I Dossier

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Ascolto e comunicazione
tra le generazioni
di Giovanni Dalpiaz


 




Il monachesimo italiano sta attraversando un passaggio molto difficile: le nuove vocazioni, presenti anche se in numero piuttosto basso, sono insufficienti ad assicurare il ricambio generazionale e ciò, tra le altre conseguenze, indebolirà ancor più la già esigua presenza territoriale. La crisi è in parte occultata dal prolungamento dell’età di vita. Di conseguenza i nostri monasteri hanno sì ancora monaci, ma sempre più anziani.

La distanza generazionale concorre ad accrescere le differenze nei codici comunicativi, come è frequente osservare in quella fase molto particolare della vita comunitaria che è l'accoglienza e l'inserimento di una nuova persona. È in tale passaggio che tutti gli «attori» della relazione sono costretti ad esplicitare i rispettivi «codici», le motivazioni, le aspettative sottese alla comunicazione, sperimentando le possibilità di un dialogo o constatando un'afasia reIazionale, quando ci si parla senza però comprendersi, poiché i linguaggi sono ormai irrimediabilmente distanti. Ne è tipico esempio la domanda che penso ciascuno di noi si sia sentito rivolgere neI visitare i monasteri femminili: «Ci sarebbe qualche brava giovane da indirizzare qui? Verso quali ambienti, gruppi, movimenti, ecc... ci si potrebbe orientare per riuscire ad incontrare giovani interessate alla nostra proposta di vita?». Ma la brava giovane che ha in testa la nostra interlocutrice non corrisponde, se non molto vagamente, alla brava giovane che ci può essere in giro oggi, perché lei ha in mente la «brava giovane» di cinquant'anni fa, e le due immagini non sono sovrapponibili, anche se per designarle usiamo gli stessi termini.

Chi sono, cosa domandano i giovani e, più in generale, coloro che si avvicinano alla vita religiosa? È iniziando a cercare risposte a questi interrogativi che si dipana una maggior comprensione di quel nodo di reciproche aspettative, motivazioni, atteggiamenti, al fine di verificare se quello che loro cercano/domandano è quanto noi possiamo/sappiamo proporre. Perché se venti o trent'anni non sono un lungo periodo, quando li si misuri sulla scala del cambiamento generazionale segnano invece un distanziamento molto più ampio e marcato in termini di mutamento negli stili di vita, negli orientamenti di valore, nei modelli culturali.

Le ricerche condotte sui giovani religiosi ci documentano come rispetto a 20-30 anni fa l'atteggiamento di coloro che chiedono di entrare in una comunità religiosa sia molto più caratterizzato da elementi di «realizzazione», intendendo realizzazione di sé, ma anche realizzazione in termini di chiamata del Signore per me, realizzazione di un'intuizione spirituale e così via. Sono invece molto meno presenti le tematiche del distacco, spogliamento, abbandono. Potremo dire, schematizzando il nostro discorso, che si entra nella vita religiosa non per rinunciare a qualche cosa, ma per trovare qualche cosa; e già qui si rileva un primo profondo divario nei codici culturali.

L'orientamento all' autorealizzazione, così tipico dell' odierna cultura giovanile, viene per tal via ad affacciarsi all'interno delle comunità religiose. Esso si inserisce, o forse più precisamente s'insinua, come elemento di non facile integrazione, perché, nel codice valoriale sotteso alle Costituzioni, ai modi di pensare, alle esortazioni, ai modelli di santità tipici del lessico della vita monastica così come è intesa nei nostri ambienti, l'autorealizzazione non compare come valore da promuovere e tutelare. Anzi, già il richiamo al sé, alla valorizzazione delle doti personali viene percepito come rischio, elemento potenzialmente fuorviante da una corretta vita religiosa, la quale si caratterizza come estroversa, orientata all'altro, alla comunità, alla chiesa, e così via.

Un atteggiamento dell'animo più che un comportamento di facile individuazione. Vi è chi lo esprime attraverso forti istanze di spiritualità, in un quadro di grande idealità e profonda radicalità, o chi cerca nella comunità uno spazio per dare ordine e senso alle molteplici e talora dispersive esperienze vissute. In ogni caso, sia che si cerchi un luogo dove condurre una propria ricerca spirituale oppure un ambiente che dia risposta ad un proprio bisogno di senso e pace, quello che viene in evidenza è la centralità della ricerca di realizzazione personale. Ciò significa che il punto di vista del soggetto è quello determinante, per cui i vari passaggi ed impegni, incluse le rinunce e i cambiamenti implicati dal passaggio alla vita religiosa, tendono ad essere interpretati e vissuti da questa angolatura. Ovviamente questo non vale solo per la vita religiosa: troviamo la stessa cosa nella famiglia, nelle scelte professionali, e così via. Ne vengono alcune conseguenze, alle quali brevemente accenno.

In primo luogo, una scelta non è «per sempre», o meglio il per sempre è un auspicio implicito, ma non una certezza fondante il principio. Quindi noi corriamo il rischio di dire: «È per sempre che tu vieni?» e tutti rispondono: «Sì!»; solamente che per noi questo diventa un dato di fatto da cui si parte per realizzare la formazione spirituale e l'inserimento in comunità, mentre per interlocutore diventa un auspicio, come dire: «Spero che sia per sempre, ma, se poi lo sarà veramente, te lo dirò tra qualche anno». Sarà il permanere, o il venir meno, delle condizioni iniziali, come insieme di aspettative e motivazioni in base alle quali la persona si orienta alla vita monastica, che realizzerà la continuità dell'impegno, o l'interruzione dell'esperienza. Il fatto di porre all'inizio del processo di inserimento in comunità un insieme di attese legate ad una certa idea di realizzazione personale rende più difficile attuare in modo pieno (senza se e senza ma!) quell'affidamento, psicologico e spirituale, che è condizione indispensabile per giungere ad un'appartenenza stabile ed irreversibile.

