Sono contentissimo di trovarmi in mezzo a voi anche se mi è costato un tantino; però se non c'è un po’ di costo personale non si riesce a far nulla di buono nella vita. Anche voi chissà quanto spendete in termini di tempo, di affetti, di sentimenti, per poter costruire qualcosa, per poter dar corpo ad una leggera speranza, per poter far fiorire le attese. Quindi figurarsi! Sono poi molto contento, anche perché vedo che c'è tanta gente, c'è il vescovo e mi sento incoraggiato perché vedere un vescovo che solidarizza anche su certe tematiche mi dà motivo per disseminare la speranza.
Quando si mettono insieme dei vescovi, anche sul tema della pace, nasce un modulo nuovo di pensare. Io non so se voi avete saputo dalla stampa quello che abbiamo fatto io e altri sei vescovi della metropolia di Bari poco prima di Natale. È la prima volta, un avvenimento storico: abbiamo preso posizione contro la militarizzazione del territorio della provincia di Bari e contro il megapoligono di tiro che vogliono installare nella Murgia: hanno sottratto 10.000 ettari di terreno ai contadini con una delibera regionale discussa e approvata.
Noi abbiamo detto no perché altrimenti che senso avrebbe la parola di Isaia: "Trasformeranno le loro spade in falci, le loro lance in vomeri: un popolo non muoverà più guerra contro un altro popolo e non si eserciterà nell'arte della guerra". Che senso avrebbe ? C'è un contro-Isaia oggi che si sta realizzando: sono i vomeri che si trasformano in spade. Negli Mx di Gioia del Colle, nei Tornado di Brindisi, nella Garibaldi che viene ospitata nel porto ingrandito di Taranto. Il terreno viene tolto ai contadini perché ci si eserciti nell'arte della guerra: capite, allora, di fronte a questo modulo un altro modulo: quello scelto dalle comunità ecclesiali, rappresentate in modo particolare dai loro pastori, che hanno fatto proprio una dichiarazione pubblica.
Io andando in giro un po’ per l'Italia vedo che c'è una speranza fortissima, una speranza sotterranea, c'è un'economia sommersa della speranza che è incredibile. Quindi a voi che vi battete per questi temi grossi della pace, giustizia, libertà, convivialità, solidarietà, tanti e tanti auguri perché non abbiate mai a demordere. Non vi dico questo sull'onda dell'entusiasmo perché non sono più un adolescente da scaldarmi per le cose fatue, ma non abbiate mai paura di sognare, perché il guaio non è che al mondo ci sono troppi sognatori, ma che ce ne sono troppo pochi.
Noi dobbiamo tenere alte queste calde utopie e dobbiamo avere, come disse Gramsci, il "brivido della passione".
Un incidente mi è capitato il giorno in cui ho fatto l'ingresso in diocesi, in cattedrale. All'omelia mi capitò di citare pure Gramsci, era molto azzeccato. Dissi che manca in noi credenti il "brivido della passione", non sappiamo soffrire, con-patire, con-gioire. A me parve una cosa molto garbata, solo che due giorni dopo ricevetti una lettera, la prima lettera anonima (non è che ne abbia ricevute molte) che mi colpì, e da cui rimasi scoraggiato. Diceva: "prima nella chiesa si citavano i Santi Padri, adesso si cita Gramsci: dove siamo arrivati?".
Comunque volevo dirvi, amici miei, anche voi giovani, non abbiate paura di scaldarvi alle calde utopie. Da vecchi vi scalderete alla brace del fuoco che è divampato nella vostra giovinezza. Prenderete le molle per togliere la cenere e troverete qualche carboncino ancora acceso, quello che è divampato nella vostra giovinezza, per scaldarvi un pochino.
Ci sono cose bellissime oggi in Italia, nel mondo. Pochi giorni fa, spero che non venga mutilato, a noi vescovi hanno mandato un dossier pro-manoscritto dalla Caritas: "Il servizio della carità in Italia". Un testo formidabile, bellissimo, specie dove si parla della condivisione con i poveri, della condivisione e della sorte degli ultimi, sopratutto dove si parla di pace: un testo veramente profetico, deciso, carico di parresia (coraggio profetico di chi non ha peli sulla lingua e dice pane al pane e vino al vino). Un documento veramente eccezionale.
