I Dossier

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Mercoledì, 07 Dicembre 2005 00:43

Guadagnarsi da vivere (Martin Neyt osb)

Una riflessione sul modo di guadagnarsi da vivere è un invito a una duplice esigenza evangelica. La prima è un appello a prolungare la creazione con il nostro lavoro...

Mercoledì, 02 Novembre 2005 00:57

Davanti a Dio (Sr. Germana Strola o.c.s.o.)

La vita monastica invita ad assumere con coraggiosa pienezza tutto ciò che implica il permanere davanti a Dio: attraversando la complessità del vivere umano in tutte le sue dimensioni, diviene per questo, ma come in sovrappiù, un ministero di intercessione...

Dal primato dello "Spirito"
alla perfezione della carità
di Cipriano Carini, osb


Un documento che non si applica tanto alle opere dei consacrati, ma piuttosto alla loro vita spirituale. È un ritorno al Monachesimo.

Richiede quindi una conversione interiore ben più difficile che una preparazione professionale allo svolgere determinate attività.

A mio parere mette in evidenza due principi molto semplici, ma riassuntivi di tutta la teologia e spiritualità della vita consacrata.

1. Il primato dello "Spirito"

Già nei documenti precedenti ci era stato richiesto di tornare al Vangelo (PC 2), poiché «i religiosi sanno di essere coinvolti in un quotidiano cammino di conversione verso il regno di Dio, che li rende, nella Chiesa e di fronte al mondo, segno capace di attirare, provocando a profonde revisioni di vita e di valori. È questo, senza dubbio, il più atteso e fecondo impegno al quale essi sono chiamati, anche nei campi in cui la comunità cristiana opera per la promozione umana (Promozione umana 18).

E i Lineamenta insistono; basta rileggere il n. 11 che elenca i valori essenziali della nostra vita e richiede come impegno spirituale: la rinuncia al mondo e la scelta radicale di Dio solo, il senso cristocentrico della consacrazione, la dimensione pasquale della consacrazione, la dedicazione totale al servizio del Signore, l'unità di vita nella contemplazione e nell'azione. Aspetti che vengono ripresi più avanti (n. 26.29.44) con proposte molto luminose per superare le ambiguità e le sfide della società moderna, presentando con la nostra vita la libertà vera, l'amore vero, la preghiera vera, la donna vera. «Si deve affermare con realismo la necessità della presenza dei consacrati nella società stessa, come cittadini in questo mondo eppure pellegrini verso la patria. Con i loro carismi e servizi vogliono rendere operante il Vangelo delle beatitudini e delle opere di misericordia», cori attenzione ai giovani, ai poveri, alla cultura, all'umanità intera.

Una presenza che ha le opere, ma al di sotto ha una mentalità evangelica, un'adesione totale a Cristo; non siamo dei professionisti ma degli afferrati da Cristo.

Per questo non si insiste tanto sulle opere da svolgere, bensì sulla vita spirituale da coltivare, esercitandoci nel primato della carità, rinnovandoci quotidianamente alle sorgenti genuine della spiritualità cristiana, nell'assidua lettura, meditazione, contemplazione ed esperienza vissuta della parola di Dio, in un impegno di continua conversione, guardando a Maria come al modello esemplare (cf n. 12).

La consacrazione e la professione pubblica dei voti di castità, povertà e obbedienza, esigono un adeguato stile di vita, autentico nelle sue motivazioni soprannaturali, vero nelle sue esigenze ascetiche, ricco nei diversi aspetti complementari, vissuto all'interno della comunità in una doverosa comunione ed emulazione (cf n. 31b)-

Nient'altro che il primo comandamento preso sul serio.

2. La perfezione della carità

Da qualche decina di anni la richiesta ai religiosi di essere "esperti in comunione" viene ripetuta, anche se in modo diverso, in tutti i documenti ecclesiali.

È un sottofondo costante anche dei Lineamenta che, direttamente o indirettamente, richiamano il titolo del documento conciliare Perfectae caritatis. Siamo quelli che tendono alla perfezione della carità tra gli uomini, sia nei riguardi dell'apertura che questa richiede, sia nella qualità di un dono gratuito che deve avere, e non solo all'interno delle comunità. religiose, ma anche nell'inserimento nella vita della Chiesa, nella storia dell'umanità.

