1. “Terra di stranieri l’uno all’altro, case senza figli e padri”
Non si vedono più le stelle / sulle nostre città, / il cielo è di fogna; / e dentro le vie, nel giorno, / solo urla di mercanti. / Terra di stranieri / l’uno all’altro, case / senza figli e padri: / ognuno è nessuno / sempre più nessuno / pur nell’impossibilità / di essere soli. / E non un angolo almeno, / una riva di fiume / ove amici si ritrovino a cantare.[i]
Ieri, fino a ieri, il territorio sembrava solido e omogeneo. Disponibile per un uomo - l’uomo moderno, l’homo faber et oeconomicus - pronto a dominarlo. ‘In-dividuo’, separato nella sua identità particolare[ii], ma capace di rinvenire comuni denominatori e stipulare contratti a fondamento di Stati e Mercati. Preoccupato di consegnare modelli condivisi, istruendo ed educando. Nella complementarietà delle ‘agenzie’. La famiglia – custode la donna – offre gli affetti, la scuola prepara classe dirigente e tecnici, la parrocchia assolve ai bisogni religiosi (rigorosamente confinati nel privato). Esseri alieni sono considerati i religiosi, riveriti se gestiscono opere prestigiose, ammirati se capaci di compensare l’eccesso di mondanità della chiesa e così rispondere all’esigenza - mai del tutto sopita - di un’umanità meno scaltra. L’insieme risuonava come un’andante melodia, facilmente trasmissibile. Per un continuo progresso!
Oggi, nel tempo della ‘modernità liquida’[iii], tutto sembra vacillare. L’io perde forza, capacità di governo verso se stesso e verso gli altri[iv] (ma da tempo aveva compiuto quel parricidio che segna gli inizi della modernità, vera radice della sua ‘mortale’ insicurezza). E perde, quest’io smarrito, la sua unità: diventa “un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”[v]. Il mondo è appena un drappeggio attorno all’io. Alla terra si sostituiscono la cripta sotterranea e il dondolio sul mare. Il viaggio è senza porti, una “deriva perpetua”[vi]. Così diventa difficile crescere e far crescere: padri e figli, rischiano di restare perennemente adolescenti[vii], come dei rizoma con le radici all’aria e il fusto sotto terra[viii] – fermo il tempo, vuota la memoria[ix]. Senza terra sotto i piedi, è sempre più sfuggente l’incontro, difficile ascoltarsi (c’è troppo fracasso[x]) o lottare insieme (dispersi come si è in mille rivoli corporativi[xi]). Vaganti in un ‘cielo di fogna’ (l’etere televisivo e il suo entrar dentro e svuotare testa e cuore), assordati da ‘urla di mercanti’ (“sempre e solo mercato”, grida prepotente il neoliberismo), ci si ritrova ‘stranieri l’uno all’altro’. Per quanto sta accadendo in profondità, prima che per la multietnicità ormai presente in ogni territorio. Questa, infatti, fa maturare (in positivo) un senso nuovo di rispetto per la pluralità che, scoperta a tutti i livelli, rivendica di essere riconosciuta come tale (impedendo superficiali sincretismi). Al tempo stesso però (è il risvolto negativo, proprio di un’epoca di smarrimento e frammentazione), perduti riferimenti sicuri, si teme il conflitto e ci si difende ancor prima di rischiare l’incontro, oscillando tra ‘solitudine’ e ‘fortezza’ (con artigli di disprezzo contro immigrati e poveri[xii]). E anche le chiese e i conventi diventano molte volte, più che ‘rive ove cantare’ l’esodo, rifugi immunizzanti (nella commistione tra sacralità devota e nuove forme di religione civile).