L'hanno mandato in visione ai vescovi per correzioni, aggiustamenti di tiro, probabilmente, mi auguro, per rincaro di dose, e poi probabilmente diventerà pubblico e quando sarà pubblicato non si dirà più: "... e voi vescovi italiani siete sempre col carro, state sempre dietro, non avete ancora prodotto nulla sui temi della pace" (che poi non è molto vero!). Ma quando uscirà questo documento sui temi del servizio, della condivisione, gratuità, giustizia, pace, vedrete che ci saranno della cose meravigliose.
Bene, io stasera quando sono stato con questi ragazzi che hanno organizzato l'incontro e ho sentito parlare delle loro esperienze, ho mandato all'aria un po’ tutti gli schemi che mi ero prefabbricato per questo incontro.
Tifare per l'uomo
Vorrei cominciare con una suggestione che a me piace moltissimo. Avrete sentito parlare di un grande filosofo morto 45-46 anni fa, Walter Benjamin, di origine ebraica che viveva in Germania: si ammazzò perché era braccato dalla polizia tedesca. Prima di ammazzarsi però scrisse su dei foglietti volanti dodici o quattordici tesi.
In una di queste tesi racconta una parabola: c'era una volta un automa che giocava a scacchi con un uomo e vinceva sempre; si alzava un campione, si sedeva un altro e perdeva. Vinceva sempre l'automa. La spiegazione: all'interno dell'automa c'era un nano di intelligenza diabolica, goffo, brutto, storpio, il quale attraverso una serie di apparecchi, relè, specchi, riusciva a vedere la scacchiera e suggeriva tutti i movimenti adatti, sicché vinceva sempre lui. Nella parabola di Walter Benjamin l'automa è la storia dei potenti, dei signori, dei ricchi, dei garantiti, di quelli che vincono sempre; il nano è la teologia, il sapere, la scienza asservita al carro dei potenti.
L'uomo perde sempre: è il simbolo dei poveri, degli indifesi, dei non-garantiti, di coloro che le prendono sempre. Allora, dice Walter Benjamin, noi dobbiamo tifare per l'uomo; verrà il momento in cui l'uomo finalmente si alzerà vincitore da questo torneo. Come fare? Lui dice così (sono delle tesi che hanno il valore quasi di un testamento): "ogni uomo in tutto il cosmo, nell'universo, rappresenta una porticina, una fessura attraverso la quale la fede, la speranza, possono entrare nell'umanità e alla fine l'uomo avrà partita vinta". Io penso che noi non dobbiamo stancarci di tifare per l'uomo: l'uomo avrà partita vinta!
Vorrei fare ora un po’ di pulitura sul termine pace.
C'era un pensatore orientale che diceva: "Se io per un attimo avessi l'onnipotenza del Padre Eterno, l'unico miracolo che farei sarebbe quello di ridare il significato perduto alle parole". Ci sono parole multiuso, inflazionate, specie quelle di serie A, aristocratiche, come pace, giustizia, libertà, solidarietà, amore. Bisognerebbe dare il significato primitivo a queste parole.
Ridare il significato alle parole
Alla parola pace è capitata questa sorte perché capita che i significati sottesi da questo vocabolo sono molteplici, alcuni anche in contrasto tra di loro. Credo che sul vocabolario dei signori di Pretoria la parola pace ha un significato completamente diverso da quello che c'è sul vocabolario dei violentati dall'aparthaid; pace per i proprietari delle multinazionali ha senza dubbio un significato molto diverso da quella degli oppressi. Ci sono quindi queste parole multiuso e allora noi dovremmo vedere che cosa è questa pace per la quale ci dobbiamo battere.
Non è che si possono fare linee di demarcazione molto precise perché pace più che un vocabolo è un vocabolario, più che una stella è una galassia, più che un'isola è un arcipelago, non è una spiga ma un covone. Per cui ci sono dei vocaboli affini come pace, giustizia, solidarietà, libertà, che si rassomigliano tanto, però noi dovremmo farla un po’ di questa ricezione. Io vi indico alcune linee.