Il primato della carità (n. 12a) parte dalla vita interna degli istituti con «la valorizzazione delle persone più che delle strutture, l'attenzione ai bisogni dei singoli membri della comunità, il senso dell'impegno personale e della corresponsabilità, la comunione reciproca fatta di relazioni interpersonali più mature, semplici, autentiche» (cf n. 266).

Ma la comunione si apre alla vita ecclesiale, anzi all'umanità intera (cf n. 43). «Non si può infatti scegliere Cristo, senza scegliere tutto quello che è suo, la Chiesa e il Regno» (n. 11d). Perfino «i monasteri sono invitati ad offrire, pur conservando la fedeltà al proprio spirito, opportuni aiuti per la preghiera e la vita spirituale agli uomini e alle donne del nostro tempo, specialmente mediante un'appropriata partecipazione alla preghiera liturgica» (n. 20). I richiami sono continui e pressanti. «Una maggiore ecclesialità della vita consacrata, [...] con lo sviluppo di nuovi rapporti di comunione e collaborazione con i chierici e i laici» sembra essere la richiesta più grande che ci viene fatta (n. 26e); «con l'emergere della teologia della Chiesa locale, con la consapevolezza dell'appartenenza della vita consacrata al mistero della Chiesa universale, che si rende presente nella Chiesa locale, sta maturando un nuovo rapporto di presenza e di comunione dei membri, ottenendo una maggiore partecipazione e coscienza di appartenenza alla famiglia diocesana, un inserimento più attivo e specifico nella pastorale» (n. 27a). «Il rinnovamento della vita consacrata si attua con un'intensificazione della comunione e del servizio ecclesiale, secondo il proprio carisma e le nuove necessità della Chiesa e del mondo» (n. 31d).

È un leit motiv che raggiunge nei nn. 38-40 la sua manifestazione più esigente.

Comunione anche con l'umanità, a servizio della promozione dell'uomo, con nuova sensibilità sociale verso gli oppressi e gli emarginati (n. 27d), per andare incontro alle vecchie e nuove povertà (n. 29g), con degli ambiti di lavoro preferenziali (cf n. 44).

È il secondo comandamento che viene messo in risalto.

Non vengono prese in considerazione quindi le attività in se stesse, le opere degli istituti, nemmeno quelle derivanti dalla vita sacerdotale, bensì lo spirito che deve permeare la vita dei consacrati.

Le opere le possono svolgere normalmente anche gli altri: sacerdoti diocesani, laici; lo spirito invece deve essere proprio dei consacrati. Possono fare qualsiasi opera, ma il loro fare sarà fruttuoso se proverrà dallo Spirito.

A mio avviso viene fatta la scelta giusta più esigente e interiore; una scelta che tocca l'anima della consacrazione, più che le derivazioni esterne, le opere che ne derivano.

Alcuni desideri personali nei riguardi dei Lineamenta sono i seguenti:

1. Mettere maggiormente in evidenza l'aspetto profetico della vita consacrata, non solo come segno della vita futura, ma anche nella sua libertà di continuare il profetismo nella Chiesa; lasciamogli la libertà sufficiente di poter dire pane al pane e vino al vino. Sono stati i profeti che hanno annunciato la Parola alla politica e alla gerarchia ecclesiastica. Non tentiamo di ridurre tutto ai numeri del Codice canonico; non possiamo imbrigliare lo Spirito. Libertà profetica non solo per "rinnovare" (nn. 26d.31c), ma anche per creare ex novo (nn. 18f.24).

2. Mettere maggiormente in evidenza (e lavorare perché diventi vita vissuta) tutto quello che unisce piuttosto che quello che divide i vari istituti di vita consacrata; ogni istituto ha un carisma, ma nell’insieme tutti partecipano al carisma della vita consacrata, alla scelta radicale di Dio.

3. Veramente ogni istituto ha un carisma? Mi sembra che occorrerebbe svolgere un’attività di ecumenismo all’interno della vita consacrata: questo porterebbe ad avvicinare (e forse ad unire) molte famiglie religiose, con minor dispendio di energie, persone, economia nello svolgere gli stessi servizi all’umanità; la crisi di vocazioni vuole forse portarci a questo? Se fossimo uniti potremmo rispondere meglio alle necessità, ai problemi, alle urgenze della storia.