Se si pongono condizioni, sulla cui realizzazione la persona si riserva una propria autonoma ed insindacabile valutazione, è facile che si attui un'appartenenza a due livelli: formalmente totale, ma di fatto circoscritta e vissuta con una sempre disponibile opzione di revoca degli impegni assunti. S'inserisce pertanto nella relazione comunitaria un elemento di instabilità, che può restare latente - o emergere improvvisamente anche dopo la professione solenne o l'ordinazione presbiterale - quando le esigenze della vita comunitaria non siano più eludibili. Ad una più immediata e netta percezione della distanza tra istanze soggettive ed impegni delle relazioni comunitarie, in molti casi fa da schermo il fatto che le richieste abbiano contenuti in sé positivi o evangelicamente ispirati, solo che possono muoversi verso progetti di impegno e testimonianza sui quali la comunità non sa o non intende impegnarsi. Non basta che una scelta o un orientamento sia buono in se stesso perché la sua realizzazione sia possibile o più semplicemente opportuna.

Secondo aspetto: l'appartenenza ad una istituzione religiosa non segna più una rottura radicale, una discontinuità rispetto alle esperienze precedenti. Più che una morte/rinascita, è uno sviluppo, una evoluzione di potenzialità. C'è quindi una «riserva» del soggetto che solo raramente emerge in tutta la sua limpidezza. Comprendiamo allora come rispetto al passato vi sia una minore disponibilità a lasciarsi plasmare e uniformare dall'istituzione, mettendo tra parentesi (o rimuovendo) quelle inclinazioni, spinte emotive, desideri che, pur importanti nell'identità della persona, risultino disarmonici rispetto ai valori, ai comportamenti, agli stili di vita presenti in comunità. Questo vuoI dire che, se è posto di fronte alla scelta tra la fedeltà a quella parte della propria identità percepita come positiva (essere autentico) e la necessità di uniformarsi alle esigenze di un'appartenenza istituzionale, l'opzione è per l'autenticità e quindi la rottura della comunicazione con l'istituzione: «Quando non intendo trasformarmi ti lascio parlare, tanto, comunque, io continuo a coltivare le mie idee». C'è in un simile atteggiamento il rischio molto concreto di una deriva narcisistica, anche se nello stesso tempo è doveroso riconoscervi l'istanza per un più sincero rispetto della persona.

Nella domanda di autenticità, che abbiamo rilevato come una richiesta di non andare contro l'identità profonda di sé, si esprime la consapevolezza che esiste in ciascuno di noi un nucleo originario ricevuto, che debbo scoprire, accogliere e portare a compimento, e non posso (ed oggi sempre più spesso non intendo) rimuovere, cancellare, per sostituire con un'identità «istituzionalmente» corretta. Allora qui, mi pare, c'è un punto molto importante nel dialogo tra nuove generazioni e istituzioni: perché le nostre strutture religiose, penso anche i monasteri, sono istituzioni tendenzialmente rigide a motivo dell'età, del peso attribuito alla tradizione nel definire i comportamenti e gli stili di vita, degli stessi ambienti architettonici così carichi di storia, ma anche ormai così sproporzionati alle esigenze relazionali di comunità piccole, con poche risorse umane. Per questo tipo di istituzioni la spinta all'autenticità è vissuta come una minaccia ed è quindi fonte di tensione e fraintendimenti, primo fra tutti il fatto che accettare l'autenticità sia un lasciare andare verso la spontaneità delle pulsioni e delle emozioni.

Ma autenticità è ricerca, spesso faticosa e sofferta, di un confronto con le proprie potenzialità e i propri limiti, impegno ad una riflessione seria su di sé, ad un serrato confronto con le vischiosità e le debolezze della realtà. E questo è un tratto estremamente importante nelle nuove generazioni. Una comunità che non teme il dialogo dovrebbe, oppure più semplicemente potrebbe, accogliere la sfida che si esprime nel desiderio di autenticità, integrando lo nel vissuto delle proprie relazioni interne, nella ricerca spirituale, portandolo cioè all'apertura verso l'alterità per non rischiare l'implosione o il ripiegamento narcisistico su se stessa.

Un ulteriore aspetto che la cultura giovanile evidenzia, capace di interferire profondamente nella relazione con la comunità religiosa, è l'importanza attribuita alla dimensione comunicativa, cioè il parlarsi è valore fondante la relazione, indipendentemente dai contenuti che si trasmettono. Se voi guardate i giovani quando si ritrovano insieme, li vedete intenti a parlarsi; se poi vi avvicinate ad ascoltarli, vi accorgerete che i contenuti dei loro discorsi sono piuttosto banali, inconsistenti, perché non è importante quel che dici, ma che ci sia qualcuno con cui tu puoi parlare. Ciò significa che in una comunità religiosa si cercano persone con le quali stabilire un dialogo intrattenere rapporti positivi in un clima confortevole, accogliente, sgombro da conflitti e tensioni. Tutto ciò avviene in un contesto sociale nel quale aumenta tra le generazioni, anche tra quelle contigue, la diversità culturale e quindi la distanza.

L'incontro pertanto con le nuove vocazioni si muove tra due tensioni di segno opposto: da un lato, c'è la domanda di comunicazione assunta come valore in se stesso positivo, al di là dei con tenuti trasmessi, perché si esiste nella misura in cui si scambiano messaggi; dall' altro, cresce il distacco tra le generazioni e quindi diminuiscono gli spazi per il dialogo. Si aggiunga poi la diffusa esperienza del cambiamento sociale e culturale che porta a relativizzare codici comportamentali e contenuti normativi. Difficile (anche se non impossibile) che in un simile contesto la comunicazione diventi relazione e si vada oltre un generico rumore di fondo, un parlare stereotipato. Ne è riprova il fatto che, quando ci si avventura su temi che la persona non intende affrontare perché ritenuti troppo impegnativi o capaci di mettere in discussione sicurezze intellettuali o spirituali alle quali non s'intende rinunciare, allora la debolezza della comunicazione si palesa in tutta la sua realtà: il messaggio viene, per così dire, «rimosso», allontanato da sé con un leggero, quasi confidenziale, gesto di fastidio.