Dalla pace della coscienza alla coscienza della pace
Dovremmo fare delle transumanze, cioè dei passaggi (transumanza è un vocabolo che adoperano i pastori; trans-humus: passare da una terra all'altra. Quando i pastori nel mese di settembre vanno verso il mare dai monti): passare dalla pace della coscienza alla coscienza della pace. Cos'è la pace della coscienza? Quando stiamo quieti in casa nostra, nessuno ci scomoda, ci sentiamo tranquilli con Dio, con la gente, con la natura; ci sentiamo innocenti, cioè che non nuociamo né a Dio né agli altri né alla terra. Questa è la pace della coscienza: quella pace che ci coccoliamo in termini domestici, quella pace che qualche volta viviamo anche nelle nostre chiese ("Pace in terra agli uomini di buona volontà"); però dalla pace della coscienza dobbiamo passare alla coscienza della pace. Allora per acquisire quest'ultima dobbiamo non scommettere sulla pace che non venga dall'alto: è inquinata.
Io sono un vescovo e vi parlo come credente, ma il discorso è molto vicino anche a coloro che non si riconoscono nell'aree cristiana, che non vedono in Gesù di Nazareth il punto di convergenza di tutta la loro vita e di tutti i loro affetti. Ripeto: non scommettere su una pace che non venga dall'alto perché è una pace inquinata.
Per noi credenti la pace viene da Dio, cioè ce l'ha data Gesù Cristo quando è risorto, è entrato nel cenacolo e ha detto: "La pace sia con voi, pace a voi"; l'ha detto due volte e poi ha mostrato i pozzi da dove scaturisce la pace, ha mostrato le piaghe delle mani, del costato dei piedi.
Ha mostrato le sue ferite, quello è il pozzo da cui nasce la pace. Cioè la pace viene dall'alto, è dono di Dio; il pozzo artesiano l'ha scavato Lui, a noi tocca tirar su l'acqua per farla affiorare, farla venire in superficie, e canalizzarla, distribuirla e portarla fino ai confini della terra.
Quest'opera di canalizzazione, di affioramento dell'acqua della pace, di abbeveraggio, è l'opera che tocca a noi. è un'opera difficile, che ci deve vedere sempre solerti, però ricordiamoci noi credenti che la pace è "made in cielo" è fabbricata nel cielo, viene da Dio. E allora ci dobbiamo mettere accanto a coloro che non credono, ma che si battono pure con un animo sincero per ottenere la pace. Ci dobbiamo mettere accanto a loro per indicare l'al di là che c'è. "Al di là" delle loro attese, delle loro conquiste, lotte, c'è un al di là, c'è qualcosa che travalica i loro sforzi.
Noi dobbiamo essere il segno della loro finitudine e dobbiamo essere quasi la nostalgia del resto, dell'altro che non è stato ancora catturato. Questa è una prima idea per passare dalla pace della coscienza alla coscienza della pace. Una seconda: non scommettere su una pace non connotata da scelte storiche concrete perché è un bluff. Di discorsi ne stiamo facendo tanti, è venuta l'ora di passare veramente sui crinali della prassi, di impegnarsi, di sporcarsi le mani, gli abiti, non il cuore.
Il cuore deve rimanere intemerato. Bisogna passare ormai armi e bagagli sui crinali della prassi, immergendosi veramente nelle scelte storiche concrete, prendendo posizione. Non possiamo rimanere neutrali, ambigui, dire e non dire; qualche volta ci lasciamo prendere dal fascino della previdenza per cui diciamo delle cose che possono essere buone per tutte le stagioni. Sono buone perché, a seconda di come spira il vento, noi abbiamo sempre ragione: questa è furbizia. Fare scelte storiche concrete che significa allora?
Significa darsi da fare per sanare anche le situazioni di ingiustizia che ci sono nel mondo.
Sapete come è distribuita la ricchezza sulla terra, no? Questo è un tavolo; le ricchezze sono i cento pani che mettiamo sul tavolo. Tutti gli abitanti della terra sono i 100 commensali che stanno a questo tavolo.
Trenta persone mettono le mani su 88 pezzi di pane, le altre 70 devono accontentarsi dei rimanenti 12 pezzi di pane. Così è distribuita la ricchezza. Allora, che stiamo a guardare? stiamo zitti? subiamo questo fatto? Il mondo è diviso in due parti, diceva Josuè de Castro: quelli che non dormono perché hanno fame e quelli che non dormono perché hanno paura di quelli che hanno fame.