Al momento attuale mi sembra che ci sia da aspettarsi dall’assemblea CEI e dal Sinodo dei vescovi una crescita di equilibrio tra difesa del carisma della vita consacrata e un suo inserimento armonico nella vita della Chiesa comunione.


(da Vita Consacrata, 29, 1993/5, 605-608)

Saliti dunque tutti questi gradini dell'umiltà, il monaco giungerà presto a quell'amore di Dio, che quando è perfetto, scaccia il timore.

Il dodicesimo gradino si ha quando il monaco non solo nel cuore, ma anche con lo stesso atteggiamento del corpo, manifesta sempre l’umiltà a chi lo vede.

L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e senza ridere, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole e assennate, senza alzare la voce…

Venerdì, 08 Luglio 2005 00:24

Il coraggio di confrontarsi (Ennio Bianchi)

Dinamismi comunitari inceppati
Il coraggio di confrontarsi
di Ennio Bianchi


 



La parresia, ossia la franchezza, l’apertura e la libertà di parlare, spesso è sopraffatta dalla paura di esporsi. In questo modo ne soffre il dialogo e si rinuncia a costruire insieme quella comunione che è fondamento dello stare insieme come Chiesa e come comunità.

«Se vuoi stare a galla, devi fare il morto» ci diceva in un serissimo corso di esercizi spirituali un dotto e arguto teologo e pastoralista. Il detto (oculatamente tenuto in grande considerazione in molti "palazzi") fotografa molte comunità ecclesiali e di vita consacrata, dove spesso esporsi troppo con le proprie convinzioni genera diffidenza, sospetti, emarginazioni e, per coloro che ci tengono, lo stop alla carriera.

Per questo la tradizione religiosa ha generato un'astuta e accorta prassi, piuttosto frequente nelle comunità cristiane: strategici silenzi, tattici mutismi, conniventi sorrisi, scaltri compromessi. Il tutto, magari, accompagnato da qualche mormorio, ma privato e circospetto e comunque sempre aperto - caso mai lo si venisse a sapere - a multiformi intendimenti e interpretazioni.

Atteggiamenti senz'altro avveduti per stare in linea con le indicazioni "superiori", ma contrari alla parresia biblica. Termine per molti alquanto ostico (e non solo linguisticamente), ma che tradotto connota le doti che dovrebbero essere in gran voga nelle Comunità di Cristo, considerato che nella parola di Dio esso significa franchezza, apertura, libertà di parlare, virtù che sono o dovrebbero essere una caratteristica della Chiesa di Cristo.

VIRTÙ DEL DISCEPOLO DI CRISTO

Un accenno soltanto alla parresia nell'AT, che pure ha pagine formidabili, rivelatrici della libertà e della sincerità che guidano il vero innamorato della verità di Dio. I profeti sono lì a dirci con quale forza e indipendenza di spinto occorre comunicare (in qualsiasi situazione esistenziale e sociale) la parola di Dio e le proprie convinzioni, senza tenere conto delle conseguenze personali, con l'atteggiamento etico dell'uomo libero, afferrato da Dio e che non teme di esporsi pubblicamente, sia nei palazzi del potere politico che nei palazzi del potere religioso. Nei salmi risuona più volte la voce “impertinente” del credente che sì rivolge a Dio per interrogarlo sul suo silenzio, sulla sua sordità alle preghiere, sul suo ritardo a fare giustizia.

Nel NT il termine (vi compare 31 volte) risplende in tutta la sua ricchezza e importanza. Il modello di parresia è Cristo stesso: l'intera sua predicazione è un parlare apertamente, senza sottintesi e fughe nel vago, delle esigenze del Regno, delle distorsioni portate dalle tradizioni alla genuinità e all’originalità della parola di Dio, delle ipocrisie di certi comportamenti, dell’insensibilità alla legge di Dio. Più volte deve intervenire con fermezza per chiarire ai suoi discepoli recalcitranti la natura della sua missione per richiamare senza mezzi termini la necessità della croce. Una vita, quella di Cristo, all'insegna della libertà interiore di proclamare le novità del Regno nella storia dell'uomo.