2. Nella crisi una sfida e una chance: “essere uomini diversi da come siamo stati”
Una situazione disperata, quella che stiamo attraversando? Dalla storia impariamo che ogni tempo ha le sue luci e le sue ombre e che i tempi di profondi cambiamenti, di crisi, di pluralismo possono diventare un kairòs, un tempo di grazia, perché - interpellati alla radice del vivere e dell’essere uomini - siamo provocati ad elaborare forme, relazioni e significati più autentici. A diventare “uomini diversi da come siamo stati”[xiii]. A sviluppare rapporti che ci aiutino ad essere, non “artificiali fiori di serra che subito appassiscono”, ma “fiori di campo capaci di resistere a pioggia e vento”[xiv]. A guardare la storia nel suo compimento ultimo, che dà senso al presente e lo volge al futuro, senza dimenticare nessun uomo, senza dimenticare i vinti e gli oppressi di ieri e di oggi[xv].
Oltre ogni angusto moralismo, inutile nostalgia, rigidità ideologica, dobbiamo trovare un orizzonte che aiuti a crescere ancora come uomini nelle terre plurali del nostro tempo. Nella ‘pazienza’, senza la presunzione di ricette pronte e facili, immediate (che non si addicono al massimo ‘capolavoro’ che è il compiersi della forma di uomo). Nella ‘resistenza’ e nella ‘lotta’, ma “senza lasciarci corrompere il cuore dall’astio e dall’amarezza”[xvi]. Con la forza propria di una ‘verità altra’ rispetto a quella ‘logica’ che tutto riduce all’identità, una ‘verità intera’ (nell’intreccio di corpi e parole, ‘geometria’ e di ‘intuizione’[xvii]): grembo capace di accogliere ogni differenza[xviii] e appello della vita, in cui “ciò che è più da pensare è il più difficile da pensare[xix].
Per questo occorrono atti improntati a fedeltà coraggiosa e a mite creatività, rotture costruttive (atti e rotture che trovano significative analogie con ogni fondazione di vita consacrata[xx]). Uscendo dalle logiche dominanti e al tempo stesso resto restando nella storia di tutti con un respiro ‘altro’, che possiamo evocare con quell’insieme di scelte e di atteggiamenti che Dietrich Bonhoeffer chiamava il ‘senso della qualità’.
“Dal punto di vista sociale … significa rinunciare alla ricerca di posizioni preminenti, rompere col divismo, guardare liberamente in alto e in basso, specialmente per quanto riguarda la scelta degli amici intimi, significa saper gioire di una vita nascosta e avere il coraggio di una vita pubblica. Sul piano culturale l’esperienza della qualità significa tornare dal giornale e dalla radio al libro, dalla fretta alla calma e al silenzio, dalla dispersione al raccoglimento, dalla sensazione alla riflessione, dal virtuosismo all’arte, dall’esagerazione alla misura”[xxi].
Grembo, questo, capace di far crescere ancora uomini nell’orizzonte dell’interezza, di un’interezza polifonica, di un’individualità totale, come la definisce Massimo Cacciari:
“Ecco l’idea dell’individualità totale: io sono un individuo, ma totale. Nella mia individualità c’è questa comunità di assolutamente distinti che si riguardano essenzialmente. E se mi riconosco come individualità totale, non posso non riconoscere come essenziale a me il volto dell’altro. Il rapporto con l’altro è ontologicamente fondato, sottratto a ogni causalità, necessario”[xxii].
3. Come famiglia, scuole, parrocchie possono farsi grembo di uomini polifonici
Come intendere, in questa prospettiva, il compito di quelle che restano le principali agenzie educative, il compito cioè delle famiglie, delle scuole, delle parrocchie?
Quanto abbiamo detto finora impegna ad un chiarimento preliminare e trasversale.