Nello specifico degli Istituti religiosi la comunicazione con il mondo giovanile si muove in un contesto reso difficile dalla scarsità delle vocazioni. Ciò non solo accresce la distanza tra le generazioni, come si è già ricordato, ma concorre a rendere «prezioso» il giovane che si affacci al monastero, specie se intenzionato a restarvi. Ad esso si applicano i criteri che in famiglia si accompagnano alla cura del figlio unico, al quale tutto è permesso purché non lasci soli i genitori e non li abbandoni, specie se anziani. Allora la comunicazione, da dialogo che coinvolge e può mettere in discussione ambedue le parti, diviene prassi contrattuale, con definizione degli ambiti del «privato» e del «comunitario». I mondi rimangono intimamente distanti e la comunicazione non diviene una relazione che modifica nel profondo, un impegno a tessere rapporti interpersonali, comunitari, ma definizione funzionale di regole del gioco in funzione del perseguimento di alcune attività condivise.

L'orizzonte che in tal modo si delinea è, quando riesce bene, quello di un gruppo efficiente, secondo le regole dell'agire sociale, ma con un debole senso di appartenenza comunitaria. La comunità monastica ambisce ad essere realtà che plasma l'identità psicologica e spirituale della persona. Le relazioni che vi si instaurano non sono solo osservanza di norme che delineano un «pubblico» ed un «privato», un permesso ed un vietato, ma vorrebbero essere testimonianza di uno stile di vita e di un linguaggio espressivo che riconosce affinità spirituali, si apre alla condivisione, crea koinonia. Sta qui il fascino con il quale si guarda alle nostre comunità: la nostalgia (o la profezia?) di relazioni interpersonali che non siano unicamente strumentali, ma attestino compassione, accoglienza, gratuità, in quanto scaturiscono da una quotidiana frequentazione dell'evangelo. Solo nel riconoscimento di una incondizionata fedeltà alla Parola di Dio, alla quale ognuno accetta di sottomettersi, la comunità monastica trova il codice comunicativo più adeguato per costruire rapporti interpersonali non effimeri. Diversi per età, carattere, sensibilità culturale, i monaci eviteranno una unità solo funzionale, costruita attorno ad un patteggiamento definitorio di quanto attiene al soggetto e di quanto invece spetta al comunitario, solo se sapranno riconoscere nella fede in Gesù l'elemento che radicalmente li unisce, permettendo loro di scambiarsi simboli e parole apportatrici di senso.


Il monaco frena la lingua dal parlare e mantenendosi fedele al silenzio non parla finché non sia interrogato (RB 7,56).

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti



Trentunesima parte

Per comprendere meglio esaminiamo ora i seguenti brani del libro degli Atti degli Apostoli.

Atti 1, 13-14
Entrati in città salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui.
Atti 2, 42-47
La prima comunità
Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.
Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.


Atti 4, 32-35
La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.

Atti 5,12-16
Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; degli altri, nessuno poteva associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze , ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti.

Questo libro è notoriamente il frutto della Comunità che ha riflettuto sulla sua esperienza post-pasquale ed i brani citati ci danno l’identità della Chiesa delle origini dove appare Maria “la prima discepola”.

Questa presenza di Maria, nel libro degli Atti e nei Vangeli deve naturalmente essere meditata ed approfondita alla luce di una sana mariologia evitando luoghi comuni, stereotipi, devozionalismi.

Tutto questo per conservare una sincera fedeltà all’intuizione carismatica del P. Colin.


Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti





Trentesima parte

Un ulteriore passo in avanti possiamo farlo vedendo ancora altri brani di “Parole di un fondatore” che sono in relazione a Maria e che cito brevemente:

I maristi appartengono a Maria…74/3;  143/3;  156/7

…sono chiamati e scelti da Maria…78/7;  107;  172/26;  176/3

…debbono imitare Maria in generale…79/7;  1/2

…nella piccolezza e nella vita nascosta… 116/8;  119/8;  120/2

…avendo il suo spirito ed i suoi sentimenti… 112/6;  188/13

…avendo anche le virtù di mari: modestia, povertà, piccolezza… 146/4;  119/8;  120/2

In sintesi dunque sono chiamati ad essere “Icone viventi di Maria”.

(Il visitatore o la visitatrice stupiti e forse seccati dalle citazioni troppo sintetiche possono richiedere all’autore, P. Franco, coordinatore del sito i testi completi. Grazie).


Martedì, 29 Marzo 2005 23:25

Un'arte da imparare

La comunicazione in comunità
Un’arte da imparare



Come la nostra società, che si crede esperta perchè ha tanti strumenti di comunicazione, la vita religiosa soffre la perdita della sua natura relazionale.
Lo rivela l’individualismo molte volte denunciato dai documenti del magistero e dai numerosi convegni sulla vita consacrata.



Noi religiosi siamo attenti e impegnati - giustamente, in quanto «la vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione» (VC 3) - ad ascoltare l'invito dei vescovi italiani che ci chiamano a comunicare il Vangelo nel nostro mondo, in rapido mutamento, che ha bisogno di riscoprire il messaggio di Cristo nella sua sostanza e nelle sue conseguenti applicazioni nella vita individuale, famigliare, culturale, sociale.

Siamo tutti consapevoli - edotti dall'impegno pastorale e da sane letture - che il programma della CEI pone realisticamente la comunicazione del Vangelo come la base insopprimibile per una ripresa della complessa dimensione dell'evangelizzazione. E ci diamo da fare -sempre giustamente -per scoprire i modi della comunicazione, i meccanismi dei nuovi linguaggi (massmediali, computerizzati, linguistici, ecc. ) che appaiono indispensabili per comunicare con l'uomo del nostro tempo. Siamo convinti -essendo il messaggio evangelico la relazione dell'uomo con Dio e con gli testimoni altri che deriva dall'originaria e fondante relazione di Dio con l'uomo - che riflettere sulla comunicazione costituisce un momento fondamentale per trasmettere la parola di Dio in modo efficace.