Ma i vangeli documentano anche il comportamento franco dei discepoli con Gesù, come quando essi - si fai portavoce Pietro - lo rimproverano apertamente per le sue parole che preannunciano la sua morte sulla croce. Ovviamente sbagliano, ma il fatto testimonia la circolazione di una libertà dialettica all'interno del gruppo, che non esita a contestare anche il venerato Maestro.

La Chiesa dei primi tempi respira o adotta - sia verso l'esterno che al suo interno - la parresia di Cristo, i discepoli annunciano con franchezza le opere di Dio, noncuranti delle persecuzioni, delle intimidazioni, consapevoli che non possono tacere le verità apprese. E resta proverbiale e paradigmatico lo scontro a viso aperto tra Paolo e i "conservatori" della religione e morale tradizionali e l'onestà e la schiettezza con le quali il problema è stato trattato e risolto. Inoltre le sue lettere lasciano chiaramente trasparire il dialogo, la schietta circolazione di  idee, ma anche gli scontri e le diatribe, con i membri delle chiese da lui fondate. Un rapporto tra persone libere.  

Franchezza, audacia, coraggio sono tutte espressioni della parresia e soltanto attraverso una sana manifestazione di queste virtù arrivano le novità di Cristo. Tacere, glissare vuol dire restare nel ricevuto, con la comodità e con il timore di chi non vuole essere libero, ma ubbidire passivamente, e di chi si rassegna a non essere portatore di qualcosa di nuovo.

L'ardire del discepolo di Cristo non è superbia, ma consapevolezza umile di essere figlio di Dio e quindi di avere il diritto di stare in piedi di fronte all'uomo e di avere il dovere di comunicare quanto - in coscienza - sì sente di dire per essere fedele a se stesso, in Dio.

Limitiamoci ad alcune brevi considerazioni a partire dal Vaticano II che - come noto - è stato un concilio essenzialmente ecclesiale e che ha messo in risalto l'uguaglianza sostanziale di tutti i battezzati, parlando di popolo di Dio.

VIRTÙ DEL POPOLO DI DIO

Di qui è partita la riflessione teologica che ha evidenziato che la “comunione” è l'idea centrale e fondamentale dei documenti conciliari, con la logica conseguenza che, essendo la Chiesa comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità per tutti i suoi membri.  Condivisione totale che non può esistere senza la comunicazione aperta e il dialogo libero e sincero tra i suoi componenti.

Non fanno certo difetto i documenti del magistero che ribadiscono alcune verità dell'essere popolo di Dio. Le indicazioni sono allettanti - sulla carta - e attendono ancora, in molte comunità ecclesiali e particolarmente religiose, di essere prima conosciute e poi seguite. Ne richiamiamo il senso sintetico globale, ma rivelatore, cogliendolo da vari documenti:

- la comunicazione e il dialogo sono indispensabili per l'efficienza della vita della Chiesa;
- il dialogo e la comunione nella Chiesa richiedono particolare attenzione all'opinione pubblica dentro e fuori della comunità ecclesiale;
- se l'opinione pubblica venisse a mancare mancherebbe qualcosa alla natura della Chiesa;
- i cattolici debbono essere coscienti di avere quella libertà di parola e di espressione che si fonda sul senso della fede e della carità;  
- il libero dialogo non nuoce certamente alla saldezza e unità della Chiesa, anzi favorisce la concordia di intenti e di opere;
- si deve riconoscere - tenendo presente che l'opinione pubblica e il dialogo sono essenziali per la Chiesa - che i fedeli hanno il diritto di ottenere quelle le informazioni indispensabili per affrontare la loro responsabilità nell'ambito della vita ecclesiale.

Le linee generali per una bella e diffusa parresia sono - sulla carta, ripetiamo - tracciate. Attendono ancora, in molti ambiti della vita ecclesiale di essere applicate.

Al riparo della parola di Dio e incoraggiata dal magistero della Chiesa, la parresia dovrebbe dilagare nelle comunità religiose, anche perché tutte ci tengono a fregiarsi della qualifica di "famiglia".

DELLA "FAMIGLIA" RELIGIOSA

Ora nelle famiglie - quelle autentiche - si parla, si dialoga, si discute, magari ci si scontra e ci si arrabbia, ma sempre con l'obiettivo - dichiarato e riconosciuto - di cercare il bene di tutti.