Quando genitori, insegnanti, parroci sono troppo insoddisfatti, cupi, opachi, oppure strumentali e superficiali, non c’è artificio che possa far superare questo ispessimento antieducativo, frutto di omologazione più o meno inconscia al clima dominante. Tecniche e attivismi anzi aggravano l’incapacità educativa, perché illudono, distraggono, deviano. Facendo ancor più mancare quella dissonanza con il nostro tempo, necessaria (come abbiamo visto) per riprendere forza e luce educative attraverso un orizzonte altro, l’orizzonte dell’uomo polifonico, aperto dal varco della ‘qualità’ (che Etty Hillesum chiama ‘varco verso Dio’[xxiii]). Per questo, piuttosto, va curata la propria interiorità (da non confondere con l’intimismo)[xxiv]. E vanno coltivati un interrogarsi intessuto di sapienza e di stupore, un pensare alto e intero, un dialogare franco e leale.
Solo in questo cercare sereno e responsabile, ancorato al respiro più profondo della vita e della storia, la famiglia potrà coltivare relazioni sane e forme d’uomo significative. E i genitori sapranno consegnarsi ai figli con serietà e gratuità, offrendo quelle tracce corporee necessarie per far crescere uomini capaci di stare in piedi, senza fuggire la terra, e di incontrare l’altro, senza fuggire l’alterità. Per questo è importante insegnare, con l’esempio e la parola, la sintassi della vita nell’orizzonte dell’interezza (“età, sapienza e grazia”[xxv]), accompagnando le nuove generazioni a scoprire (e riscoprendo gli adulti per primi) le verità iscritte nei vari tempi della vita[xxvi]. Vigilando con fiducia e aiutando quelle purificazioni che fanno crescere[xxvii], confidando nella forza dell’amore[xxviii].
Accanto alla famiglia si colloca la scuola. Oggi attaccata nella sua identità di luogo formativo, con forti tendenze a renderla azienda, a scomporre il sapere tra moduli e progetti. Con insane parole d’ordine (flessibilità, informatizzazione…). In questo contesto, la scuola potrà ancora formare uomini saldi e polifonici solo se gli insegnanti (e accanto a loro genitori responsabili) sapranno, per un sussulto di dignità, resistere alle mode dominanti e continuare l’alta tradizione della ‘paideia’ (greca e umanistica) che si sviluppa nella fatica e bellezza dell’architettura disciplinare del sapere[xxix]. Per essere
“un luogo – fisico e non virtuale – in cui uomini in carne e ossa, pur diversi per storia ed età, parlano, dialogano, si confrontano, non in maniera generica e casuale, bensì collocando creativamente il loro rapporto dentro l’alveo della cultura, ovvero della grande tradizione occidentale (e non), della sua storia, delle sue conquiste di civiltà, dei suoi drammi e dei suoi conflitti, delle sue eccezionali intuizioni e delle sue scoperte esaltanti. Dove relazione e cultura si incontrano … connessi secondo delicati equilibri che fanno dell’educazione un tempo diverso da ogni altro kairòs dell’esistenza”[xxx].
E, tra case degli uomini e luoghi della cultura, la parrocchia. Essa saprà accompagnare con verità la formazione degli uomini, e formare discepoli del Signore, nella misura in cui sarà evitata la dispersione in mille riti e attività, si offrirà ciò che è essenziale e si resterà accanto alla vita di tutti con amicizia[xxxi]. Nella consapevolezza che non è la stessa cosa una formazione fondata sulle devozioni e una formazione fondata su Parola, Eucaristia, fraternità, poveri[xxxii]. E con ministeri improntati a magnanimità e sapienza, capaci di irradiare il vangelo[xxxiii]. Donando all’uomo polifonico il cantus firmus della fede.
4. La vita consacrata: offrire all’uomo polifonico le nervature del mondo
Non sono stati assenti i religiosi nei passaggi precedenti. Anzitutto, per l’analogia colta tra la fondazione religiosa e l’atto creativo oggi necessario per formare uomini polifonici, capaci di abitare e coltivare insieme i nostri territori e farne emergere vocazioni e bellezza. E poi perché anche i religiosi provengono da famiglie e collaborano con famiglie; pure i religiosi spesso hanno che fare con scuole, e comunque resta per loro importante capire cosa accade in questo luogo importante per il futuro dell’umanità; soprattutto, i religiosi non possono non essere parte delle chiese locali, che nelle parrocchie continuano a trovare la loro espressione più significativa dal punto di vista teologico per il fondamentale rapporto tra Eucaristia e territorio. Ma la polifonia intravista come la forma dell’uomo futuro (con il conseguente grembo educativo) permette un discorso specifico su una presenza chiamata a far risuonare nella chiesa e nella società differenze costruttive. Ritrovando, per questo, continuamente la freschezza della santità e ritessendo sempre e umilmente, su questa base, i rapporti con l’insieme[xxxiv].