Insomma comunicare è divenuto, lodevolmente e legittimamente, un ambito delle preoccupazioni culturali e pastorali delle comunità religiose, molte delle quali in prima fila nella individuazione di modalità e strumenti per meglio comunicare il vangelo.

Ma... c'è un ma. All'encomiabilissima sollecitudine di essere idonei comunicatori del Vangelo, corrisponde sempre l'ammirevole, previa e edificante (nel senso anche proprio di "costruttrice") comunicazione all'interno della comunità? Non si direbbe, venendo a conoscenza dei seri problemi in questo senso di molte comunità e leggendo le riflessioni di eminenti religiosi, espresse in sequenza significativa anche in ben due numeri recenti di Testimoni.

Dobbiamo dire che per questa comunicazione non ci si danna l'anima, sia perché non la si ritiene importante (naturalmente è un grande errore di valutazione) come l'altra, sia perché in questa diffusa disaffezione (è un eufemismo) gioca anche l'ignoranza circa la natura profonda della comunicazione e quindi della sua necessità. Anche noi religiosi siamo schiavi di un fenomeno proprio della nostra epoca: informazione magari tanta tra di noi (ci sono molte cose che abbiamo fatto per le quali apparire zelanti e uomini di successo agli occhi dei confratelli), ma comunicazione, nel senso vero e completo del termine, piuttosto pochina.

Sembra urgente e opportuno per noi comunicatori del Vangelo, spesso muti nelle comunità, riscoprire l'essenza della comunicazione e il suo valore per la vita comunitaria, principio e radice di ogni altra comunicazione. 

“Il monaco non faccia nulla se non ciò che è raccomandato dalla comune regola del monastero e dagli esempi degli anziani” (RB 7).

Elementi essenziali della vita contemplativa
 come mezzi di crescita personale
di M. Cristiana Piccardo o.c.s.o.


 



Per Benedetto gli elementi essenziali che costituiscono l'identità di un monaco cenobita sono solamente tre: la comunità stabile, la regola, l'abate. E - come dice Dom Armand Veilleux - è importante notare l'ordine con il quale Benedetto li presenta. Nella storia del monachesimo sempre più si è tentato di invertire l'ordine che ci trasmette San Benedetto, o si è dato un'importanza smisurata all'uno o all'altro di questi tre demeriti. La tradizione monastica e, in particolare quella benedettina si è deformata generando o un atteggiamento legalista (importanza smisurata alla Regola), o una forma di autocratismo (ruolo esagerato dell'abate), o una forma di democratismo (autorità preponderante del gruppo sopra l'individuo). Quello che conta per Benedetto è la koinonia fra i fratelli, affondando nel solco della Regola che ci purifica come oro nel crogiolo, e aderendo fedelmente all'autorità, fonte della nostra unità.

Ma io desidero parlare molto semplicemente della mia esperienza poiché non è strumento per una esplorazione culturale.

La domanda che uno si pone è: ci sono elementi nell'osservanza monastica che non sono essenziali per favorire la crescita della persona che si consegna alla vocazione contemplativa?

Quando io sono entrata alla Trappa 45 anni fa non avevo idee molto chiare: mi affascinava la struttura liturgica del monastero, con il tempo totalmente ritmato per la lode del Signore e mi affascinava l'idea che quelle monache si guadagnavano il diritto di vivere la propria vita con il lavoro delle proprie mani in una struttura pienamente comunitaria. Credo che la mia generazione era tutta un po’ socialista alla fine di una dittatura fascista e percepivamo come una esperienza di grande libertà incontrare gente che affermava liberamente la sua scelta di vita senza condizionamenti esterni di nessun tipo. In fondo - questo è certo - l'intuizione più profonda era il desiderio di offrire la vita al Signore senza diaframmi di interessi mondani, e, personalmente, la speranza di vincere la mia propria esasperata autonomia con una vita sigillata dalla continua obbedienza. Tuttavia la, forza dell'orazione liturgica e l'autonomia lavorativa della comunità esercitarono il suo peso significativo in quel momento iniziale.

In ogni modo, se consideriamo i mezzi di crescita che la vita monastica offre, devo confessare che, nel mio personale impatto iniziale con il monastero, non furono i valori tradizionali dell'orazione, la lectio, la solitudine, il silenzio, la clausura, che comunque avrebbero conformato la mia vita, quelli che .richiamarono la mia immediata attenzione e marcarono la mia esperienza iniziale, ma piuttosto l'impatto sperimentale con realtà molto semplici, come per esempio la ristrettezza e la nudità della cella in un grande dormitorio comune e la consolazione che mi riempiva il cuore, quando svegliandomi al suono delle Vigilie, dopo vari incubi notturni, potevo toccare i muri della cella e dire: «Sono ancora qua!». Mi invadeva un grande stupore perché mi pareva miracoloso che una comunità trappista potesse accertare e sopportare un tipo come me.... E mi marcò anche il lavoro dei campi di tutti i giorni, la lunga fila delle novizie, ciascuna con la sua zappa sotto il braccio, che seguiva la madre maestra che era a capo della fila. Ricordo che il primo lavoro che mi chiesero fu quello di mettere letame naturale su una coltivazione di carciofi e poiché le piante erano piccole era necessario mettere il letame con le mani. Io venivo da un ufficio editoriale di giornali e riviste e il contatto brutale con la terra e gli escrementi della stalla mi provocò delle risate tremende e molto poco... monastiche a causa dell'immediata e concreta visione della mia persona aldilà delle etichette... editoriali del passato.

Come potete vedere non erano mezzi di alta qualità monastica, ma mi dettero fin dal principio un sentimento tanto forte del realismo della vita benedettina e la piccolezza dell'uomo quando si confronta con la nudità del reale, che tale esperienza rimase viva in tutta la mia vita, insieme con un certo sentimento di umorismo nella considerazione di quello che siamo abituati a ritenere come importante e qualificato nel mondo e che si dissolve rapidamente di fronte a un...letame naturale.

