bene. Se no, non rimane che continuare a protestare.
Moeletsi Mbeki, fratello dell'ex presidente sudafricano Thabo Mbeki e autorevole intellettuale, ha scritto che la maggioranza dei sostenitori del Congresso nazionale africano (Anc), il partito di governo, è povera o molto povera, disoccupata o prossima a perdere il lavoro, eppure riconferma puntualmente al potere l'Anc in cambio di sussidi statali. E questo, nonostante che l'Anc persegua politiche economiche neoliberali che non aiutano certo i suoi votanti. Mbeki parla di circolo vizioso: i poveri dipendono dall'Anc e continuano a votarlo; e poiché i poveri rappresentano il bacino dei suoi voti, l'Anc è riluttante a portarli fuori dalla povertà per paura di perderli. Che deve fare la chiesa sudafricana al riguardo?
In passato, la chiesa cattolica incoraggiò la formazione di partiti democratico-cristiani in nazioni come Italia e Germania. Presto, però, questi partiti, pur mantenendo il nome, si distanziarono dalle loro radici religiose perché, anche in nazioni in prevalenza cattoliche, era più efficace non mantenere connessioni ecclesiastiche troppo strette. Del resto, non tutti i cattolici condividono ogni singolo principio dell'insegnamento ufficiale della chiesa. Anni fa, ad esempio, i cattolici filippini approvarono a grande maggioranza la promozione della pianificazione familiare e del controllo delle nascite, anche se i loro vescovi si erano schierati contro tali proposte.
Il tempo del controllo della chiesa sulla vita politica è passato. Ma né il Papa né i vescovi africani sembrano ammetterlo: si limitano ad appellarsi ai cattolici perché siano pronti a mettere a repentaglio le proprie vite per amore del Vangelo e per i valori del Regno, senza peraltro formulare e mettere in atto precise strategie che promuovano concretamente la democrazia e il buon governo nel continente. Si deve cominciare anche in Africa a scomunicare chi non segue l'insegnamento della chiesa? Siamo in un' era di libero mercato anche in materia di religione: l'africano cambia facilmente chiesa e non vede differenze tra una e l'altra. Il fiorire delle chiese indipendenti è lì a dimostrarlo.
Pluralismo religioso
A proposito di pluralismo religioso, mi sembra che l'approccio del Papa alle religioni tradizionali africane e alle chiese indipendenti sia oltremodo ambivalente. Penso sia preoccupato dell'impatto che le credenze tradizionali (stregoneria inclusa) continuano ad avere sui cristiani. Ma il problema è più complicato di quanto lui ed io, "occidentali" per cultura, possiamo immaginare. La mia impressione è che nella maggioranza degli africani le credenze religiose tradizionali sono talmente radicate che un invito a negarle equivale a una richiesta a negare la propria identità. In quanto occidentale, non credo che i morti abbiano il potere di esercitare influssi sui vivi e che la stregoneria sia una forza reale al di là della suggestione psicologica. Ma se ci credessi, sarei più propenso a non ascoltare chi m'invita a rigettare le mie credenze che a seguire il suo appello.
Le chiese indipendenti africane fioriscono perché offrono non solo una patina scintillante alle profonde credenze della gente (come sembra pensare l'Esortazione), ma anche linguaggi e rituali capaci di neutralizzare gli effetti della stregoneria. Inoltre, hanno bisogno di meno strutture e di minor preparazione dei loro leader e, naturalmente, non hanno l'assillo della disciplina del celibato, spesso angosciosa a livello culturale.
Da decenni nella chiesa non si fa che parlare di inculturazione del messaggio evangelico. Anche i due sinodi africani ne hanno discusso. Nella pratica, però, non si è fatto molto. L'Africae munus dedica all'argomento tre punti (36-38), che sembrano però sottolineare le difficoltà e i dubbi che molti ancora hanno al riguardo. Si è come sfiancati dal difficile equilibrio tra l'unità (talvolta intesa come uniformità) e la diversità (spesso paventata come eterodossia). Fino a che punto è possibile "accomodare" o "adattare" il Vangelo a pratiche e credenze tradizionali? La risposta che dà l'Esortazione è: certamente non tanto quanto alcuni vorrebbero, e forse non tanto quanto ce ne sarebbe bisogno.