All’impegno formativo delle famiglie, delle scuole, delle parrocchie la vita consacrata - nella sua identità di formazione sempre aperta all’ulteriore del compimento[xxxv] - dovrebbe saper offrire i toni della ricerca aperta e dell’osare per fede e per amore. Incontrando i religiosi, le famiglie, le scuole, le parrocchie dovrebbero sentirsi sempre provocati a riprendere le domande più profonde[xxxvi]. Ed essere aiutati ad accrescere il coraggio nel ‘consegnarsi’ a Dio e ai fratelli, nella viva coscienza di essere tutti legati in una storia operante tra un passato e un futuro che trova in Dio l’alfa e l’omega. Talora questo accadrà attraverso una testimonianza esplicita o un colloquio personale, il più delle volte attraverso la forza della testimonianza o dell’amicizia spirituale (oggi tanto necessaria)[xxxvii]. E, soprattutto, grazie ad un discreto e sapiente dialogo, intessuto di rispetto e simpatia, nell’atteggiamento del “narrare e del raccogliere, dell’andare e del venire, dell’attraversare sponde distanti”[xxxviii]. Nella speranza che così monasteri e conventi possano essere “rive gli amici si ritrovano per poter cantare” (cf. cit. in apertura).
Alla forma d’uomo, d’uomo polifonico (meta dell’impegno formativo di famiglie, scuole, parrocchie) i religiosi possono contribuire aiutando a riscoprire - attraverso l’obbedienza, la povertà, la castità - la positività di rapporti che restano sempre aperti a Dio e ai fratelli, generando intensa fraternità[xxxix] e duratura gioia[xl], nel tempo in cui la logica perversa e pervasiva del possesso genera invece tristezza e divisioni (annidandosi nell’autoreferenzialità presuntuosa, che è l’opposto dell’obbedienza; nell’asservimento al denaro e nelle collusioni con il potere dominante, che è l’opposto della povertà; nelle relazioni voraci e instabili, che rappresentano l’opposto della castità).
‘Offerte’ alla formazione e alla forma d’uomo, donate dai consacrati nella continua sintesi tra ultimo e penultimo, nella profezia che fa intravedere il mistero, come il poeta
“che vede con gli occhi del fulmine, nell’attimo sconvolgente della folgore. Allora si scoprono le nervature del mondo. Allora siamo di fronte alla realtà più misteriosa”[xli].
[i] D. M. Turoldo, Gridi e preghiere, Marietti, Genova 2004, 183-184.
[ii] “Gli individui moderni divengono tali - e cioè perfettamente in-dividui, individui ‘assoluti’, circondati da un confine che al tempo stesso li isola e li protegge - solo se preventivamente liberati dal ‘debito’ che li vincola l’un l’altro. Se esentati, esonerati, dispensati da quel contatto che minaccia la loro identità esponendoli al possibile conflitto con il loro vicino. Al contagio della relazione” (R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 1998, XXXIV).
[iii] Cf. Z. Bauman, Una nuova condizione umana, Vita e pensiero, Milano 2004.
[iv] “Ma ciò che davvero caratterizza l’ultimo uomo è la sua riluttanza sia a governare che ad obbedire … Poiché egli è ‘responsabile’ solo del proprio benessere, a nessun altro può rispondere, né governandolo né obbedendogli. Un solo gregge formano questi individui – tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali – ma nessun pastore” (M. Cacciari, Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, 130).