Questo per dire che non ci sono mezzi più atti che altri per favorire la crescita di una persona nella vocazione monastica, ma che è tutto l'insieme di un'esperienza di vita quello che trasforma e fa crescere colei che entra nella vocazione contemplativa. In ogni modo analizzeremo alcuni degli elementi essenziali - non tutti, certamente - e non nella forma esauriente e profonda. Solo alcuni piccoli flash.

Una fonte di formazione - parlo sempre di una esperienza iniziale, la mia. - fu di incontrare modelli. Chiaro, provenendo da una società che aveva vissuto lo sfascio totale di ogni modello nella seconda guerra mondiale, i modelli avevano per la mia generazione un peso particolare. Senza dubbio credo che anche oggi questo peso vitale sia importante. Parlo di modelli nel senso di persone che trasmettono un esperienza.

I primi modelli furono la figura stessa delle mie superiore. Le mie prime due badesse non poterono portare a compimento il loro incarico sessennale di governo per motivi di salute, senza dubbio furono per me un modello ispiratore e stimolante. Madre Immacolata per la ricchezza della sua umanità, la meraviglia della sua libertà e della sua capacità di amicizia; Madre Armanda per la sua umiltà e la sua costante capacità di gratitudine. Anche la mia Madre Maestra per la sua abnegazione inesauribile e la sua regolarità esemplare nell'osservanza monastica marcò profondamente tutto il mio noviziato popolato da trentun persone.

A volte non lo sottolineiamo abbastanza, però la forza di un modello positivo ha un immenso valore nella crescita formativa delle giovani. Una vita si trasmette con la vita. I valori di un carisma si trasmettono con esempi vivi - più che con i libri e le chiacchiere. Senza dubbio la forza pedagogica dei modelli non sta nella sua perfezione, ma piuttosto nella perseveranza della loro risposta al Signore e alla vita.

Nella nostra società c’è una mancanza crudele e drammatica di esempi che costruiscano un modo di vita convincente e trasmettano una tradizione feconda. Questo ci interpella molto a livello dell'esercizio dell'autorità e del ruolo formativo della comunità. Il processo di maturazione, anche se non vogliamo ammetterlo, si muove - almeno all'inizio dell'esperienza monastica - su modelli. È la comunità la depositaria del carisma vocazionale al quale siamo stati chiamati e c'è una forma di trasmissione del carisma che passa di generazione in generazione attraverso i modelli di vita che troviamo nella concreta realtà della comunità. Per questo ho considerato sempre come una delle più preziose indicazioni pedagogiche quello che si soleva dire al mio tempo nelle nostre comunità: ogni generazione trasmette alle nuove la grazia della casa e il carisma dell'Ordine. Di generazione in generazione: è un elemento biblico, pedagogico e umano di primordiale importanza.

Chiaro, l'immagine del «modello» può essere ambigua se ci identifichiamo troppo con esso in modo sentimentale o ripetitivo e non conserviamo la serena distanza di una oggettività matura, però è ancora più ambiguo se non si ha un processo di filiazione nella crescita vocazionale: un sentirsi figli della comunità, generati dalla sua grazia, dalla sua storia., dalla sua realtà così come è. Sia come sia, viviamo di quelli che ci sono arrivati al cuore attraverso i canali vitali di chi ci ha preceduto. Nel contatto con le monache che sono uscite dalla nostra comunità fondatrice per le diverse fondazioni, sempre mi ha colpito profondamente la presenza del loro ricordo delle anziane della comunità di origine. Non era tanto il ricordo della compagna. di banco, o della badessa dell'epoca, quanto delle anziane che avevano lasciato solchi vitali nella trasmissione di un carisma e di una santità. L’importanza della tradizione e della trasmissione è vitale per qualsiasi crescita formativa e la comunità può trasmettere solo, nella misura che assume seriamente, il ruolo formatore che le compete, vive nella novità della fedeltà alla sua tradizione e si muove con grande apertura di cuore verso le nuove generazioni. Mai la trasmissione - se è vitale - è impositiva, però sempre offre la ricchezza di vita del passato che feconda la speranza del futuro. Normalmente solo chi dà valore al passato ha il senso del futuro, chi sa trarre dalla tradizione ha intuizione dell'avvenire e solo nella fedeltà a una trasmissione sviluppa una creatività audace ed esigente.

Ricordo un abate, ci diceva che la sua attuale esperienza di superiore era stata molto facilitata grazie all'esempio che aveva avuto sotto gli occhi durante 19 anni. Diceva: «Non voglio idealizzare il padre che ho avuto nella persona del mio abate, ma posso dire che in situazioni impreviste. scomode, difficili, il mio unico e primo riflesso è stato di fare come avrebbe. fatto lui».

Quello che affermiamo sui modelli ci permette di dire una parola in più sull'importanza della maternità e paternità nel servizio dell'autorità. È un altro elemento essenziale che modella profondamente il processo formativo. A volte abbiamo un'idea viscerale della maternità (o paternità) e questo non ci permette di vivere una filiazione autentica e sana. Facilmente ci sentiamo generati dall'affetto più che dalla parola che l'autorità ci dice. Molto spesso non cogliamo il valore di una parola, di un'indicazione, di una osservazione perché non ci è arrivata con tutti... i carismi che gratificano la nostra affettività, la nostra sensibilità e perdiamo l'occasione meravigliosa di lasciarci generare in una filiazione che riflette in noi l'eterna vocazione del Figlio di Dio. Diamo più importanza alla forma che al contenuto. Sicuramente la forma ha un imprescindibile valore, però oggigiorno si è dato un tale valore alla forma che la correzione diretta e l'indicazione senza guanti è considerata violenza e aggressione. La forma non è tutto. Quello che cambia una persona, che mobilita la sua crescita e la sua trasformazione è l'interiorizzazione della parola che riceve, al di là della forma con la quale la parola le giunge. Senza dubbio in questo ascolto si situa l'obbedienza monastica e sappiamo che l'obbedienza non è tale se è unicamente esecutiva. Ciò nonostante c’è qualcosa in più in questo lasciarci generare dalla Parola: c'è un incontro esistenziale con la presenza del Signore e la sua eterna volontà che ci relaziona direttamente con il mistero di Cristo e la sua eterna filiazione divina e umana. Mistero di un ascolto che, passando attraverso la Carne dell'uomo, si lascia portare fino all'obbedienza della croce.