La cosa più tragica non è la distribuzione così ingenerosa, ingiusta, della ricchezze, la cosa più tragica è che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Anzi, i ricchi diventano sempre più ricchi a spese dei poveri che diventano sempre più poveri. Questo è un assioma che vale non tanto perché l'ha proclamato Paolo VI nella Populorum Progressio e l'hanno ribadito anche altri pontefici e anche tanti economisti, ma è un assioma che ci fa inorridire perché lo stiamo sperimentando oggi storicamente. Quindi capite le scelte di campo.
Non possiamo proclamare la "pace in terra agli uomini di buona volontà", non possiamo cantare in chiesa "se qualcuno ha dei beni in questo mondo e chiudesse il cuore agli altri nel dolore, come potrebbe la carità di Dio rimanere in lui" se poi quando usciamo fuori non sappiamo prendere decisioni, siamo tentennanti, indecisi, abbiamo paura di comprometterci, non partecipiamo alla marcia perché poi dicono che siamo sovversivi, non partecipiamo con quelli perché se no ci dicono che siamo di destra, di sinistra. Come ti pronunci sempre sarai assoggettato alle strumentalizzazioni, alle visioni di parte.
Ma se nel cuore c'è bisogno veramente di solidarizzare con i più poveri noi non avremmo paura di prendere posizione.
Poi: non scommettere su una pace che prenda le distanze dalla giustizia: è peggio della guerra quella pace. è una scoperta recente questo abbinamento che si è fatto anche in campo ecclesiale della pace con la giustizia. C'è un passo di Isaia "Opera della giustizia è la pace" che in latino suona benissimo "Opus iustitiae pax": la pace è frutto della giustizia. C'è poi un salmo, il 35, il quale parla di baci fra la pace e la giustizia.
Come si fa a rimanere inerti di fronte alla situazione di un mondo in cui 50 milioni di persone muoiono ogni anno per fame? Questo, tradotto in numeri, significa che ogni due secondi muoiono tre persone per fame. Noi stiamo qui a parlare; ogni due secondi sulla terra muoiono tre persone per fame, non di fame. Da noi "si muore di fame" quando a scuola si fa tardi, quando dal lavoro rincasiamo tardi, si muore di fame... Ma muoiono per fame 50 milioni di persone. Quante ce ne sono di queste povertà.
Mentre il pane manca alla gente abbiamo per contro 5 tonnellate a testa di tritolo disponibili, compresi quelli che muoiono per fame. Se qualcuno ci dicesse che hanno depositato 1 kg di tritolo sotto questo palco, tutti prenderemo la sedia e ce ne andremmo velocemente. Ognuno di noi ha 5 tonnellate di tritolo a disposizione: c'e' tanto materiale che la terra potrebbe scoppiare 20 volte, essere distrutta, azzerata. Ci sono 80.000 testate nucleari; pensate alla bomba di Nagasaki che è un giocattolo rispetto alle testate nucleari che ci sono oggi.
In media una testata nucleare tradotta in tritolo, ne ha tanto quanto basterebbe per riempire un treno che ha la coda nella stazione centrale di Milano e la locomotiva nella stazione Termini di Roma, 650 km, una sola testata nucleare! ce ne sono 80.000 sulla terra!
Perché queste cifre? Perché probabilmente solo la riduzione in termini plastici di questo genere può far capire la situazione difficile in cui ci troviamo. Ecco perché il nostro impegno si dovrebbe sperimentare in termini anche più forti.
Per un altro verso c'è l'indebitamento dei paesi del Terzo Mondo: 1.000 miliardi di dollari, tanti quanti se ne spendono in un anno per la corsa alle armi! Sapete che il 40% delle spese totali per la ricerca scientifica è diretto a scopi militari? il 25% del personale addetto alla ricerca scientifica è impegnato nelle ricerche di carattere militare. E intanto si continua a parlare di difesa strategica. Dopo i fatti dell'8 dicembre abbiamo tutti applaudito perché è un segno di speranza: Reagan e Gorbaciov con il caminetto dietro che ardeva.
Quel caminetto per me è un simbolo, quasi per dire che, se arde il fuoco della coscienza popolare che tiene deste certe vibrazioni, forse alla pace si può arrivare. Però quel caminetto sta anche a dire che tutti quei trattati sono pezzi di carta che da un momento all'altro possono essere bruciati. Comunque l'Iniziativa di difesa strategica continua ancora; lo scudo bucato, lo scudo stellare viene a costare 1.800.000 lire a testa per ogni abitante della terra: è una follia, una pazzia (parlo ancora da credente).