Le parole di Cristo: «Sia il vostro parlare sì, sì, no, no» vogliono pure significare qualcosa: intendono richiamare alla veracità e alla sincerità del dialogo, proclamare che la relazione autentica con Dio e con gli uomini può fondarsi soltanto su una parola e un atteggiamento trasparenti e schietti. La prudenza (niente affatto cristiana) di certi comportamenti rivela il desiderio di non avere fastidi che rovinino la tranquillità esistenziale conquistata dopo anni di presenze defilate nei cantucci della comunità, quando non manifesta il sostanziale vuoto (colpevole perché cercato nel tempo) di proposte da presentare.

Le parole astratte, sfuggenti, prudenti non coinvolgono più di tanto il nostro essere, ci lasciano, psicologicamente e di fatto, ai margini dei problemi e degli interessi reali della comunità: sono chiacchiere che non dicono il significato profondo di quello che sentiamo e viviamo personalmente e che sogniamo per la nostra vita di consacrati. In questo caso nascondiamo sempre qualcosa di noi stessi e quindi ci rifiutiamo di donarci, con le nostre ricchezze e povertà, alla comunità.

Il rinnovamento tanto auspicato della vita consacrata passa anche, e in gran parte, attraverso il coinvolgimento coraggioso e responsabile - anche questo è parresia - di tutti i religiosi nei problemi in discussione. Restare ai margini svela il poco o il nessun interesse reale alla famiglia nella quale si vive e non costruisce una realtà condivisa perché discussa, partecipata, comunicata. La parresia dichiara che i religiosi sono dei credenti nella nobiltà dei figli di Dio e nella libertà interiore che Gesù ha portato. E la sua accettazione da parte di chi è proposto alla comunità esprime il riconoscimento della dignità del discepolo di Cristo e la volontà di condivisione, di revisione, di corresponsabilità. In una parola che il dialogo è l’unica via per edificare una comunità dove non vi siano ostracismi, relegazioni, livelli e gradi più o meno percettibili, ma fratelli, uniti dalla stessa missione di edificare, il meno peggio possibile, la comunità di Cristo.

(da Testimoni, 7, 2004)


Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti


 



Sono anche necessari approfondimento e riflessione su come P. Colin, contro la tendenza dell’epoca, ci presenta Maria.

Per Lui è una “figura ecclesiotipica” un’intuizione dunque precorritrice che ben si accorda con l’attuale riflessione mariologica che osiamo sintetizzare così:

“Maria e la Chiesa: un cosa sola”.

In proposito, i visitatori che vogliono approfondire questo tema, possono visiater la rubrica “spiritualità mariologica” sul portale “Noi Cattolici” (http://www.noicattolici.it) curato dallo stesso autore di queste note.

E' dunque su Maria e sulla Chiesa nascente che si innesta il Carisma marista che possiamo così esplicitare:

“Essere icona di Maria – Essere icona della Chiesa”.

Un carisma, a mio avviso affascinante, che ha bisogno di essere approfondito e calato nella realtà dell’oggi, nella vita apostolica e nel servizio ecclesiale e di tutti e tutte coloro che in qualche modo si rifanno alle intuizioni del P. Colin.

Ovviamente l’intuizione Coliniana è esistenziale ed ha bisogno di percorsi formativi che debbono tuttavia essere studiati, ovviamente proposti, offrendo poi anche degli accompagnamenti.

Una spiritualità per le sfide odierne
di Rino Cozza csj

 

Nel tentativo di uscire dalla situazione di insignificanza stanno moltiplicandosi i convegni sul tema della spiritualità che sembrano voler dire che la crisi della spiritualità è la principale causa dei tempi difficili della vita religiosa (VR).

Il fatto pone degli interrogativi. La ricerca di spiritualità è certamente determinante, infatti la fortuna delle nuove forme di vita evangelica è data prevalentemente dalla spiritualità trasparentemente perseguita, e riscontrabile in un particolare stile di vita. Però è altrettanto vero che la spiritualità nella VR è quella cosa che non può non esserci ma non è sufficiente che ci sia: è il denominatore comune di ogni forma di vita evangelica e non l'elemento differenziatore della VR che è definita anche da un insieme di tanti elementi costitutivi, comunitari e culturali.