Sicuramente l'esperienza più completa nel processo di crescita personale è la conoscenza e l'accettazione di se stesso. Incontrarsi con la propria verità, accettarla e assumerla responsabilmente non è un cammino facile per nessuno. Sicuramente le discipline psicologiche sono un aiuto grande e possiedono strumenti che facilitano una penetrazione cosciente del proprio mondo interiore, della propria storia personale, del normale traumatismo della vita, del processo di integrazione. Tuttavia l'analisi psicologica non è tutto, non dà tutto. C'è una purificazione, una morte dell'io che acquista il suo senso solo quando giungiamo a dire: Cristo è il mio unico io, la mia unica vita, il mio unico amore. L’accettazione della mia persona e la sua proiezione nel processo di conversione in definitiva è realmente possibile solo quando giungiamo a dire: «non vivo più io, vive in me Cristo». La conoscenza di sé e l'integrazione della propria realtà non è solo un processo di maturazione psicologica ma un processo di fede. È importante comprenderlo poiché la tentazione è chiedere all'analisi la soluzione di tutti i nostri problemi. Arriviamo ad essere competenti delle nostre storie e innalziamo grandi paraventi di difese carichi dei nostri traumi infantili. Ma se non facciamo un passo nella fede, se non abbracciamo la croce di Cristo rimaniamo fuori dalla verità e realtà della vita e non camminiamo verso l'autentico compimento delle nostre persone.

È chiaro: i giovani e i meno giovani devono essere accompagnati fino al limite del possibile (e dell'impossibile: la formazione è sempre un rischio), hanno bisogno di essere costantemente confermati (sottolineo la parola 'confermati') nella vita dei valori di un carisma e dei segni che lo esprimono, soprattutto quando la stanchezza, la monotonia della routine, il dubbio hanno il loro peso. Tuttavia ogni persona ha il suo pizzico di positivo ed è valorizzando il positivo che il negativo si trasforma e non disturba. Se ci preoccupiamo solo di prendere di mira il negativo tagliamo le ali e paralizziamo il cammino. Hanno anche bisogno di essere accompagnati con molta pazienza nella presa di coscienza delle realtà negative della vita comune (temperamenti difficili, cattivi comportamenti asprezza nelle relazioni, incoerenze, povertà umana e culturale...) per crescere in una dimensione di fede che assuma il Corpo del Signore, nostra piccola chiesa monastica, così come è, senza pretendere di modellarla con le nostre categorie di perfezione o vivere sognando una comunità ideale che non esiste e camminando fuori della realtà.

In questo processo di accompagnamento ci sono nella vita monastica osservanze insostituibili che sono particolarmente feconde e che tutti conosciamo molto bene.

La liturgia come fonte prima di crescita personale e comunitaria di fronte a ciò che gli studiosi notano come assenza di interesse per il mistero e la ricerca di gratificazione immediata che sembra caratterizzare la gioventù di oggi, la liturgia offre la celebrazione del mistero di Cristo e con la sua pregnanza salmica ci pone costantemente di fronte al mistero dell'uomo, della sua origine e del suo destino, del suo peccato e della sua morte e ci dà un senso del tempo che già sbocca fortemente nell'eterno. L'avvicinamento al mistero è pieno e quotidiano e ci situa al di là dell'immediato palpabile e ci apre a dimensioni che rivelano l'ampiezza della realtà dell'uomo e del suo destino.

Di fronte al problema della gratificazione immediata c'è nella liturgia una forza di ringraziamento che può introdurci in questo benedetto terreno della gratuità che sembra tanto lontano nell'esperienza di calcolo mondano che si muove unicamente su criteri di efficienza e successi.

Inoltre, se è vero che la qualità essenziale dell'io umano - e la sua capacità di relazione, la liturgia è un tessuto di relazione continua - non solamente con Dio - ma anche con i nostri fratelli, le nostre compagne di coro che cantano al nostro lato e con le quali dobbiamo sintonizzare la nostra voce, mentre l'esercizio della pazienza per sopportare con semplicità di cuore chi stona, chi sbaglia, chi arriva tardi, chi non apre i libri... ci fa entrare in una relazione molto diretta e forte con tutta la comunità, una relazione in cui si giocano tolleranza, misericordia., comprensione, compassione e corresponsabilità.

Soprattutto la liturgia sottolinea i sentimenti primordiali dell'uomo, così come i salmi ce li presentano in forma molto diretta, e ci aiuta ad assumere i nostri sentimenti in tutto il loro realismo. Sappiamo che oggi uno degli scogli per lo sviluppo della Formazione è il contatto con la realtà nella sua nudità, verità e concretezza. La ricchezza della Parola che la liturgia ci presenta può facilitare questo contatto con la verità dell'essere umano e con la realtà più profonda della vita.

L'immersione nella dimensione liturgica della preghiera monastica facilita quindi una conoscenza di sé, forse più profonda di ciò che possono darci altri mezzi e ci situa in una relazione radicale con la verità dell'uomo e la realtà della storia. Nello stesso tempo provoca quella integrazione comunitaria che è fondamentale del nostro cammino cenobitico. L'importante è che ci sia una iniziazione seria alla comprensione del senso liturgico della preghiera contemplativa, una penetrazione del mistero di Cristo, del tempo e dell'uomo.