[v] I. Calvino, Lezioni americane - sei proposte per il terzo millennio, Mondadori, Milano 1998, 120.
[vi] “Si è alla deriva! Da lungo tempo non è più questione di navigare o di rotte da tenere! … Il mito del viaggio alla scoperta di terre incognite o di luoghi da colonizzare, attraverso il quale l’uomo moderno ha cercato di raccontare la propria autoaffermazione, una volta radicalizzato, si è capovolto in deriva perpetua” (C. Coccolini, Sul crinale di un’epoca, Barghigianni, Bologna 1997, 97-98).
[vii] “La stagione postmoderna prende commiato dall’autarchia di un soggetto caratterizzato dai tratti dell’adulto e vi sostituisce «l’apologia di una figura di uomo che ha spiccati tratti dell’adolescente, ossessivamente centrato sulla ricerca della propria identità», sulla soddisfazione della proprie necessità affettive. Una figura che ignora fino a respingere «l’idea che la generazione appartenga al destino umano»” (M. E. Gandolfi, Liberi perché figli, Il Regno 6/2002, 160).
[viii] I. Mancini, Frammento su Dio, Morcelliana, Brescia 2000, 112-116. Cf. anche E. M. Cioran, Squartamento, Adelphi, Milano 1981.
[ix] “C’è la tentazione di dilatare il tempo presente, togliendo spazio e valore al passato, alla tradizione e alla memoria. A volte abbiamo paura di fermarci per ricordare, per ripensare a ciò che abbiamo vissuto e ricevuto. Preferiamo fare molte cose, o cercare distrazioni. Eppure sono l’ascolto, la memoria e il pensare che dischiudono il futuro, ad aiutarci a vivere il presente non come il tempo del soddisfacimento dei bisogni, ma anche come il luogo dell’attesa, del manifestarsi di desideri che ci precedono e ci conducono oltre, legandoci agli altri uomini e rendendoci tutti compagni del meraviglioso viaggio che è la vita” (Cei, Comunicare il vangelo in un mondo che cambia, 2).
[x] “Questo è un mondo senza misura e senza gloria, perché si è perso il dono e l’uso della contemplazione. Ed è un tempo senza canti. Oggi non si canta, si grida appunto, civiltà del frastuono. Tempo senza preghiera. Senza silenzio, e quindi senza ascolto. Più nessuno ascolta nessuno. Anche le nostre liturgie sono spesso le liturgie del fracasso … E il diluvio delle nostre parole soffoca l’appassionato suono della sua parola” (D. M. Turoldo, Pregare, Mondadori, Milano 2004, 18).
[xi] Cf. G. Zincone, La nuova grande trasformazione e i suoi effetti sulla gente comune, in Il Mulino 1/1998.
[xii] Cf. (A cura del Cnca) Con i vulnerabili, Comunità, Roma 2002.
[xiii] L’espressione è del poeta Mario Luzi. Che aggiunge: “Come?”.
[xiv] D. Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 1994, 29-30.
[xv] “La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione … Tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, alla luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitrio e violenza, dal semplice contatto con gli oggetti, questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero” (T. W. Adorno, Minima moralia – meditazione sulla vita offesa, Einaudi, Torino 1994, 304).
[xvi] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, 74.
[xvii] Cf. B. Pascal, Pensieri, Mondadori, Milano 2003, 117-120.
[xviii] “Ritrovare la passione della verità non significa ritrovare la clava della verità con cui giudicare tutto e tutti. Questa sarebbe un’operazione ideologica. Ma significa ritrovare un orizzonte di senso, un padre/madre nell’amore, un grembo, una custodia, in cui ritrovarci tutti più fratelli, più umani, più vicini, anche nella nostra infinita fragilità e debolezza” (M. Cacciari, Equivoci sul padre, in Rocca, Assisi 1° ottobre 1999).
