Il capitolo della speranza è, per i teologi, un cantiere aperto recentemente. Nella predicazione e nella spiritualità è sempre una terra non dissodata. Ciò che diceva Charles Péguy «la speranza bambina appesa alle braccia delle sue due sorelle grandi», la fede e la carità, «che la tengono per mano», resta vero.
Resta anche vero che se la carità è la più grande al di là della morte, la speranza è la più necessaria al tempo presente. Secondo Péguy, Dio dice di non essersi meravigliato che gli uomini credano («Io esplodo talmente in tutta la mia creazione») né che essi amino, ma ciò che lo meraviglia è che continuino a sperare. «La fede, non mi sorprende, non è sorprendente... Ciò che mi sorprende, dice Dio, è la speranza...» (Il portico del mistero della seconda virtù).
Cos'è dunque la speranza cristiana? In cosa differisce da tutte le altre attese?
1. Il muscolo cardiaco dell'uomo
La speranza non si trova da qualche parte ai bordi della vita umana: ne è il muscolo cardiaco, il miocardio. Si ferma e la morte fa il suo ingresso. In che modo?
Più che una volta — in ragione del numero di nuove possibilità che si aprono davanti a lui — l'uomo si considera come un essere in perpetua ricerca che vuole aprirsi indefinitamente. Ma allo stesso tempo, ha una coscienza acuta del suo carattere finito e dei suoi limiti. Il suo corpo lo situa da qualche parte nel tempo e nello spazio: non può durare per sempre né essere dappertutto. Si sente incastrato tra due estremi: racchiuso nel provvisorio e aperto sull'infinito. Sa che non potrà mai veder realizzato l'oggetto delle sue aspirazioni nei limiti della sua esistenza presente. Un giorno dovrà morire.
L'essere umano è dunque condannato alla speranza: tale è la sua struttura. Altrimenti deve rassegnarsi ad ammettere che è solo un essere assurdo, uno scherzo di natura. Se vuole continuare a vivere deve sperare. È così che è costruito e lo sa perfettamente: prima ancora che una qualsiasi problematica religiosa lo interpelli.
2. Utopia e speranza
I non credenti, anche loro, devono affrontare questo problema. E hanno tentato di farlo. Prima del Rinascimento, non era proponibile un'esperienza profana. La sola speranza aveva la sua fonte nella religione, nel messaggio cristiano. Ma le cose sono evolute. In Occidente ci si è messi a parlare di "utopia". È una sorte di versione profana, secolarizzata, della speranza cristiana. Poiché bisognava staccare la speranza da Dio, non la si poteva più appoggiare che sull'impegno dell'uomo. «Noi siamo i soli garanti della nostra speranza; non bisogna più che venga da un'altra parte».
Il Marxismo si è impadronito della nozione di utopia e le ha dato una forma concreta. Il Marxismo è la prassi dell'utopia: una sorte di metodo della speranza. Secondo Marx, qualunque siano gli ostacoli, un giorno si giungerà alla società ideale, senza classi, nella quale tutti saranno felici; essa sarà realizzata in modo razionale.
Ci si può tuttavia domandare se l'utopia sia una vera speranza. In effetti urta contro il muro della morte. La morte di ogni individuo e, dopo Berlino 1989, quella di tutta una civiltà. L'essere umano non è capace di costruire da solo la sua speranza, con le sue proprie forze, né di realizzarla. Occorrerà fare appello a un supplemento di forza, a qualcosa d'altro che viene da un'altra parte.
È così che il cristianesimo comprende la speranza. Viene un Messia che compierà le promesse e realizzerà la speranza. Chiamiamo ciò: "escatologia". L'alternativa all'utopia è che Dio fa irruzione nella storia liberamente, in modo imprevedibile, in tutta gratuità, senza alcun merito da parte nostra. Tutto è dato all'uomo, anche la vita oltre la morte. Il cristiano vive in uno stupore senza confini. Ciò non lo dispensa dal dover operare con le proprie mani in questo mondo, ma gli impedisce di pensare che quello che realizza circa il destino è il compimento ultimo di quello che può sperare. Tutte le opere umane sono dunque sia preziose che relative. L'essere umano è uno straniero nella propria patria, e i suoi occhi, dall'alto dei bastioni, scrutano in attesa di Colui che verrà.
In breve, la speranza cristiana non si appoggia sull'uomo, ma sulle promesse di Dio e sulla sua potenza. «Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori» (Sal 127,1).
3. Speriamo perché vediamo dei germogli di speranza
Abbiamo dunque ragione di sperare che Dio venga a raddrizzare la situazione? O non si tratta anche qui di una visione della nostra mente? Stiamo scambiando i nostri sogni per realtà? Abbiamo qualcosa di solido in mano?
Se c'è una cosa evidente nella Bibbia è questa: Dio è un Dio di promesse. Promette e realizza. La speranza d'Israele non si basa su una scommessa, su un vago desiderio, su una sete ingannevole, su dei miti o su delle fiabe. È fondata su avvenimenti storici: un tempo Dio ha realizzato realtà piene di speranza. All'origine di tutto l'ottimismo e di tutta la speranza della prima alleanza c'è l'uscita dall'Egitto, l'esodo. Questi sono fatti: nel quadro dei segni meravigliosi Dio ha fatto uscire Israele dall'Egitto. A partire da questo momento, i figli d'Israele considerano il loro Dio come un Dio che promette e mantiene le promesse, un Dio della speranza; e loro stessi si considerano come un popolo in marcia verso un mondo migliore.