Altro aspetto basilare della liturgia è la celebrazione. C'è un principio antropologico fondamentale: si esperimenta un valore nella misura che arriviamo ad esprimerlo. La celebrazione è un'alta forma di espressione. È celebrando come monaci che si giunge ad essere monaci. Il carisma monastico non è un'astrazione: si incarna e si concretizza, con azioni significative. I tempi di preparazione di una festa, la sua celebrazione, la sua espressione ci permettono di esperimentare qualcosa del mistero che celebriamo. Ricordo una giovane monaca che, dopo la celebrazione pasquale, venne a raccontarmi che nelle poche ore di riposo tra la conclusione della vigilia pasquale e il canto di Lodi non aveva potuto riposare a causa di un'esperienza, una tremenda oppressione fisica e morale in cui esperimentava la liberazione dopo la celebrazione del mistero pasquale e mi ripeteva piangendo: «Da quale tremendo peso ci ha liberato il Signore con la sua morte e risurrezione». E ricordo un'altra che mi portò nel boschetto vicino per dirmi mille volte quasi gridando: «Debbo dirti qualcosa di meraviglioso: è risuscitato, è risuscitato!» C'era in queste persone un'esperienza di rigenerazione che spingeva terribilmente la loro crescita umana e spirituale verso una pienezza esistenziale.

Accanto alla preghiera liturgica la lectio divina occupa un posto privilegiato. È il contatto diretto e amoroso con la Parola e con chi ci ha preceduto in un cammino di riflessione, di penetrazione, di contemplazione della Parola: i Padri. Il grande peccato dell'uomo è la dimenticanza: la smemoratezza, l'incapacità di fare memoria. Viviamo nella cultura dell'immagine - d'accordo - però vivere la memoria non è un fatto puramente intellettuale ma piuttosto ontologico. «Io mi ricorderò della mia alleanza con te e stabilirò un'alleanza eterna in tuo favore» ci dice Ezechiele (16,60). Questa «memoria» di Dio è sinonimo della sua incrollabile fedeltà come leggiamo in Osea: «Come posso lasciarti, Èfraim come abbandonarti, Israele? Il mio cuore è turbato, le mie viscere si agitano» (11,8). Dentro questa alleanza, questa fedeltà divina, respiriamo, viviamo e siamo. È un abbraccio che ci sostiene in ogni istante e ci avvolge di misericordia. Fare memoria è vivere l'esperienza di questo abbraccio al quale la lectio ci apre giorno dopo giorno.

Senza dubbio l'aspetto più alto della lectio è il contatto con la Parola ed è un'apertura del cuore che apprende poco a poco a riposare nella Parola e a lasciarsi modellare da essa. Tuttavia la mente non è assente: c’è un esercizio profondo dell'intelligenza che cerca di comprendere il senso di quello che legge, della memoria che cerca di ritenere quello che la mente penetra; c’è un lavoro di concetualizzazione e di sintesi che è proprio dell'intelligenza e crea una mentalità. È importante stimolare lo sforzo intellettuale: ci sono persone che incontrano difficoltà a esprimersi e comunicare e consideriamo a volte questa difficoltà unicamente come un problema psicologico. Senza dubbio, il problema può esistere a questo livello, però non sempre si tratta di cause psicologiche. A volte la difficoltà di comunicazione viene da un'assenza di contenuti interiori, una mancanza di sintesi personale. Le persone non sanno che cosa dire perché il vuoto interiore del pensiero è grande e il sintomo più grave di questo vuoto è l'assenza di domande.

Ricordo un'anziana di Vitorchiano, Madre Paolina, - non so bene se aveva terminato le scuole elementari o no - che aveva una fedeltà devozionale alla Lectio. Tutti i giorni - fino ai 92 anni - la si vedeva seduta al suo tavolino in un angolo dello scriptorium con il suo libro e i suoi grossi occhiali. Normalmente dopo la Bibbia leggeva la vita dei santi. Credo che sapesse a memoria tutti venti i volumi del Santorale ufficiale. E siccome normalmente la vita di un santo comunica, al di là della cronologia della vita, anche il suo pensiero e le sue opere, Madre Paolina risultava in comunità la persona meglio informata e competente, non solo sopra i santi, ma sopra lo sviluppo della teologia e della realtà ecclesiale che la vita dei santi inevitabilmente presentano. La fedeltà alla Lectio le aveva dato uno spessore culturale che - forse - nessuna università potrebbe dare. Ricordo anche una monaca molto giovane che amava il salterio in un modo molto speciale e che lo meditava costantemente. Non solo aveva appreso a memoria tutti i 150 salmi, ma il suo linguaggio era arrivato ad essere «salmico». Molto vivace, dialogava con scioltezza e intelligenza, però, alla fine - senza rendersene conto - tutti i suoi interventi erano, in un certo senso, una citazione salmica. Sotto certi aspetti provocava risate ma sotto altri aspetti ci faceva riflettere e incontrare la dimensione orante della sua vita e la sapienza biblica dei salmi applicata alla vita.

Possiamo anche parlare di solitudine e silenzio: sono i mezzi di crescita più normali in una vita contemplativa e sicura-mente costituiscono uno spazio intenso di maturazione della persona. Ci sono falsi silenzi e false solitudini ogni volta che l'orgoglio e il culto dell'apparenza ci spingono verso forme di chiusura, isolamento, rifiuto. C'è poi il silenzio buono dell'interiorità e la solitudine della pace interiore piena di bellezza, gratitudine e gusto della vita. Però sia il silenzio come la solitudine acquistano il loro vero senso quando toccano la corda del dolore. Nel mio noviziato, troppo numeroso, i superiori presero la decisione di mandarci in otto juniores alla nostra casa madre di Francia. Là nei tre anni del nostro monasticato vivemmo sicuramente l'esperienza di ciò che significa sentirsi stranieri, che è di fatto la più bella esperienza dato che siamo tutti pellegrini di passaggio sulla terra, tutti «semiti» come dice Giovanni Paolo II. Però non fu un'esperienza facile: gli italiani sono istintivi e diretti, i francesi molto controllati, osservanti, formali. Tuttavia fu un'esperienza preziosa per la forte solitudine affettiva che ci accompagnò rivelandoci il vero spessore della solitudine e del silenzio. La solitudine non è assenza di relazione, né il silenzio assenza di parola; tuttavia il vero silenzio e la vera solitudine cominciano quando - nel dolore della carne - scopriamo che l'unico appoggio, l'unica consolazione, l'unica forza, l'unica gioia della vita è il Signore. Allora il silenzio si fa carne della nostra carne e la solitudine si riempie della misteriosa presenza della misericordia che ci salva. E un'autocoscienza nuova della verità della persona, di uno spazio interiore che si amplifica attraverso il dolore assunto nella pazienza del tempo e nella speranza che già inserisce l'eterno nella temporalità.