Certamente la scelta necessaria - e oggi l'unica possibile - è quella di passare dalla prevalente pastorale dei servizi (sociali o religiosi) alla pastorale della spiritualità. Ma il discorso sulla spiritualità non è nuovo nella vita religiosa, allora la domanda da farsi è: come mai rimane muta per le nuove generazioni? Evidentemente il termine "spiritualità" nella vita religiosa esige una faticosa riacculturazione che parte dall'accettare la transitorietà delle forme di altri tempi. Spirituale era detto di chi aveva espressioni religiose, atteggiamenti pii, vita ascetica, nel significato di austera, rigorosa, lontana dai problemi della vita. Era una spiritualità percorsa da una vena di individualismo che dava rilevanza alla meditazione e agli esercizi di pietà personali, anche se fatti comunitariamente. Spiritualità oggi è quella di chi, "nutrito di Parola e liturgia, di contemplazione e discernimento, di profezia e attesa, di passione per Dio e passione per l'uomo", sa dare risposte valide all'attuale domanda di senso e sa produrre nuovi modelli di comportamento e nuove forme comunitarie a partire dalla vita e per la vita.

Si dice che i giovani, anche i più vicini, sono assenti dalle tradizionali forme: è la dimostrazione che ogni spiritualità corrisponde a un momento storico fuori del quale perde la forza significativa. Sono serviti certi canti; le lunghe cerimonie e le forme di pietà popolare, le rogazioni, i settenari, e persino l'estetismo religioso... ma oggi questo non è appellante. È vero che una percentuale di vocazioni attuali proviene dal bisogno di questo tipo di spiritualità per cui alcuni formatori traggono spunto per scelte su questa linea, ma altri, i più, vi si riferiscono per dire che la fragilità di molte vocazioni è data appunto dal ritrovarsi in questo tipo di spiritualità.

Capace di produrre stili di vita

Spiritualità significa vita (nello Spirito) tale da far vedere o almeno da far intuire la presenza o il fare di Cristo che salva. A tal fine non è più sufficiente una spiritualità "da religiosi" ma una spiritualità all'altezza delle sfide odierne, ricca di prospettiva laicale sempre più rivalutata nell'attuale sensibilità ecclesiale; spiritualità capace di produrre stili di vita e non soltanto pratiche di pietà, che siano risposta ai bisogni del mondo; spiritualità in cui il rapporto con Dio, da esperienza prevalentemente individuale sia esperienza che passa attraverso un rapporto con le persone perchè proprio la comunione fraterna sarà l'elemento peculiare della spiritualità di domani.

Per tornare da dove eravamo partiti, si può dire che il ricorrere del tema della spiritualità all'interno della VR è dovuto alla percezione dello scarto appunto di spiritualità significante, esistente tra gli antichi e i nuovi carismi.

Detto questo però c'è da aggiungere che la debolezza di forza comunicativa della attuale VR è da ricercarsi - in misura non inferiore - anche in un altro tipo di difficoltà che provengono sia dall'interno che dall'esterno di essa. Già si è molto parlato delle difficoltà che derivano dall'interno che sono: scarsità e defezioni di religiosi/e giovani, peso delle strutture, mancanza della generazione di mezzo, modi e tempi di vita cadenzati dagli anziani/e, tradizioni culturali e modelli di spiritualità obsoleti. Ma ciò che è nuovo sono le prospettive teologiche che vengono dall'esterno. Fino a qualche anno fa a riflettere sulla vita religiosa erano quasi unicamente teologi religiosi, ora invece l'esplorazione su questo versante è diventata propria anche di vari studiosi di area diocesana o laicale che in numero sempre maggiore portano a teorizzazioni diverse da quelle cui siamo abituati. Un esempio di ciò I'abbiamo avuto all'assemblea annuale Cism 2003, nell'intervento del teologo Giacomo Canobbio, dove argomentò sulla necessità o meno di una forma di vita cristiana (quella consacrata) affinché ci sia la Chiesa. "Affermare che la vita consacrata (VC) ha origine divina - disse mons. Canobbio - non vuoI ancora dire che appartiene necessariamente all'essenza della Chiesa. Si dovrebbe mostrare che l'origine divina coincide in tutto e per tutto con l'intenzione del Fondatore (Cristo)". "Essa può appartenere a una figura particolare di Chiesa, ma non è necessaria affinché si dia Chiesa anche perché di fatto questa si realizza in alcuni luoghi e si è realizzata in alcuni tempi, senza la VC". Qualcuno in questo argomentare può vedervi uno sconfinamento per parte di alcuni teologi estranei, altri invece vedono un dislocamento, cioè un guardare da fuori per ovviare ai condizionamenti delle precomprensioni.

