Emigrazione è una parola, che un paese come l'Italia ha ben conosciuto e che continua a conoscere nei suoi giovani e nelle terre meridionali. Ci sono canzoni e racconti a ricordare il dramma e le speranze legate a queste partenze, provocate da una situazione economica disastrosa. Da qualche decennio il nostro paese si è ritrovato a misurarsi con il grande fenomeno dell'immigrazione, che per un verso costituisce un vero affare, ma che dall'altro alimenta paure, rifiuto, xenofobia.
Le recenti leggi emanate dal Parlamento italiano in tema di immigrazione stanno a testimoniare questa incapacità culturale, spirituale e politica, che impedisce di guardare a questo fenomeno con uno sguardo più lungimirante. Clandestino e migrante nel linguaggio della politica ed anche in quello corrente sono diventati sempre più sinonimi, per cui il modo migliore per governare questo fenomeno diventa giocoforza quello di aprire la guerra contro tutti i barconi carichi di "clandestini", che vengono ad insidiare la sicurezza del nostro paese.
E per bagaglio il proprio corpo
Tra i tanti barconi che lasciano le coste africane per raggiungere un lembo di Europa qualcheduno non ce la fa e resta ingoiato dal mare. Dinanzi all'ennesimo naufragio che coinvolge ben 200 persone il giornalista Camon fa la seguente riflessione:
«Si faceva credere a noi che arrivasse un'umanità pericolosa e non integrabile, una minaccia per il decoro del nostro benessere. Scattava l'istinto di tenerli alla larga. Questa strage di 200 persone, uomini, donne e bambini, annegati in un crudele gioco di su e giù sulle onde di tre metri, ci butta in faccia una verità brutale. Ora sappiamo che non scappano da una vita misera. Scappano dalla morte e attraversano la morte pur di scappare. Affrontano una navigazione che assomiglia ad un lungo tuffo nel buio tra acqua e cielo. Spesso il motore si rompe, [...] ed è la morte lenta. Noi pensavamo che le loro partenze notturne, via una barca sotto un'altra, fossero una sfida a noi, alla polizia, alla finanza: una questione di ordine pubblico. Per loro sono una sfida al destino, una lotta tra la vita e la morte. L'Italia e l'Europa ci mettono la forza delle leggi e dei trattati per non farli venire qui, ma loro ci mettono la forza della disperazione per venire. Questo è il vero scontro!». (1)
Il volto dell'immigrato, con il suo carico di avventure, sfruttamenti, rifiuti, ma anche di speranze, trattenute nel proprio intimo, costituisce davvero la figura del povero in assoluto. Si potrebbe dire che non c'è povero più povero di lui. Egli è uno sradicato, senza legami né con la sua terra, né col suo popolo, non porta con sé nient'altro che il proprio corpo, si ritrova in balia della volontà di altri, di cui spesso non capisce la lingua. Chi decide di tentare l'avventura sa di mettersi nelle mani di persone senza scrupoli, che potranno fare di lui quello che vogliono. Potrà essere imprigionato, torturato, sfruttato, lasciato anche morire. Eppure sono in tanti a partire, così tanti da diventare un incubo per paesi privilegiati come l'Italia e l'Europa intera.
L'esserci del povero: un atto di denuncia di fronte al disinteresse dei ricchi
Il povero si contraddistingue essenzialmente per essere una persona senza alcun potere, eppure la sua presenza disturba, inquieta, mette paura. Perché tutto questo? È quanto mai significativo il modo di rispondere delle varie comunità urbane alla presenza tra loro di gruppi appartenenti al popolo dei "rom", da sempre percepiti come eterni stranieri e causa di tutti i mali della società. In tempo di crisi economica e sociale sono proprio i poveri, come i "rom", gli immigrati, i barboni a diventare il capro espiatorio, su cui ogni governo tende a scaricare il bisogno di rassicuramento, che si alza da parte dei ben-abbienti.
Prima di diventare una guerra aperta contro i poveri, la prima risposta consiste soprattutto nel renderli invisibili, confinandoli ai margini ed evitando di essere oggetto di informazione, ma in tempi di crisi possono tornare utili per calmare una società diventata troppo ansiosa. Una cosa è certa: i poveri ci sono, ma le risposte che si danno denunciano una voluta incapacità della società di mettere in crisi il proprio modello di convivenza e di sviluppo economico.