Mi fermo qui per non stancarvi troppo, consapevole che tutto quello che ho detto è incompleto e frammentario. E torno a ripetere come al principio: tutto nella nostra vita e mezzo di crescita, tutto ci educa a una coscienza nuova del nostro destino, tutto stimola un processo di conversione che ci accompagna lungo tutta la vita se il cuore rimane costantemente aperto a lasciarsi interpellare...

Per Geltrude di Helfta, una monaca benedettina del secolo XIII (1256-1301) l'elemento essenziale della vita monastica era uno solo: «vedere e amare nel cuore di Cristo». E l'esperienza di Geltrude, a differenza dei mistici dei secoli posteriori che si centrano totalmente nelle sofferenze di Cristo e la riparazione dei peccati, si propone con una gioia esultante nello scambio amante dei cuori fra lei e Cristo. Qualcosa di semplice e definitivo che rende pleonastico tutto quello che ho detto fino ad ora.

Tuttavia rimane vero che tutto aiuta, tutto ci fa crescere e ci fa amare di più.

Termino con una testimonianza della nostra sorella Clara che sembra dirci che anche una... campana è mezzo di crescita umana e vocazionale. Ecco qui le sue parole che furono pubblicate in una rivista:

«Entrare alla Trappa è stata la decisione di riconoscere l'annuncio di Dio nella mia vita e seguirlo, implicando tutta la mia persona nella normalissima quotidianità della vita di clausura. Così il paziente, chiaro, intenso lavoro di trasformazione, rimanendo nella profondità dell'obbedienza alla campana, alle indicazioni della Regola di San Benedetto, al silenzio, al lavoro manuale semplice e attento, poco a poco, mi ha rivestito di gratitudine e di continua lode come modalità esistenziale della mia libertà, il respiro della mia vita. E più volgevo le spalle alla mia altezzosità e intolleranza, al male che porto dentro il mio io per porre radici nell'appartenenza alla Chiesa e alla sua storia, più mi sentivo amata e perdonata. Un’esperienza di rigenerazione impensabile che non mi ha mai abbandonata e mi provoca a permanere in uno stato di offerta perché il suo Volto arrivi ad essere esperienza di felicità per tutti gli uomini. Non ho altro desiderio che perdermi in questa fecondità nella quale trovo la mia pienezza di figlia e di donna. Nell'obbedienza a una campana una infinita fecondità».


(da Vita Nostra)
Mercoledì, 16 Marzo 2005 18:01

Vocazione e personalità (Thomas Merton)

Per amare il nostro fratello dobbiamo prima rispettarlo nella sua autentica realtà personale, e non possiamo farlo se non abbiamo noi stessi raggiunto il rispetto per la nostra persona, una personalità matura.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti
 




Ventinovesima parte

Per Colin la nostra congregazione si riaggancia idealmente e spiritualmente alla Chiesa nascente, alla comunità apostolica di Gerusalemme, radunata con Maria, inviata dalla Spirito Santo verso i confini della terra. In “Parole di un fondatore” (42/3), dice: “Noi non prendiamo come modello alcun corpo; non abbiamo che altro modello che la Chiesa nascente, la società di Maria ha cominciato come la Chiesa; bisogna essere come gli apostoli e come quelli che si unirono a loro: cor unum et anima una”.  

Ancora interessate è quanto dice in “Parole di un fondatore” (159): “Quelli che partono per l’Oceania imitino gli apostoli; quelli che restano in Europa imitino la Chiesa primitiva, alla fine dei tempi la Chiesa sarà come nei tempi apostolici” . Il termine apostolato in Colin si rifà alla concezione antica esistente nella chiesa, secondo la quale la vita apostolica prima di essere un compito è una forma di vita, un preciso modo di rapportarsi a Cristo, di imitarlo, di lasciarsi inviare da Lui, a portare la Sua Parola per le vie del mondo. Nell’antica e autentica tradizione della chiesa, nella patristica, nel nascere della vita religiosa: apostolato e apostolico significano l’imitazione del genere di vita degli apostoli e della chiesa primitiva radunata intorno ai dodici. Questo è il concetto che Colin ha recepito, vissuto e proposto. Da dove può aver tratto il padre Colin questa concezione?

Egli aveva in mano ogni giorno il Nuovo Testamento: il gruppo dei dodici intorno a Gesù, il loro invio nel mondo, la loro umiltà di cuore e di anima, il legame tra la comunità apostolica e Maria, tutti temi che egli meditava ed interiorizzava e poi richiamava continuamente ai suoi religiosi. Ma non possiamo neanche escludere un influsso dai contatti avuti con la Trappa e con la Chartreuse.

Quindi probabilmente una concezione nata dal Vangelo e dall’esperienza.
Da questa concezione di vita apostolica cogliamo la tensione a voler riprodurre nel marista la consacrazione delle persone al vangelo come fu vissuta dai dodici apostoli e dai primi discepoli.

Il fondatore vedeva chiarissimo l’innesto della società di Maria nella chiesa nascente, nella chiesa apostolica e pur aderendo fedelmente alla dottrina del servizio petrino nella chiesa universale aveva scelto per connaturalità ed istinto interiore l’ecclesiologia della chiesa nascente radunata ella Pentecoste intorno a Maria, una chiesa piccola, povera, umile.
Padre Colin si collocava dunque nella linea della spiritualità antica dei Padri e della vita religiosa nascente che avevano visto nella chiesa apostolica il modello di ogni altra comunità cristiana. Pur nella fedeltà a Roma Colin recupera questa ecclesiologia e cerca di attuarla nella congregazione e nella missione marista.

La chiesa nascente continua, in quanto movimento missionario, nella società di Maria, i cui membri partono dalla comunione per portare l’annuncio di salvezza.

Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore.

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