[xix] “Non credo che all’ordine del giorno vi sia la chiusura del pensiero sulla comunità. Al contrario, penso che mai come oggi se ne richieda un’attivazione. Cosa ci dicono - di che altro parlano, se non della questione della comunità, della sua assenza, ma anche della sua esigenza - i corpi, i visi, gli sguardi di milioni di affamati, di deportati, di rifugiati le cui immagini, nude e terribili, scorrono sui nostri schermi televisivi da ogni angolo del mondo? E non è ancora la comunità - la relazione, il nostro cum, ‘noi’ come cum - che richiama ogni nascita e ogni incontro, anche il più anonimo, il più quotidiano, il più apparentemente banale? E tuttavia - come sempre accade - proprio ciò che è più da pensare si sottrae alla semplice evidenza. Diventa il più difficile da pensare. E infatti mai come oggi il pensiero della comunità resta esposto al duplice rischio della dimenticanza e della deformazione, della rimozione e del tradimento” (R. Esposito, Immunitas, in Micromega 4/1999, 61).
[xx] Particolarmente esemplare in questa direzione risulta l’esperienza di Francesco di Assisi, il suo uscire dal ‘secolo’ ma restando tra gli uomini come ‘novellus pazzus’ (cf. G. Miccoli, Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino 1991).
[xxi] D. Bonhoeffer, Resistenza…, 70.
[xxii] M. Cacciari - C. M. Martini, Dialoghi sulla solidarietà,Esperienze-Lavoro, Roma 1997, 22-23.
[xxiii] “Credo che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò ‘Dio’, e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, ‘lavorando’ a noi stessi, allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze” (E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1996, 220).
[xxiv] “Si tratta di lavorare per ristabilire il primato dell’interiorità, per una cultura attenta a salvaguardare questa dimensione essenziale dell’uomo che costituisce la differenza più profonda fra l’uomo e l’animale. Coltivazione del giardino i cui attrezzi di lavoro per rendere fecondo il giardino, rigoglioso, bello sono la disciplina del tempo, l’educazione ad ascoltare, l’apertura all’alterità, alla differenza, alla diversità e alla complessità, l’esercizio della comunicazione in vista di una fecondità che nel giardino dell’umanità si chiama sapienza, cultura che arriva ad essere sapienza” (E. Bianchi, L’icona della maturazione umana, in Rocca, Assisi 1° novembre 2002)
[xxv] Cf. Lc 2,51. “A me piace pensare che Luca segua in questa scelta e successione una logica interna, che focalizzi tre livelli di crescita: quello fisico, quello ermeneutico (apprendere il senso della vita) e quello dell’integrazione (la «grazia» come segno di una crescita che avviene in pienezza)” (G. Salonia, Kairòs, EDB, Bologna 1994, 33).
[xxvi] “La prospettiva evolutiva ci permette di comprendere noi stessi e l’altro, in quanto svela lo spessore della situazione presente recuperando lo sfondo dalla quale questa proviene e facendo emergere la tensione in avanti verso cui il presente si muove” (G. Salonia, Kairòs, 34).
[xxvii] “Vi scrivo per condividere con voi una preoccupazione. Mi sembra di intravedere in molti ragazzi e giovani uno smarrimento verso il futuro, come se nessuno avesse mai detto loro che la loro vita non è un caso o un rischio, ma una vocazione. ... La gioia che desiderate per voi e per i vostri figli è un misterioso dono di Dio: giunge a noi come la luce amica delle stelle, come una musica lieta, come il sorriso di un volto desiderato ... [Ma] per disporre alla gioia è necessaria una purificazione che non va senza fatiche. Voglio alludere almeno ad alcune delle purificazioni che mi sembrano particolarmente necessarie oggi. La purificazione degli affetti significa introdurre ad una gioia sconosciuta a chi immagina i rapporti tra l’uomo e la donna come una via per ridurre l’altro a strumento per la propria gratificazione e rassicurazione: allora gli affetti degenerano a passione, possessività, sensualità. Lo spirito di servizio e la disponibilità al sacrificio introducono alla gioia che si rallegra nel vedere gli altri contenti, le iniziative che funzionare bene, le comunità ordinate e vivaci. È una gioia sconosciuta a chi impigrisce nell’inconcludenza … La purificazione dalla paura del futuro è urgente per introdurre alla gioia della definitività. Una vita si compie quando si definisce in dedizione: la scelta definitiva deve essere desiderata come la via della pace, come l’ingresso nell’età adulta e nelle sue responsabilità” (C. M. Martini, Lettera ai genitori, in Il Regno documenti 13/2002, 427-428).