Noi credenti dovremmo dire con più chiarezza queste cose con maggiore "parresia" dicevano negli Atti degli Apostoli. "Parresia" significacoraggio. Per misurare in termini accessibili l'assurdo di certe cifre,pensate la Garibaldi, portaerei italiana: costa tanto quanto potrebbero costare 10 ospedali moderni con 1.000 posti letto l'uno.
Dai segni del potere al potere dei segni
Sulle Murge baresi da cui provengo, ho visto passare cingolati, carri armati di media stazza: 3 miliardi l'uno! Si costruirebbero caseggiati con 35 alloggi per ospitare 35 famiglie senza tetto. Non ci sarebbe bisogno degli episcopi per tamponare; qualcuno dice: "Cosa fai? metti negli episcopi gli sfrattati, va be', ma cosa fai? due, tre, cinque famiglie nelle chiese... ma sono tanti gli sfrattati!".
Vedete, noi come credenti ma anche come non-credenti non abbiamo più i segni del potere. Se noi potessimo risolvere tutti i problemi degli sfrattati, dei drogati, dei marocchini, dei terzomondiali, i problemi di tutta questa povera gente, se potessimo risolvere i problemi dei disoccupati, allora avremmo i segni del potere sulle spalle. Noi non abbiamo i segni del potere, però ci è rimasto il potere dei segni, il potere di collocare dei segni sulla strada a scorrimento veloce della società contemporanea, collocare dei segni vedendo i quali la gente deve capire verso quali traguardi stiamo andando e se non è il caso di operare qualche inversione di marcia. Ecco il potere dei segni e i segni del potere. I segni del potere non ne abbiamo più, non dobbiamo averne; ecco perché non dobbiamo neanche affliggerci.
Io come vescovo adesso non mi debbo affliggere più che tanto perché ci sono 3.000 marittimi nella mia città di Molfetta che sono sbarcati perché ormai le compagnie navali sono in crisi, imbarcano i terzomondiali, ecc. Non devo risolvere io il problema ma le istituzioni; però io devo esprimere solidarietà con questa gente, devo dividere cioè il loro pane nero. Non devo dividere soltanto la mia ricchezza ma devo dividere anche la loro miseria, la povertà di quella gente, lo stile, la sofferenza, tutti grossi problemi.
La pace che si disgiunga dalla giustizia è peggio della guerra
I problemi della segregazione razziale, il vilipendio dei diritti umani, non so se qui il fenomeno dei terzomondiali sia conclamato. Io vedo nel barese, in una città della mia diocesi, Ruvo, ci sono 46 marocchini. Mi accorsi di loro dopo tre, cinque anni che stavo in diocesi, l'anno scorso, sapete quando? che Vescovo distratto che sono... quando c'e' stata la settimana del congresso nazionale della Acli, e allora probabilmente per non offuscare il "look" della città le autorità decisero di mandar fuori questi marocchini che stanno lì senza permessi per il soggiorno, senza autorizzazioni della Camera di commercio per vendere chincaglierie, cinturini, orologi... e sono stati mandati tutti fuori.
Mi hanno chiamato, stavano sotto la pensilina della Esso. Ho parlato con le autorità perché non era possibile che stessero lì; siamo andati dal questore e siamo in pratica addivenuti ad un compromesso. Io avrei fatto di tutto perché non superassero il numero, un certo livello di guardia, cioè 45-46 e non più. Povera gente... le leggi sono quello che sono, non voglio discutere, però dobbiamo essere pure coscienza critica per certe situazioni. Uno di loro, Mohamed, mi ha mostrato una foto: otto figli, come le foto dei cugini di mio zio. La sera contano anche loro il denaro per vedere quanto hanno guadagnato e poi lo mandano a casa. C'è un altro ragazzo che ha la fidanzata a Casablanca. L'anno scorso venne da noi don Luigi Ciotti; da noi non nevica mai ma quell'anno ha nevicato anche a Ruvo.