Al vertice di questa pioggia di stelle di promesse, brilla la figura di Abramo. Dio entra nella storia e assicura ad Abramo un paese come anche «una discendenza più numerosa dei granelli di sabbia sulla riva del mare e delle stelle del cielo» (Gn 22,17). Già in questo caso sono cose concrete che vengono promesse, che possono essere iscritte sulle righe del tempo della storia: il paese di Canaan ben reale, dei veri discendenti, la prosperità su questa terra, la liberazione dalla casa della schiavitù, la vittoria sul nemico, la riuscita assicurata al giusto.
4. I profeti
I. È nella stessa prospettiva che parlano e agiscono i profeti. Sono gli araldi della speranza. Essi attizzano l'attesa messianica e mantengono acceso il lume della speranza. Tuttavia, in diversi modi, correggono la traiettoria di questa speranza. Innanzitutto, sottolineano il fatto che Israele non deve contare su di sé per realizzare le promesse: né carri né cavalli, nessuna potenza militare né alleanza con l'Egitto. Solo la fiducia nella "nudità" della parola di Dio può salvare il popolo. Altrimenti non c'è speranza, solamente una temeraria fiducia in sé e dei calcoli vani. È Dio che assicurerà l'avvenire, e lui solo.
II. C'è un secondo correttivo. Israele non può continuare ad appoggiarsi ciecamente sulle meraviglie passate di Dio nella sua storia e credersi dispensato da ogni conversione interiore personale. La speranza si basa anche su una vita virtuosa e sulla fedeltà alla legge divina. Anche le parole dei profeti che riguardano l'avvenire, assumono spesso gli accenti minacciosi del giudizio. Viene il "Giorno di Jahvé" che non lascerà vivere niente di quanto edificato dal sussiego e dall'egoismo degli uomini. Dio dona le promesse, ma domanda ai suoi figli di servirlo. La speranza è interiorizzata.
III. C'è ancora un terzo correttivo. Dio non garantisce solo un benessere esteriore; promette molto di più: la pace dell'anima, un cuore nuovo che segue perfettamente la legge di Dio e di aderirvi senza pena. Dio promette conversione e interiorità. Non si accontenta di liberare dagli ostacoli esteriori, spezza la schiavitù interiore. Mette fine al carattere oppressivo della legge e dà un altro nome all'avvenire: perdono. La speranza è spiritualizzata.
IV. Alla fine diventa poco a poco evidente che le promesse divine non si limitano esclusivamente alla vita presente. Questo ambito è troppo ristretto. Molte assicurazioni mirano a un aldilà della storia, a un'altra vita, «un cielo nuovo e una nuova terra». E non solo per Israele, ma per tutti i popoli ai quali precisamente Israele ha la missione di rivelare il suo Dio. La speranza è universalizzata.
Le peripezie del nostro universo diventano il teatro del piano di salvezza divino, e questo si sviluppa irresistibilmente attraverso i meandri delle cadute e del pentirsi dell'uomo e dei popoli. Nulla di ciò che noi facciamo in questo mondo è senza importanza, inoltre niente è definitivo. Le promesse esigono da parte nostra libera collaborazione e duro lavoro, ma anche infinita fiducia. Il cristiano sarà pure un misero "progressista", lui che non crede mai che tale rivoluzione sia l'ultima. Ma sarà nello stesso modo un misero "conservatore", perché non è maggiormente portato a credere di rischiare di rimanere all'ultimo "ordine stabilito" in sequenza di data.
È d'altronde per questo che è un vero umano, un autentico essere di speranza. Quello che dicevamo prima: un essere «racchiuso nel provvisorio e aperto all'infinito». La speranza è il motore della sua esistenza.
5. La risurrezione di Cristo: l'ultima promessa
L'ultimo nemico è la morte. La liberazione dalla morte è ciò che l'uomo spera intensamente. Diciamolo, è l'unico oggetto della sua speranza. Perché se questa attesa non approda a nulla, tutte le altre sono senza significato. L'angoscia della morte ineluttabile eclissa le realizzazioni di tutti gli altri desideri di questa terra.
«E noi vi annunziamo — dice Paolo — la buona novella che la promessa fatta ai padri si è compiuta, poiché Dio l'ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù...» (At 13,32 ss.). Lo Spirito Santo che ci è stato donato ne è il pegno e la conferma. Nel giorno di Pentecoste tutte le promesse sono compiute (cfr. At 1,4 ss.).
È qui che la nostra speranza trova il suo fondamento definitivo: eccolo solidamente ancorato. Perché la risurrezione di Gesù non è un sogno, un racconto mitico, un desiderio arcaico; è un fatto attestato da testimoni degni di fede. «Noi lo abbiamo visto; noi abbiamo mangiato e bevuto con lui...» (cfr. At 10,41). La nostra speranza-si fonda dunque su dei fatti. È totalmente fondata sulla potenza di Dio. Gli esseri umani non possono padroneggiare la morte; Dio solo lo può.
Ciò che è accaduto per primo a Cristo, accadrà anche a noi: se lui non è rimasto imprigionato negli artigli della morte, anche noi li eviteremo. Per mezzo del battesimo, la Pasqua è avvenuta anche per noi. «L'anima nostra è stata liberata, come l'uccello dal laccio del cacciatore: il laccio si è spezzato e noi siamo tornati in libertà», dice il salmista (Sal 124,7). «Dio ha fatto ciò, e noi siamo nella gioia».
Colui che alza gli occhi verso il Signore risorto trabocca di fiducia, ma non smette tuttavia di darsi da fare. Bisogna pensare agli angeli di Pasqua e dell'Ascensione. A Pasqua dicono ai discepoli: «Rivolgete i vostri sguardi verso il cielo, non verso la terra: Lui non è qui». All'Ascensione affermeranno esattamente il contrario: «Non restate là a guardare il cielo... Alzatevi, c'è ancora molto lavoro da fare».
card. Godfried Danneels
(tratto da card. Godfried Danneels, Sperare. La società depressa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2006, pp. 31-42)