E i pastori delle Chiese locali come vedono la VR ? Ci sono i vescovi religiosi che in maggior numero sono sintonizzati con il pensiero teologico che è stato all'origine della loro vocazione. Ci sono poi coloro, specie di area non europea, i quali dicono che in questi trent'anni la quasi totalità delle congregazioni diocesane hanno avuto come promotori i vescovi, il che li porterebbe a dire che questi sono sensibili ai valori della tradizionale vita religiosa. Ma qui sorge qualche dubbio, non fosse altro per il fatto che a fronte di bisogni diocesani, in alcune aree, si è soliti far fronte con l'intervento di un "conveniente" istituto religioso che, se non lo si trova, si crea al fine di un servizio e non necessariamente di una spiritualità. Penso però che la maggior parte dei vescovi si ritrovi nella risposta di un ordinario il quale, alla domanda se conoscesse quanto detto nell'esortazione Vita consecrata dove si dice che "ai vescovi è chiesto di accogliere e stimare i carismi della VC dando loro spazio nei progetti della pastorale diocesana" (VC 48), rispose che, per quanto gli constava, nelle chiese locali c'è interesse per le forme di vita evangelica di cui la vita religiosa è una delle espressioni, però oggi l'attenzione non è sulle etichette e sulle omologazioni ma sulle evidenze evangeliche che tali si definiscono dalla vita in atto più che da riconoscimenti giuridici.

Il papa ai vescovi francesi (18.12.2003) ebbe a dire che "le nuove comunità possiedono una audacia che talvolta manca agli istituti che vivono da più tempo", "attardate nella storia più che presenti alla vita". Tutto ciò sta a dire - conclude l'ordinario - che le auto-proclamazioni di vita migliore, più santa, non bastano più: tiene soltanto ciò che si vede: "vieni e vedrai".

Occorre un altro tasso di creatività

Dunque, alla domanda perché la vita religiosa? non è più possibile rispondere con definizioni teologiche in un tempo in cui le forme di vita evangelica rispondono con la vita. La sequela se non è un fatto riscontrabile oggi come buona notizia è soltanto teoria. Da qui l'urgenza di por mano decisamente alle fondamenta della vita religiosa vale a dire al sistema culturale che l'ha finora caratterizzata, aprendosi a nuovi orizzonti di senso, consapevoli che la VR è sempre un progetto contestualizzato e questo è l'unico modo che le è dato "per essere a casa nel tempo". (Radcliffe )

Al presente la prima presa d'atto è che stiamo transitando a un altro modo di essere e di agire. Uno dei maggiori studiosi della società contemporanea - Zygmunt Bauman - dice che siamo passati irreversibilmente dalla "modernità solida " cioè quella fissata su organizzazioni, classi, ruoli, riferimenti stabili, alla "modernità fluida" vale a dire della società delle reti, dei flussi, dell'incertezza, della non prevedibilità. Le impalcature sociali in cui inscriviamo i nostri progetti di vita e le nostre speranze per il futuro sono diventate improvvisamente fragili. Possono spezzarsi in qualsiasi argomento, mutano molto più in fretta di quanto non riusciamo ad apprendere e gestire. Se questa è la situazione, per poter progettare e vivere nell'attuale società è necessario un alto tasso di creatività che però "non si trova nei religiosi/e e tuttavia è indispensabile per incarnarsi nei contesti concreti in cui tocca di rivivere" (Santiago Silva). In ciò è da leggersi "la povertà radicale che segna il momento presente della VC". Eppure la creatività non le è estranea, "è stata alla base di ogni nuova forma di vita consacrata: ad esempio Ignazio di Loyola non accondiscese di sottomettere il carisma di una vita apostolica alle esigenze del coro della vita monastica" (B. Bucker). E così pure "nessuno dei nostri istituti ebbe origine per essere la continuità di una situazione statica. La creatività non esige che si rinunci all'eredità ricevuta, ma che crei, a partire da quella, qualcosa di nuovo e di inedito" (T. J. Rasera).