È venuto da me Mohamed e ha detto: "vescovo, fai qualcosa per i miei compagni marocchini che dormono in un modo...". Andammo prima da lui che dormiva in un garage, ma disse: "non per me, io qua sto benissimo, l'unico inconveniente è quell'odore di benzina delle macchine che ti rimane tutto il giorno; per il bagno vado fuori, però dormo", lo diceva con tanto amore come se avesse un attico ai Parioli. Andammo a vedere i suoi compagni: in una stalla c'erano otto persone; don Ciotti "è rimasto"... stavano seduti uno sui piedi dell'altro per scaldarsi, perché non potevano accendere il fuoco, c'era la paglia e le finestre erano di cartone. Queste sono le cose che ho visto io e perciò ve le racconto, non è per la mozione degli affetti o per rincretinire la gente col sentimentalismo, perché questa è la realtà, è inutile che ci portiamo in giro. Ricordo che Mohamed appena entrato là dentro andò a smorzare la radiolina che trasmetteva nenie orientali, perché là si capta bene anche la radio del Marocco, poi mi disse: "Fai qualcosa per questi miei compagni".
Io ho poi esortato i sacerdoti di Ruvo che avevano degli appartamenti; ne abbiamo dati tre a questi marocchini che si sono messi lì in 36. Gli altri li abbiamo alloggiati altrove. Per questi appartamenti, 16 o 18 non ricordo bene, la gente aveva fatto a gara, pressioni dal sindaco, dai carabinieri, dal vescovo, per averli in affitto. Si era dovuta fare una graduatoria.
Sapete che quando abbiamo messo i marocchini hanno lasciato tutti... con tutti i nostri canti che facciamo in chiesa, con tutte le liturgie! Ecco allora la condivisione, la gratuità, il servizio, la solidarietà con la gente. "Onorate l'orfano, lo straniero, perché anche voi siete stati stranieri in terra d'Egitto", c'e' scritto nella Bibbia.
Però sta crescendo anche una sensibilità nuova: noi sacerdoti in modo particolare ci siamo impegnati a coscientizzare la gente perché i problemi della povera gente sono problemi nostri.
L'altro giorno è morto un ragazzo marocchino in un incidente stradale. Sono andato a trovarlo questo ragazzo all'obitorio del cimitero; c'era un raduno di tutti i marocchini della provincia (quanti ce ne erano!) e facevano quei canti lugubri dell'oriente... sembravano piovere da altri mondi. Hanno preso poi 12 metri di tela ed hanno avvolto questo ragazzo ed è stato molto bello che i cittadini di Ruvo hanno fatto subito una colletta, la domenica in chiesa, per mandare il corpo alla vecchia madre di quel povero giovane in Marocco.
Qualche cosa cresce adesso in quella città, da più di un anno in una chiesa che è un salone, ogni domenica c'è la mensa e vengono tutti quelli che hanno fame. Questo ogni domenica inesorabilmente. Allora direte: "che cosa avete risolto? con la minestrina pensate di poter risolvere i problemi colossali del mondo?". Non importa, non ci sono i segni del potere ma il potere dei segni. La gente intanto si coscientizza sul dovere dell'accoglienza, della solidarietà, della condivisione, e questo è molto bello. Ecco perché non bisogna aver paura di queste cose; noi come credenti dobbiamo esprimere l'atteggiamento del samaritano, dell'ora giusta. Questo lo dico anche per quelli che si impegnano nel volontariato e si sentono a volte le orecchie fischiare perché c'è chi li critica: "Cosa volete fare voi con il riciclaggio delle vostre esuberanze emotive? con i panni che mandate alla Caritas pensate di poter risolvere i problemi della gente? con la piccola raccomandazione, con il posticino che trovate di straforo, con la minestra che scaldate per i poveri... così non si risolve il problema".
La strategia dell'ora giusta
Attenzione perché questo non è vero. Dobbiamo mettere in atto la stessa strategia del samaritano, dell'ora giusta. La sapete, no, la parabola del buon samaritano che arriva sul ciglio della strada, vede un povero che sta perdendo sangue e gli tampona subito le ferite, versa olio e aceto e poi gli fascia le ferite. Eccolo il pronto intervento, è inutile che ti metti a discutere sulle cause della sofferenza planetaria quando devi tamponare te ferite.
Però il samaritano si accorge che da solo non ce la fa: vede che quello continua a perdere sangue, lo porta all'ospedale più vicino e gli fa fare la Tac, le analisi, e trascorre la notte con lui perché il Vangelo dice: "Il giorno dopo levatosi diede una moneta al primario, all'oste, e disse: 'Prenditi cura di lui, al mio ritorno ti rifonderò il restò". Qui c'è il secondo momento dell'analisi delle situazioni: vedere da dove arrivano tutte le situazioni perverse che giungono a noi come le ultime branchie di un polipo che ha la testa in chissà quale bottega oscura della terra; chissà quali Cagliostri macchinano queste ingiustizie planetarie di cui a noi giungono gli ultimi tentacoli.