[xxviii] “Con mia moglie spesso condividiamo la paura che i nostri tre figli dovranno affrontare un mondo ad alto rischio e che noi non potremo essere sempre con loro. Pensiamo comunque che se riusciremo ad amarli in modo che nel loro corpo resterà memoria del nostro amore i nostri figli saranno capaci di affrontare la vita” (A. Sichera, Consegnarsi, Curia Cappuccini, Siracusa, 1999).
[xxix] Così La Pira esplicita la forza del sapere disciplinare in una lettera a S. Pugliatti: “Provo tanta gioia nel mio insegnamento: gli studenti mi seguono: ad essi mi sforzo di mostrare le bellezze geometriche del diritto romano … Come sarebbe bello se potessimo dare agli studi giuridici questo afflato di bellezza che solleva dalla tecnica pura alla visione di un panorama unitario! Dobbiamo far circolare nei nostri studi queste luci di sapere che resero così attraenti gli studi dei nostri antichi” (G. La Pira, Il fondamento e il progetto di ogni speranza, Ave, Roma 1992, 339-340).
[xxx] Note per il “Piano di offerta formativa”, redatte da un gruppo di docenti dell’Istituto “G. Verga” di Modica.
[xxxi] “Spero che i cristiani nella parrocchia abbiano queste cose: un luogo in cui crescono in una vera gnosi cristiana; cioè un giorno, una sera la settimana, in cui si ritrovano attorno alla parola di Dio, e che possano crescere, esser cristiani adulti, maturi, con una pienezza, con una statura, una soggettività della loro fede. E che poi si ritrovino tutti la domenica per l’eucaristia dove la koinonia non è solo con il corpo del Signore, morto e risorto, ma anche appartenenza comunitaria. Poi io a questi cristiani quotidiani chiederei una sola cosa: che trovino un momento al giorno per pregare nella maniera che suggerisce il Signore, ricordando che la preghiera ha una fonte che è l’ascolto della parola contenuta nelle Scritture. E poi nient’altro. Facciano la loro vita di genitori fedeli nel matrimonio e capaci di ascoltare i figli; facciano una vita professionale seria aiutando la trasfigurazione di questo mondo; lavorino pensando che il frutto del loro lavoro può essere fonte di comunione e di grande carità, non di elemosina” (E. Bianchi, Se il giubileo si fa Vangelo in Rocca, Assisi 15 dicembre 1997).
[xxxii] “Scegliere il primato della Parola non è un dato tranquillo che lascia tutto il resto com’è. Non è un’attività pastorale in più, per cui accanto alle novene e ai tridui, si aggiunge adesso la riunione sulla Bibbia. Chi ha fatto seriamente quella scelta, sa che molte cose verranno a cambiare nella propria vita e nella pastorale. Chi recita il salmo 50 e dice con il cuore che Dio non accetta sacrifici e olocausti esteriori, chi dalla lettera agli Ebrei ascolta che è l’unico sacrificio del Cristo, quello del suo ‘corpo’ e della sua obbedienza, che permette di entrare nel santuario celeste, non può lasciare che tutte le incrostazioni devozionali, le abitudini che allontanano dal centro della fede, restino al loro posto. ... Quando una chiesa fa la scelta per il primato della Parola e del Vangelo, per la centralità dell’eucaristia, per una catechesi soprattutto biblica, fa una scelta per la propria collocazione nella società e per lo stile dell’annuncio e della testimonianza del Vangelo agli uomini. Significa che questa chiesa si affida alla potenza del Vangelo e della grazia e non alla potenza e alla ricchezza dei propri mezzi, che sceglie non il primato delle opere e dell’organizzazione, ma quello della povertà, della preghiera e della testimonianza” (G. Ruggieri, Catechesi e iniziazione cristiana, in Diocesi di Noto, Atti del secondo sinodo diocesano, Rosolini 2001, 655).