La presenza del povero, il suo "esserci" costituisce un vero atto politico, in quanto diventa una chiara denuncia di una società, che invece di essere attenta ai diritti ed ai bisogni di ogni persona, preferisce mettere in moto meccanismi di competizione e di esclusione. Il santo martire Oscar Romero diceva in una sua omelia: «Come sono tremendi i profeti quando denunciano coloro che aggiungono casa a casa o che accumulano terreni e si appropriano di tutto il paese. [...] L'esistenza della povertà come carenza del necessario è una denuncia. Ed i poveri sono il grido costante che denuncia non solo l'ingiustizia sociale, ma anche la poca generosità della nostra Chiesa». (2)
Lazzaro, il povero non visto dalla miopia del ricco (Lc 16,19-31)
Il mondo inesorabilmente tende a dividersi in poveri e in ricchi e di tutto questo l'evangelista Luca è quanto mai consapevole. C'è spazio, allora, per poter vivere una vita che possa dirsi realmente cristiana, vissuta in obbedienza al Vangelo? Luca apre il c. XVI con il racconto dell'amministratore infedele, che, avendo sperperato i beni del padrone e avendo ricevuto l'ordine di dar conto della sua amministrazione, non trova di meglio che farsi degli amici con la ricchezza del padrone. Dopo questo racconto Luca fa seguire la parabola di Lazzaro, il povero, e del ricco epulone.
La condizione di Lazzaro è davvero drammatica, perché, a dispetto del nome che significa "Dio aiuta", è talmente povero da doversi accontentare di «bramare di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco». Questa povertà estrema, invece di spingere Lazzaro a rintanarsi in un angolo non visibile, lo porta ad esporsi, fissando la sua dimora presso la porta del ricco.
La parabola si limita a dirci che questo povero stava gettato presso l'entrata della casa del ricco e dalla sua bocca non usciva nessuna parola, che potesse avere il sapore dell'insolenza. Lazzaro con il suo semplice stare presso quella porta dà l'impressione di essere un fantasma, che si staglia sullo sfondo della tavola imbandita dal ricco e che rende quanto mai offuscata la gioia di quel banchetto.
Il ricco della parabola, paradossalmente, si mostra un po' più umano rispetto alla nostra realtà di oggi. Abituati come siamo a parole come "respingimento", "espulsione", "allontanamento" siamo costretti a dover prendere atto che questo ricco, da una parte, non riesce ad accorgersi della presenza di Lazzaro, ma, dall'altra, non compie nessun gesto per scacciare questo povero, che continuando a stare davanti alla sua porta, deturpa violentemente la facciata della sua casa.
In questo modo Luca ci fornisce le coordinate per definire il rapporto tra la nostra ricchezza di paesi cosiddetti "sviluppati" e la povertà degli esclusi della terra. La pura e semplice permanenza di Lazzaro alla porta del ricco costituisce un vero giudizio, che Dio porta sul ricco, perché una vita impostata in questo modo significa scavare un abisso sempre più infernale, che invece di esaltare la vita, mortifica l'innata vocazione ad essere sempre più "umani". Nell'abisso della sua solitudine l'uomo ricco scopre di aver bisogno dell'altro, di avere sete di relazione, perché una vita senza relazione è una vita svuotata di senso e proprio per questo è una vita senza futuro.
Il grido impercettibile del povero: profezia di un futuro inaspettato
Nella parabola di Luca Lazzaro non è soltanto un povero che ha fame, ma è soprattutto un desiderio, che non riceve nessuna considerazione dalla parte del ricco. Si tratta di un desiderio che ha solo la pretesa di potersi sfamare delle briciole che cadono dalla tavola del ricco, ma questo desiderio non trova alcuna accoglienza dalla parte del ricco. Così Lazzaro è povero, perché è un affamato, ma lo è ancora di più perché il suo desiderio, il suo anelito a vivere non riceve alcuna considerazione dalla parte del ricco. Egli è soltanto un esubero, una presenza inutile, uno senza speranza, un semplice fallito.
Con la sua fine ironia l'evangelista Luca fa notare che Lazzaro, il povero, che giace affamato alla porta del ricco, è capace, a sua volta, di venire incontro al bisogno dei cani, che «venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16,21). Paradossalmente il corpo piagato di Lazzaro può dare ospitalità ai cani e al loro desiderio di vivere. Resta, comunque, il grande interrogativo, se per il povero ci possa essere spazio per la speranza o se lo sguardo del ricco ha di fatto chiuso ogni possibile rivoluzione.
