TRENTO: FESTIVAL DELL'ECONOMIA EDIZIONE 2011
LA LIBERTÀ ECONOMICA NON HA CONFINI
Tra regole, protezionismi, dazi e diritti umani. Non è mancata la discussione su globalizzazione e sviluppo per impedire che lo stato diventi una vera e propria "azienda".
"I confini della libertà economica": sul tema dell'edizione 2011 del Festival dell'economia di Trento si sono intrecciate molte parole chiave: le regole (quelle necessarie e quelle eluse), i limiti che servono sempre (perché la libertà è anche responsabilità), i diritti, le tragedie di ieri, di oggi e di sempre. Le guerre e la mafia, ad esempio, che attivano "loro" economie, un sommerso che si nutre di illegalità e che è cancerogeno per la società civile.
«Garantiamo i diritti e trasformeremo i sudditi della mafia in cittadini nostri alleati» ha detto Gian Carlo Caselli, procuratore capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, protagonista di un affollato incontro al Teatro Sociale di Trento nel corso del quale si è esplorata una dimensione della libertà che rimanda ai "classici" del pensiero economico e politologico: quella legata alla legalità, al rispetto delle regole, alla certezza del diritto.
Il magistrato ha parlato di lotta alla mafia, di esperienze positive come quella di Libera ma anche di come la ricerca della legalità sia minacciata dalla cattiva cultura, dai cattivi esempi, dai condoni, dagli scudi fiscali, dalle leggi ad personam. «Tutte cose che non favoriscono l'Italia delle regole, che privilegiano l'Italia degli affaristi e dei furbi, di chi vede nelle regole un ostacolo fastidioso, degli impuniti». Da Caselli anche un appello alla difesa della Costituzione, una Costituzione che postula diritti uguali per tutti e della libertà di informazione e una ferma stroncatura, del progetto di riforma della giustizia che sta avanzando in Italia che - se realizzato - «indebolirà la magistratura in maniera irreversibile».
Le tragedie di oggi
Rischiamo di non avere più gli strumenti adatti per governare la crescita: 230 milioni di migranti girano per il mondo, con una globalizzazione non solo dei mercati, ma anche della criminalità che ha ormai diramazioni planetarie, con politiche di difesa, di respingimento e di selezione degli ingressi che in realtà si trasformano esse stesse in cause primarie di clandestinità e di scivolamento nella criminalità e con l'aggravarsi sempre più drammatico del fenomeno della tratta o del traffico di esseri umani, consenzienti o meno.
Il ministro dell'interno Roberto Maroni ha soprattutto puntato il dito sull'Europa. Chi deve governare le politiche dell'immigrazione? Maroni è stato di fatto chiamato a parlare di se stesso: «Le leggi vigenti ci hanno dato gli strumenti necessari contro l'immigrazione clandestina e anche per normare i flussi regolari. Ciò che manca, invece, è una politica concertata a livello europeo».
L'immigrazione è cresciuta: in Italia è passata dall'l al 7% in circa 15 anni. «Bisogna distinguere fra immigrazione regolare e irregolare e, all'interno di questa seconda categoria, fra migranti economici e richiedenti asilo sulla base delle regole europee» ha detto Maroni. «Non sempre è facile distinguere in base al paese di provenienza: ad esempio, non tutti coloro che arrivano dalla Libia sono effettivamente dei richiedenti asilo. In Europa i confini fra i paesi membri sono caduti ma non esiste un modello europeo unico sia di contrasto all'immigrazione irregolare sia di accoglienza dei migranti». Dunque, è l'Europa il problema per il ministro. In attesa delle soluzioni (ancora poco chiare) ci sono gli obiettivi (quelli sì chiarissimi per il ministro): contrastare l'immigrazione clandestina e creare flussi di immigrazione regolare. «Oggi il fenomeno più rilevante non è tanto l'arrivo dei migranti clandestini via mare, ma l'arrivo regolare di migranti - via terra - che poi diventano irregolari perché si fermano dopo lo scadere del permesso di soggiorno. Per questi clandestini non ci sono che due alternative: o i rimpatri o le regolarizzazioni o sanatorie».
Maroni ha difeso la Bossi-Fini. La legge «ha adottato un principio molto criticato ma poi in realtà adottato anche da altri paesi, come la Spagna: legare l'immigrazione al possesso di un contratto di lavoro. Mi sembra un principio assolutamente corretto» ha detto il ministro. Se il sistema legislativo italiano a suo dire è soddisfacente, è nel raccordo fra i 27 stati europei che qualcosa non funziona. «L'emergenza umanitaria che abbiamo vissuto da gennaio, quando è scoppiata la "rivoluzione dei gelsomini" ha visto l'Europa drammaticamente assente».
Occorre - secondo il titolare del Viminale - favorire il progressivo sviluppo del Nordafrica, accompagnato da una crescita de! processi di democratizzazione. «E una sfida che non sono certo l'Europa abbia compreso. Se l'Europa non si muove, però, o manda giù solo le bombe, a ottobre ci troveremo di fronte ad una situazione dieci volte peggiorata rispetto a quella attuale».
Salvare Shenghen?