Il credente o l'uomo di buona volontà che oggi vuole impegnarsi a condividere la sofferenza degli altri, non deve limitarsi a mettere il borotalco sulle ferite, a sanare le pustole superficiali, epidermiche, ma deve andare a fare l'analisi della situazione perversa da cui derivano quelle manifestazioni esantematiche.
Qui noi siamo carenti anche come comunità cristiana perché abbiamo tantissima esuberanza, veniamo incontro con i pacchi dono, con la S. Vincenzo, ecc. tanta esuberanza, tanta buona volontà, però chiaramente dobbiamo impegnarci come credenti, questa è la piazzola nuova o il ring nuovo dove dobbiamo combattere la battaglia: l'analisi della situazione.
Così si condivide veramente, così ci si batte per la giustizia che è il prologo della pace: fare l'analisi della situazione.
Quindi il samaritano dell'ora giusta, il samaritano dell'ora dopo, ma c'è anche il samaritano dell'ora prima! questo lo invento io, non c'e' sul Vangelo. Se il samaritano fosse partito un'ora prima, fosse giunto sul luogo del delitto un'ora prima, al momento dell'aggressione, il crimine non sarebbe stato compiuto sulla strada, cioè bisogna giocare d'anticipo.
Una comunità cristiana, ma anche un'istituzione pubblica, oggi deve prevedere a lunga gittata come andranno le cose. Dove va a finire la gioventù di oggi: i ragazzi quando escono dalla scuola quali sbocchi occupazionali troveranno? Questo scrutare l'aurora è proprio delle sentinelle, degli episcopi; coloro che sorvegliano stanno solo per vegliare, vegliare nella notte.
Nel Vangelo di Natale abbiamo letto: "C'erano dei pastori che vegliavano nella notte facendo la guardia al gregge". Questo è compito dei sindaci, dei vescovi, dei sacerdoti, di tutti gli uomini di buona volontà: "C'erano dei pastori che vegliavano nella notte facendo la guardia al gregge". Questo giocare d'anticipo deve far parte del nostro stile di credenti, perché altrimenti siamo solo dei romantici che fanno dei discorsi, delle belle manifestazioni, delle lotterie, però la condivisione non si scatena mai in termini credibili e forti.
Così per tutte le altre cose: per i problemi della tossicodipendenza, degli sfrattati; a volte bisogna avere il coraggio della denuncia pubblica. Quante situazioni ci sono, non so se sto dando più spazio alla speranza o alla lamentela! Ma non importa, quando la lamentela è intrisa di accenni di risurrezione è sempre uno stimolo.
In chiesa c'è un canone bellissimo, una preghiera che dice: "Donaci Signore occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei poveri". Se lo chiediamo come preghiera è perché veramente non ce ne accorgiamo, abbiamo gli occhi chiusi, non riusciamo a vedere le situazioni di povertà. Ci sono delle cose incredibili.
Gennaro l'ubriaco
L'anno scorso, ricordo, una sera d'inverno mi ero ritirato in episcopio e vidi un uomo che veniva di giorno continuamente a suonare il campanello, a chiedere l'elemosina; quella sera era ubriaco fradicio. Dico: "Che cosa vuoi? A quest'ora cosa stai a fare qui?", "Dammi qualche cosa", "Dove vai a dormire?", "Sotto la barca", "Andiamo". Pioveva; presi l'ombrello e andai sul porto dove ci sono delle barche capovolte. Sollevo una barca e lui dice: "Io qui dormo": c'erano dei cartoni, al posto del guanciale un ammasso di giornali, una bottiglia, una candela. Dormiva davvero sotto una barca. Gennaro si chiama. Lo condussi da me; veniva ogni sera, a volte brillo. Dopo 3-4 mesi, ancora non mi diceva i suoi dati precisi: come si chiamasse, di dove era. Poi seppi che era di Bari, il cognato e la sorella lo rintracciarono e lui comunque si era già rimesso a nuovo. Tornò a casa a Bari, mi invitarono anche a casa loro... Gennaro... sotto la barca... Sono passati tanti mesi e l'avevo perso di vista.