Il ricco è sempre convinto che soltanto chi detiene i mezzi sufficienti può sperare di avere un domani, di poter guardare l'avvenire senza ansietà. Il Signore Gesù nel raccontare la parabola di Lazzaro ci tiene a precisare che per il ricco, chiuso nella solitudine del suo possesso, non c'è un domani, non c'è speranza di futuro.
Il futuro appartiene a Lazzaro e a tutti i poveri come lui, perché solo costoro desiderano un vero cambiamento della storia. Il ricco di per sé non è interessato ai cambiamenti, perché il suo desiderio è di poter "eternizzare" il suo presente. Egli non vede davanti a sé nient'altro che il suo attuale stato di benessere da prolungare all'infinito e, pensando e sentendo in questo modo egli non si accorge di tagliarsi fuori dal cammino della storia. Il ricco non ha la libertà interiore per poter accogliere l'irruzione di un futuro, che arriva inaspettato e che porta con sé altre logiche, non più fondate sull'esclusione, ma sulla stima di ogni persona umana e sull'urgenza di aprire cammini di condivisione e di relazione.
La parabola di Lazzaro si conclude con l'immagine di un banchetto e con lo stesso Lazzaro, che riceve il posto di onore, di poter stare, cioè, al fianco di chi presiede il banchetto. Se per il ricco lo sbocco finale è la sua sepoltura, il futuro del povero è il banchetto della convivialità, dove ognuno impara ad accogliere l'altro come il bene più prezioso da amare e custodire.
L'annuncio del Regno di Dio passa attraverso il corpo dei poveri
I poveri veri, quelli in carne ed ossa, che sperimentano nella loro pelle cosa voglia dire essere rifiutato, sentire fame, essere considerato un verme e non un uomo, sono coloro che portano inscritto nel proprio corpo l'annuncio del Regno di Dio. Per quanti sforzi la società consumistica possa fare per impedire la visibilità dei poveri, non potrà mai far tacere il loro grido. Se la loro presenza costituisce un giudizio sui cosiddetti valori del liberismo e della competizione sociale ed economica, allo stesso tempo i poveri sono gli annunciatori più credibili del "Regno che viene", in quanto Regno di giustizia e di fraternità. Il migrante che lascia la propria terra ed affronta peripezie di ogni genere, anche a costo di non poter raggiungere la terra agognata, assomiglia ad una corda tesa, che si protende tra le due sponde di un fiume largo e minaccioso. Il povero, il migrante è questa corda tesa, che ci parla di speranza ardente, che ci parla di un futuro possibile. In questo senso accogliere il povero vuol dire lasciarsi interpellare dal suo volto, che desidera essere incontrato ed accolto come fratello in umanità.
Nella possibilità di questo incontro il futuro può fare davvero irruzione nel presente di una storia, che porta gli stigmi del cinismo e della ricchezza arrogante. Nel Vangelo di Matteo il discorso escatologico di Gesù si chiude con il racconto del "giudizio universale" (Mt 25,31-46), dove è detto a chiare lettere che ogni persona umana, che si è lasciata interpellare dal volto del povero, da colui, cioè, che ha fame, da colui che ha sete, da chi è forestiero, nudo, ammalato o carcerato, ha di fatto incontrato il volto del Signore e così facendo è entrato nel Regno di Dio, che costituisce il futuro ed il fine della storia umana. «La parabola - annota Barthelemy - sottintende come realizzata, istituita la fraternità tra il re giudice e quelli che sono enumerati, i più piccoli che hanno fame e sete, che sono stranieri, nudi, malati, prigionieri. Questa enumerazione suppone che una fraternità sia costituita tra loro ed anche che, in questa fraternità, ci sia identificazione, poiché "è a me che l'avete fatto"(v. 40)». (3)
Il corpo del povero è appello a costruire itinerari di vera fraternità ed allo stesso tempo è il luogo dove incontrare Colui che dona la vita in abbondanza, quella vita che nemmeno la morte ha il potere di rapire ed annientare.
1) Questa riflessione di F. Camon è apparsa sul quotidiano La Stampa del 7-4-2011.
2) A. Romero ... y lo mataron, Ave, Roma 1980, 170.
3) D. BARTHELEMY, Il povero scelto come Signore, Qiqajon, Magnano (BI) 2010, 140.
Gregorio Battaglia
Fraternità Carmelitana 98051 Barcellona P.G. (ME)
(tratto da Horeb. Tracce di spiritualità, anno XXI, 2012, n. 1, pp. 21-26)