La gerarchia cattolica può anche rivendicare il dovere di definire i parametri dell'accettabilità di questa o quella credenza («i vescovi avranno a cuore di vegliare su questa esigenza di inculturazione nel rispetto delle norme fissate dalla chiesa», 37), ma sarà il popolo di Dio a stabilire i suoi criteri pratici, con o senza il consenso della gerarchia (e dei teologi). Non si tratta di ragionato dissenso o aperta ribellione, ma di un dato di fatto. La strategia più usata è nota a chi lavora nella pastorale, anche se non se ne parla: «Non chiedere al prete se è possibile o meno. Decidi. E, dopo aver scelto, non parlargliene».
Mi pare, tuttavia, di scorgere nell'Africae munus una novità: il Papa è cosciente di camminare su un terreno pericoloso (dopo tutto, è un terreno "sacro") e sembra suggerire un nuovo dialogo, tra cattolicesimo e religione tradizionale africana, che vada oltre ciò che è stato fatto. Se la mia lettura del testo è corretta, siamo di fronte a un motivo di speranza.
Un sinodo delle donne
Non sono, invece, molto fiducioso circa l'impatto che può avere in Africa la visione che Benedetto XVI ha della famiglia e del genere. Afferma importanti principi - l'uguale dignità dell'uomo e della donna (57), il bisogno del rispetto, del servizio amorevole e del dialogo nella comunità familiare (42-46) - ma mi sembra partire da una nozione molto occidentale della "normatività" della famiglia nucleare, anche se “estesa” a inglobare nonni e parenti anziani. Questa norma non riflette più la realtà sociologica di molte famiglie africane. La mia esperienza in Africa mi dice che abbiamo ormai a che fare con diversi tipi di famiglie: nucleari ed estese, con un solo genitore, "amalgamate" da divorzi e nuovi matrimoni; perfino famiglie guidate da bambini. A prescindere da ciò che pensiamo di queste composizioni familiari, esse sono destinate a crescere di numero, e la chiesa non può augurarsi che se ne vadano dalla comunità. Africae munus avrebbe potuto dare chiare indicazioni sulla pastorale da adottare con queste nuove situazioni.
Infine, mi sarei aspettato una più rigorosa analisi del ruolo delle donne nella nuova Africa. La vita familiare è cambiata o sta cambiando. Sono in atto profondi sconvolgimenti politici ed economici. Oggi le donne ricoprono ruoli pubblici impensabili nella cultura tradizionale, ma la chiesa sembra continuare a vederle esclusivamente come madri e spose. L'esperienza pastorale ci dice che le donne vogliono essere anche qualcosa d'altro, anche se devono lottare contro la mentalità patriarcale ancora imperante. Benedetto XVI sembra accennare a questo, ma non sviluppa il discorso. Per una vera emancipazione della donna africana, la chiesa ha forse bisogno di un sinodo delle donne. Invitarle in aula e ascoltarle non sembra essere stato sufficiente.
Il dibattito sinodale e l'Esortazione vanno giudicati come due importanti contributi al dibattito su cosa significa essere cattolici in Africa. Le valutazioni dello stato del continente e le riflessioni sulla vita della sua chiesa hanno identificato importanti problemi e sfide. Un gruppo di teologi, guidati da Agbonkhianmeghe Orobator, provinciale dei gesuiti dell'Africa Orientale, ha già pubblicato una serie di studi sul sinodo, raccolti in Reconciliation, Justice, and Peace: The Second African Synod (Maryknoll, N.Y./Nairobi: Orbis Books/Acton Publishers, 2011). Con tutto il rispetto che ho per i miei colleghi e coautori, devo riconoscere che siamo soltanto all'inizio. Le domande che l'Africae munus suscita sono più numerose delle risposte che offre. Ciò non va considerato un fallimento del processo sinodale, ma un' opportunità, un invito a un dialogo più ampio e profondo.
Anthony Egan
Nigrizia, anno 2012, n. 1, pag. 50