Vita nello Spirito

Venerdì, 03 Giugno 2005 01:18

Ascolto e comunicazione tra le generazioni (Giovanni Dalpiaz)

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Ascolto e comunicazione
tra le generazioni
di Giovanni Dalpiaz


 




Il monachesimo italiano sta attraversando un passaggio molto difficile: le nuove vocazioni, presenti anche se in numero piuttosto basso, sono insufficienti ad assicurare il ricambio generazionale e ciò, tra le altre conseguenze, indebolirà ancor più la già esigua presenza territoriale. La crisi è in parte occultata dal prolungamento dell’età di vita. Di conseguenza i nostri monasteri hanno sì ancora monaci, ma sempre più anziani.

La distanza generazionale concorre ad accrescere le differenze nei codici comunicativi, come è frequente osservare in quella fase molto particolare della vita comunitaria che è l'accoglienza e l'inserimento di una nuova persona. È in tale passaggio che tutti gli «attori» della relazione sono costretti ad esplicitare i rispettivi «codici», le motivazioni, le aspettative sottese alla comunicazione, sperimentando le possibilità di un dialogo o constatando un'afasia reIazionale, quando ci si parla senza però comprendersi, poiché i linguaggi sono ormai irrimediabilmente distanti. Ne è tipico esempio la domanda che penso ciascuno di noi si sia sentito rivolgere neI visitare i monasteri femminili: «Ci sarebbe qualche brava giovane da indirizzare qui? Verso quali ambienti, gruppi, movimenti, ecc... ci si potrebbe orientare per riuscire ad incontrare giovani interessate alla nostra proposta di vita?». Ma la brava giovane che ha in testa la nostra interlocutrice non corrisponde, se non molto vagamente, alla brava giovane che ci può essere in giro oggi, perché lei ha in mente la «brava giovane» di cinquant'anni fa, e le due immagini non sono sovrapponibili, anche se per designarle usiamo gli stessi termini.

Chi sono, cosa domandano i giovani e, più in generale, coloro che si avvicinano alla vita religiosa? È iniziando a cercare risposte a questi interrogativi che si dipana una maggior comprensione di quel nodo di reciproche aspettative, motivazioni, atteggiamenti, al fine di verificare se quello che loro cercano/domandano è quanto noi possiamo/sappiamo proporre. Perché se venti o trent'anni non sono un lungo periodo, quando li si misuri sulla scala del cambiamento generazionale segnano invece un distanziamento molto più ampio e marcato in termini di mutamento negli stili di vita, negli orientamenti di valore, nei modelli culturali.

Le ricerche condotte sui giovani religiosi ci documentano come rispetto a 20-30 anni fa l'atteggiamento di coloro che chiedono di entrare in una comunità religiosa sia molto più caratterizzato da elementi di «realizzazione», intendendo realizzazione di sé, ma anche realizzazione in termini di chiamata del Signore per me, realizzazione di un'intuizione spirituale e così via. Sono invece molto meno presenti le tematiche del distacco, spogliamento, abbandono. Potremo dire, schematizzando il nostro discorso, che si entra nella vita religiosa non per rinunciare a qualche cosa, ma per trovare qualche cosa; e già qui si rileva un primo profondo divario nei codici culturali.

L'orientamento all' autorealizzazione, così tipico dell' odierna cultura giovanile, viene per tal via ad affacciarsi all'interno delle comunità religiose. Esso si inserisce, o forse più precisamente s'insinua, come elemento di non facile integrazione, perché, nel codice valoriale sotteso alle Costituzioni, ai modi di pensare, alle esortazioni, ai modelli di santità tipici del lessico della vita monastica così come è intesa nei nostri ambienti, l'autorealizzazione non compare come valore da promuovere e tutelare. Anzi, già il richiamo al sé, alla valorizzazione delle doti personali viene percepito come rischio, elemento potenzialmente fuorviante da una corretta vita religiosa, la quale si caratterizza come estroversa, orientata all'altro, alla comunità, alla chiesa, e così via.

Un atteggiamento dell'animo più che un comportamento di facile individuazione. Vi è chi lo esprime attraverso forti istanze di spiritualità, in un quadro di grande idealità e profonda radicalità, o chi cerca nella comunità uno spazio per dare ordine e senso alle molteplici e talora dispersive esperienze vissute. In ogni caso, sia che si cerchi un luogo dove condurre una propria ricerca spirituale oppure un ambiente che dia risposta ad un proprio bisogno di senso e pace, quello che viene in evidenza è la centralità della ricerca di realizzazione personale. Ciò significa che il punto di vista del soggetto è quello determinante, per cui i vari passaggi ed impegni, incluse le rinunce e i cambiamenti implicati dal passaggio alla vita religiosa, tendono ad essere interpretati e vissuti da questa angolatura. Ovviamente questo non vale solo per la vita religiosa: troviamo la stessa cosa nella famiglia, nelle scelte professionali, e così via. Ne vengono alcune conseguenze, alle quali brevemente accenno.