[xxxiii] “[L’azione pastorale] è far camminare l’uomo sulle vie del Vangelo … Non è nella quantità delle cose da fare che sta il suo valore, ma nella qualità umano – divina. Tanto più umana quanto più divina. Dove manca questa carica di umanità l’agire pastorale diventa simile a qualsiasi altra attività per cui si cerca di influire sugli altri dal di fuori, dall’esterno, dall’alto tenendosi a distanza. ... Il luogo dell’incontro con Dio è la persona stessa del credente, del ministro della chiesa. … Come Gesù, egli è la ‘porta’ che dà accesso a Dio. Porta stretta quella di Gesù. Difficile da trovare anche per molti servi di Gesù. Infatti ha sapore di debolezza, di povertà, esige il personale coinvolgimento di una ‘carne umana’, cioè di un modo di vivere e di agire nella chiesa che si affida senza riserve alle promesse di Dio che non smentisce (Eb 6, 13–20) piuttosto che all’efficienza delle opere o alla solennità delle celebrazioni” (U.V. Doorne, in Vita diocesana, Noto 9 aprile 1995).
[xxxiv] Cf. (A cura del Cismi), “Protesi verso il futuro” per essere santi, Il calamo, Roma 2003.
[xxxv] “Se … la vita consacrata è in se stessa una «progressiva assimilazione ai sentimenti di Cristo» (Vita consecrata 65) … la formazione non è più solo un tempo pedagogico di preparazione dei voti, ma rappresenta un modo teologico di pensare la vita consacrata stessa, che è in sé formazione mai terminata, «partecipazione all’azione del Padre che, mediante lo Spirito, plasma nel cuore … i sentimenti del Figlio» (Vita consecrata 66) … [La persona consacrata] dovrà imparare a farsi formare dalla vita di ogni giorno … Decisivi diventano, allora, l’apertura verso l’altro e l’alterità” (Congregazione per gli istituti di vita consacrata, Ripartire da Cristo: un rinnovato impegno per la vita consacrata nel terzo millennio, 14.6.2002, n. 15, La formazione permanente).
[xxxvi] “Le persone consacrate devono riscoprire l’arte pedagogica di suscitare e liberare le domande profonde, troppo spesso nascoste nel cuore della persona, dei giovani in particolare (Congregazione per gli istituti di vita consacrata, Ripartire da Cristo…).
[xxxvii] Cf. (A cura del Cismi), Vivere secondo lo Spirito, Il calamo, Roma 2003.
[xxxviii] G. Salonia, in Religiosi in Italia, 330, 202-203.
[xxxix] Cf. G. Salonia, Obbedienza e fraternità nell’esperienza e nell’insegnamento di Francesco di Assisi, in (A cura di G. Di Nardo – G. Salonia), La “fraternitas” di Francesco di Assisi, Italia Francescana, Giulianova (Teramo) 2003.
[xl] “La maggior parte dei nostri ordini e congregazioni hanno avuto inizio con alcuni gesti drammatici che parlavano del Regno. Come possono parlare le nostre vite oggi? … Credo che i voti ci forgino come portatori di una gioia e di un’appartenenza che trascendono l’immaginazione umana, ma che possiamo riconoscere come il nostro più profondo desiderio” (T. Radcliffe, I religiosi: identità e visibilità oggi, in Il Regno-documenti 5/2004)
[xli] D. M. Turoldo, Gridi e preghiere, Marietti, Genova 2004, 71.