Per la creatività si tratta di proporre nuovi tavoli di pensiero, di concertazione e di governo, che sappiano mettere più interesse nell'inventare risposte che nel ripetere formule. Quelli attuali (consulte, capitoli, consigli, ecc. ) non sono sufficienti anche se un certo tipo di soddisfazioni le danno perché quanto meno sanno riverniciare di buone intenzioni tutto l'apparato, ma non hanno la capacità o non sono nella possibilità di mettersi alla ricerca di nuovi pozzi piuttosto che attardarsi "al pozzo lasciato in eredità dal nostro padre Giacobbe". Il tema della creatività è stato quello maggiormente ricorrente nel recente congresso internazionale di Roma. Molte espressioni ne evidenziano la sete: "Oggi più che mai abbiamo bisogno di inventare, rinnovare e avanzare liberi"; "Non impegnatevi nel continuare a offrire risposte preconfezionate che ormai sono superate. Abbandonate il vostro mondo di realtà virtuali. Non evitate le strade pericolose, perché la novità emerge sempre fuori dai luoghi sicuri protetti e convenzionali".

Da queste espressioni si coglie che il bisogno di orizzonti più vasti ha a che vedere sia con il senso della VC, sia con il modo di realizzarla. In quanto alla prima, durante il congresso è risuonata forte la voce di una relatrice: "Rallegratevi se siete rimasti senza parole significative per definire la vostra identità. Ci sentiamo stanchi di parole senza significato, abbiamo raggiunto un punto di saturazione quanto a dichiarazioni, documenti e teorie sul carattere specifico della nostra identità, quando la cosa importante non è ciò che proclamiamo, ma quello che viviamo" (Dolores Aleixandre),

Un obiettivo irrinunciabile su cui investire la creatività è sul bisogno che ha la VR di relazioni nuove. Finora come istituti abbiamo sempre evidenziato ciò che ci rendeva diversi dai cristiani e a forza di rafforzare le diversità ci siamo resi estranei; oggi è necessario evidenziare ciò che è dono ai cristiani: "quando rinuncerete a definirvi per comparazione con gli altri emergerà la parte più autentica che è in voi", consapevoli che la differenza tra il nostro e ogni altra forma di impegno non risiede in ciò che produce ma in ciò che in esso traspare.

Quanto al secondo, vale a dire il modo di realizzarla, si sono espressi in molti: la forma con cui "essa si esprime oggi, è debole nella forza comunicativa, arretrata rispetto alle sensibilità culturali, ricalcata su altri mondi culturali ormai obsoleti. È quindi necessario un deciso aggiornamento di paradigmi e di presentazione dei grandi valori quali i voti, la comunità, la testimonianza, l'antropologia, la visione della vita, il senso dei beni e religiosità della vita, l'affettività, la corporeità, la dignità della persona, le esigenze di corresponsabilità" (Secondin). Tutto questo esprime il bisogno di uscire dal nostro piccolo mondo antico per poter "dar vita a strutture mentali, spirituali, affettive, religiose e organizzative semplici, accoglienti, poco pesanti e aperte".

Il male sottile di cui soffre I'attuale forma di vita religiosa è I'insignificanza, per cui se vuole esserci nel futuro ha bisogno di evidenze comprensibili al giovane contemporaneo, tali da indurlo a impegnarvi la vita. Il problema maggiore dunque è quello di ridarle significato in contesto diverso dal tempo in cui è nata, i cui consueti segni non dicono più ciò per cui sono stati detti.

So bene che secondo alcuni la vita consacrata non sarà mai capita, perché - dicono - appartiene ad un mondo differente e si fonda su una esperienza trascendente che in pochi sanno apprezzare e interpretare. Costoro amano insistere sulla nota di mistero per cui deve conservare la sua irriducibilità, fino al paradosso. Non penso però che la VR abbia la funzione di conservare il mistero quanto piuttosto, quello di rivelare una buona notizia.

(da Testimoni, n. 5, 2005)

Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la voce". (RB 7, 59)

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