In primo luogo, una scelta non è «per sempre», o meglio il per sempre è un auspicio implicito, ma non una certezza fondante il principio. Quindi noi corriamo il rischio di dire: «È per sempre che tu vieni?» e tutti rispondono: «Sì!»; solamente che per noi questo diventa un dato di fatto da cui si parte per realizzare la formazione spirituale e l'inserimento in comunità, mentre per interlocutore diventa un auspicio, come dire: «Spero che sia per sempre, ma, se poi lo sarà veramente, te lo dirò tra qualche anno». Sarà il permanere, o il venir meno, delle condizioni iniziali, come insieme di aspettative e motivazioni in base alle quali la persona si orienta alla vita monastica, che realizzerà la continuità dell'impegno, o l'interruzione dell'esperienza. Il fatto di porre all'inizio del processo di inserimento in comunità un insieme di attese legate ad una certa idea di realizzazione personale rende più difficile attuare in modo pieno (senza se e senza ma!) quell'affidamento, psicologico e spirituale, che è condizione indispensabile per giungere ad un'appartenenza stabile ed irreversibile.

Se si pongono condizioni, sulla cui realizzazione la persona si riserva una propria autonoma ed insindacabile valutazione, è facile che si attui un'appartenenza a due livelli: formalmente totale, ma di fatto circoscritta e vissuta con una sempre disponibile opzione di revoca degli impegni assunti. S'inserisce pertanto nella relazione comunitaria un elemento di instabilità, che può restare latente - o emergere improvvisamente anche dopo la professione solenne o l'ordinazione presbiterale - quando le esigenze della vita comunitaria non siano più eludibili. Ad una più immediata e netta percezione della distanza tra istanze soggettive ed impegni delle relazioni comunitarie, in molti casi fa da schermo il fatto che le richieste abbiano contenuti in sé positivi o evangelicamente ispirati, solo che possono muoversi verso progetti di impegno e testimonianza sui quali la comunità non sa o non intende impegnarsi. Non basta che una scelta o un orientamento sia buono in se stesso perché la sua realizzazione sia possibile o più semplicemente opportuna.

Secondo aspetto: l'appartenenza ad una istituzione religiosa non segna più una rottura radicale, una discontinuità rispetto alle esperienze precedenti. Più che una morte/rinascita, è uno sviluppo, una evoluzione di potenzialità. C'è quindi una «riserva» del soggetto che solo raramente emerge in tutta la sua limpidezza. Comprendiamo allora come rispetto al passato vi sia una minore disponibilità a lasciarsi plasmare e uniformare dall'istituzione, mettendo tra parentesi (o rimuovendo) quelle inclinazioni, spinte emotive, desideri che, pur importanti nell'identità della persona, risultino disarmonici rispetto ai valori, ai comportamenti, agli stili di vita presenti in comunità. Questo vuoI dire che, se è posto di fronte alla scelta tra la fedeltà a quella parte della propria identità percepita come positiva (essere autentico) e la necessità di uniformarsi alle esigenze di un'appartenenza istituzionale, l'opzione è per l'autenticità e quindi la rottura della comunicazione con l'istituzione: «Quando non intendo trasformarmi ti lascio parlare, tanto, comunque, io continuo a coltivare le mie idee». C'è in un simile atteggiamento il rischio molto concreto di una deriva narcisistica, anche se nello stesso tempo è doveroso riconoscervi l'istanza per un più sincero rispetto della persona.

Nella domanda di autenticità, che abbiamo rilevato come una richiesta di non andare contro l'identità profonda di sé, si esprime la consapevolezza che esiste in ciascuno di noi un nucleo originario ricevuto, che debbo scoprire, accogliere e portare a compimento, e non posso (ed oggi sempre più spesso non intendo) rimuovere, cancellare, per sostituire con un'identità «istituzionalmente» corretta. Allora qui, mi pare, c'è un punto molto importante nel dialogo tra nuove generazioni e istituzioni: perché le nostre strutture religiose, penso anche i monasteri, sono istituzioni tendenzialmente rigide a motivo dell'età, del peso attribuito alla tradizione nel definire i comportamenti e gli stili di vita, degli stessi ambienti architettonici così carichi di storia, ma anche ormai così sproporzionati alle esigenze relazionali di comunità piccole, con poche risorse umane. Per questo tipo di istituzioni la spinta all'autenticità è vissuta come una minaccia ed è quindi fonte di tensione e fraintendimenti, primo fra tutti il fatto che accettare l'autenticità sia un lasciare andare verso la spontaneità delle pulsioni e delle emozioni.