«Io francamente non sopporto tutta questo vedere l'Europa come un capro espiatorio» ha ribattuto nel giro di 24 ore e dallo stesso palcoscenico Emma Bonino che è stata commissario europeo. «Certo, ci sono stati ritardi, ma c'è stata anche tanta insipienza come se si volesse creare un'emergenza e non un problema governabile, come se non lo avessimo fatto prima con l'Albania. Nel mondo ci siamo andati con due immagini: un baciamano e i barconi. Né l'una né l'altra erano adeguate al paese» ha aggiunto la senatrice, segnalando le contraddizioni del nostro sistema. «L'ultima sorpresa che continuo a non capire è la protezione temporanea: se non sbaglio, i permessi erano per fare in modo che molti fluissero verso la Francia, dopo di che vedo Sarkozy che fa firmare una lettera a Berlusconi dove si chiede di rafforzare i confini interni: che convenisse alla Francia è pacifico, ma noi non volevamo farli andare proprio lì? Il nostro agire è di una gran pochezza e rischiamo di distruggere una ricchezza come l'accordo di Shenghen. Ecco: vogliamo più Europa, ma poi distruggiamo quella che c'è. Servono idee chiare, gli immigrati hanno il diritto di essere trattati in legalità e umanità, perché i diritti si applicano a loro come a noi e credo che questo sia il tema che dobbiamo affrontare senza allarmismi né catastrofismi» ha detto senza tanti giri di parole.
C'è una terza via? Un modello non c'è, ammette la Bonino. «Ma soprattutto non possiamo decidere quanti ne vogliamo e come li vogliamo: la spinta non è governabile, viene da loro: è la ricerca di condizioni migliori di lavoro e non si può pianificare né a Roma né a Bruxelles o a Parigi. Chi emigra se ne va per motivazioni che dipendono da loro e sono fortissime e noi dovremmo saperlo, visto che anche a noi è capitato di essere respinti quando partivamo per le miniere del Belgio. Dunque, nel governo di questo fenomeno c'è una potenza ingestibile. Siamo in due a ballare il tango: noi e loro, ma molto dipende da un fattore: ammettere che abbiamo bisogno di loro ed è questo lavoro che l'Italia non ha ancora onestamente fatto con se stessa». Quelli si stanno sempre più dilatando, malgrado la recessione.
Al Festival è stato portato il miracolo della Germania, riuscita a crescere nonostante la crisi economica. Ma l'ombelico del mondo non è più rappresentato dai paesi sviluppati che compongono il G8. «IL 21° secolo non lo decidiamo più noi, il baricentro dell'economia si sta spostando in Asia» ha detto Federico Rampini, saggista, editorialista e corrispondente da New York del quotidiano La Repubblica che a Trento ha indicato in Obama lo statista che meglio di tutti ha compreso questo processo. Sul presidente americano ha aggiunto che «è oggi tra i più interessanti statisti perché ha una visione straordinariamente moderna del mondo».
Dunque, la globalizzazione continua e non si arresta. Ma, almeno, funziona? O, come molti ormai sostengono, è il male dei nostri tempi? Sulla seconda opzione converge – anche se moderatamente - Dani Rodrik, classe 1957, nato a Istanbul, docente ad Harvard, considerato fra i 100 economisti più influenti del mondo. Al Festival di Trento ha affrontato il "tema dei temi": il futuro della globalizzazione. Per Rodrik siamo alla ricerca di una nuova versione aggiornata del capitalismo, dopo quella liberista, che affidava agli stati funzioni "minime" di tutela dei mercati e della proprietà, e quella basata su una governance attiva dei fattori economici e sociali da parte delle istituzioni nazionali. Ma la soluzione non può essere semplicemente una governance mondiale, modellata sulla globalizzazione economica. «Essa non è solo irrealistica e irrealizzabile ma forse anche non desiderabile, perché nei paesi democratici l'economia ha bisogno di essere legittimata sul piano politico-istituzionale, e questa legittimazione oggi avviene prevalentemente su base nazionale».
Se lo stato diventa azienda
Ma cosa succede se tutto si riduce ad un documento contabile? Cioè, se lo stato diventa solo un'azienda? Il risultato è solo uno: gli interessi monetari contano molto di più del benessere dei propri cittadini. E poco importa se ci sono soggetti che sfruttano il territorio, inquinano i corsi d'acqua, trascinano donne e uomini ancora più a fondo nella povertà.
La globalizzazione ha generato potere e influenza senza precedenti per le imprese, agevolate dalla mancanza di strumenti efficaci che le faccia rispondere dei propri errori. Tutto ciò deve finire, sostiene Amnesty International. Oggi più che mai sono necessarie riforme radicali. L'economista Jürgen von Hagen ha fatto nota re che la crisi ha portato sì a revisioni delle regole della politica fiscale nel contesto dell'euro-zona, ma le misure rischiano di intervenire troppo tardi e di non essere sufficienti: «Ciò di cui abbiamo bisogno è una cornice comune all'interno della quale affrontare i rischi di ripudio del debito sovrano nell'area dell' euro». Egli ha indicato le contromisure: politiche fiscali solide basate su interessi comuni.
Analizzando di chi sia stata la colpa della devastante crisi che nel biennio 2006-2008 ha colpito l'intero sistema economico mondiale, Pascal Salin ha presentato una tesi a prima vista bizzarra: la crisi non sarebbe colpa del sistema capitalistico per il semplice fatto che al capitalismo non è stato consentito di fare bene il suo lavoro ovvero investire per il progresso sociale i suoi utili.
A chiusura del Festival, l'intervento, dai toni profetici, del Nobel Zygmunt Bauman, il quale ha affermato che siamo diventati "merce". Anche la nostra moralità è merce, ed è questo 'che ci ha fatto perdere il senso del vivere.
Corona Perer