Ma autenticità è ricerca, spesso faticosa e sofferta, di un confronto con le proprie potenzialità e i propri limiti, impegno ad una riflessione seria su di sé, ad un serrato confronto con le vischiosità e le debolezze della realtà. E questo è un tratto estremamente importante nelle nuove generazioni. Una comunità che non teme il dialogo dovrebbe, oppure più semplicemente potrebbe, accogliere la sfida che si esprime nel desiderio di autenticità, integrando lo nel vissuto delle proprie relazioni interne, nella ricerca spirituale, portandolo cioè all'apertura verso l'alterità per non rischiare l'implosione o il ripiegamento narcisistico su se stessa.

Un ulteriore aspetto che la cultura giovanile evidenzia, capace di interferire profondamente nella relazione con la comunità religiosa, è l'importanza attribuita alla dimensione comunicativa, cioè il parlarsi è valore fondante la relazione, indipendentemente dai contenuti che si trasmettono. Se voi guardate i giovani quando si ritrovano insieme, li vedete intenti a parlarsi; se poi vi avvicinate ad ascoltarli, vi accorgerete che i contenuti dei loro discorsi sono piuttosto banali, inconsistenti, perché non è importante quel che dici, ma che ci sia qualcuno con cui tu puoi parlare. Ciò significa che in una comunità religiosa si cercano persone con le quali stabilire un dialogo intrattenere rapporti positivi in un clima confortevole, accogliente, sgombro da conflitti e tensioni. Tutto ciò avviene in un contesto sociale nel quale aumenta tra le generazioni, anche tra quelle contigue, la diversità culturale e quindi la distanza.

L'incontro pertanto con le nuove vocazioni si muove tra due tensioni di segno opposto: da un lato, c'è la domanda di comunicazione assunta come valore in se stesso positivo, al di là dei con tenuti trasmessi, perché si esiste nella misura in cui si scambiano messaggi; dall' altro, cresce il distacco tra le generazioni e quindi diminuiscono gli spazi per il dialogo. Si aggiunga poi la diffusa esperienza del cambiamento sociale e culturale che porta a relativizzare codici comportamentali e contenuti normativi. Difficile (anche se non impossibile) che in un simile contesto la comunicazione diventi relazione e si vada oltre un generico rumore di fondo, un parlare stereotipato. Ne è riprova il fatto che, quando ci si avventura su temi che la persona non intende affrontare perché ritenuti troppo impegnativi o capaci di mettere in discussione sicurezze intellettuali o spirituali alle quali non s'intende rinunciare, allora la debolezza della comunicazione si palesa in tutta la sua realtà: il messaggio viene, per così dire, «rimosso», allontanato da sé con un leggero, quasi confidenziale, gesto di fastidio.

Nello specifico degli Istituti religiosi la comunicazione con il mondo giovanile si muove in un contesto reso difficile dalla scarsità delle vocazioni. Ciò non solo accresce la distanza tra le generazioni, come si è già ricordato, ma concorre a rendere «prezioso» il giovane che si affacci al monastero, specie se intenzionato a restarvi. Ad esso si applicano i criteri che in famiglia si accompagnano alla cura del figlio unico, al quale tutto è permesso purché non lasci soli i genitori e non li abbandoni, specie se anziani. Allora la comunicazione, da dialogo che coinvolge e può mettere in discussione ambedue le parti, diviene prassi contrattuale, con definizione degli ambiti del «privato» e del «comunitario». I mondi rimangono intimamente distanti e la comunicazione non diviene una relazione che modifica nel profondo, un impegno a tessere rapporti interpersonali, comunitari, ma definizione funzionale di regole del gioco in funzione del perseguimento di alcune attività condivise.

L'orizzonte che in tal modo si delinea è, quando riesce bene, quello di un gruppo efficiente, secondo le regole dell'agire sociale, ma con un debole senso di appartenenza comunitaria. La comunità monastica ambisce ad essere realtà che plasma l'identità psicologica e spirituale della persona. Le relazioni che vi si instaurano non sono solo osservanza di norme che delineano un «pubblico» ed un «privato», un permesso ed un vietato, ma vorrebbero essere testimonianza di uno stile di vita e di un linguaggio espressivo che riconosce affinità spirituali, si apre alla condivisione, crea koinonia. Sta qui il fascino con il quale si guarda alle nostre comunità: la nostalgia (o la profezia?) di relazioni interpersonali che non siano unicamente strumentali, ma attestino compassione, accoglienza, gratuità, in quanto scaturiscono da una quotidiana frequentazione dell'evangelo. Solo nel riconoscimento di una incondizionata fedeltà alla Parola di Dio, alla quale ognuno accetta di sottomettersi, la comunità monastica trova il codice comunicativo più adeguato per costruire rapporti interpersonali non effimeri. Diversi per età, carattere, sensibilità culturale, i monaci eviteranno una unità solo funzionale, costruita attorno ad un patteggiamento definitorio di quanto attiene al soggetto e di quanto invece spetta al comunitario, solo se sapranno riconoscere nella fede in Gesù l'elemento che radicalmente li unisce, permettendo loro di scambiarsi simboli e parole apportatrici di senso.


Letto 2769 volte Ultima modifica il Giovedì, 20 Ottobre 2005 01:57
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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