Nel mese di giugno a Pentecoste è venuto il cardinale Maier a nobilitare la chiesa della Madonna dei Martiri col titolo di basilica. La notte di Pentecoste c'erano tantissimi giovani nella chiesa, abbiamo pregato oltre mezzanotte. Ad un certo momento un giovane ha chiesto al Cardinale: "Perché si chiama Basilica minore?" Il Cardinale ha risposto: "Perché basiliche maggiori sono le chiese che stanno a Roma, le altre si chiamano basiliche minori". Io poi ho rincarato la dose dicendo: "Questa si chiama basilica minore perché la basilica maggiore sei tu; basilica significa casa del Re: tu sei casa del Re, non catapecchia di periferia, non spelonca da trivio. Tu con la tua persona, la tua vita, per quanto squallida sia, sei basilica maggiore". Poi ce ne siamo andati. Sono passati dei giovani in macchina, mi hanno dato un passaggio e siamo andati all'episcopio. Davanti al portone, a terra, disteso, c'era Gennaro, ubriaco. Quello che guidava ha detto: "Don Tonino, basilica minore o maggiore?" Ho detto: "Basilica maggiore".
Giuseppe, avanzo di galera
L'altro giorno scrissi una lettera ad un giovane di 37 anni, Giuseppe, che entra ed esce dal carcere, ha fatto 19 anni di galera. Lo incontrai una sera perché venne a raccontarmi la sua storia, poi l'hanno rimesso di nuovo in carcere. La lettera diceva così: "Caro Giuseppe, non ce l'abbiamo fatta né tu né io. Non ce l'hai fatta tu, perché a tre mesi esatti da quando sei uscito dal supercarcere di Trani, ieri ci sei tornato di nuovo. Non ce l'ho fatta io, perché avrei dovuto dare ben altro credito alla tua parola d'onore. Ricordo quella sera del 25 marzo quando venisti da me stringendo con fierezza il foglio di congedo dalla prigione come se fosse un diploma di laurea; era il foglio della tua libertà. A cena mi dicesti che in galera non saresti ritornato più, che stavolta ce l'avresti messa tutta perché a 35 anni uno, anche se ha sbagliato, la vita può rifarsela da capo. Brindammo alla tua libertà. Da quel giorno sei venuto ogni mattina a trovarmi per dirmi sempre le stesse cose, che le sedie della sala d'aspetto della stazione erano dure per dormirci la notte ma erano sempre meglio delle brande di una cella; che quelle quattro lire che giornalmente ti concedevo ti bastavano appena per non morire di fame, ma che comunque un panino e una birra del bar ti saziano più delle minestre calde del carcere; che un giorno se avessi trovato uno straccio di lavoro saresti andato a vedere dopo tanti anni la tua bambina chiusa in un collegio di Catanzaro.
Ai servizi sociali e al Centro di igiene mentale ci assicurarono che si sarebbe fatto qualcosa e questa lusinga è servita per un po’ a non far cessare le speranze che si riducevano progressivamente da quando soprattutto capimmo che per te il buco di un alloggio non lo avremmo trovato mai, perché, diciamocelo brutalmente, una faccia come la tua uno non la vuole incontrare né di giorno né di notte. Braccato da tutti, un po’ di pietà l'hai trovata solo in ospedale, dove per qualche giorno ti hanno accolto senza fiatare dopo che al medico di turno ho indicato i tuoi piedi gonfi.
Ma ormai il tuo destino era segnato. Mi ripetevi sempre che, nella tua lunga carriera di galeotto, ogni volta che uscivi dal carcere, dopo tre giorni ci tornavi di nuovo. Una sera ti dissi che stavolta dovevi resistere almeno tre mesi; dovevi farlo per me. Mi desti la tua parola d'onore anche se ormai a star fuori non ce la facevi più e hai mantenuto la tua promessa meglio di un galantuomo. Ieri, alla scadenza, ti hanno arrestato mentre rubavi un motorino. I ragazzi ai quali da qualche tempo impartivi le prime lezioni del mestiere, più svelti del maestro, hanno fatto in tempo a fuggire. Caro Giuseppe, stasera sono contento, ma non perché la città si è liberata di un essere pericoloso come te, non fraintendermi, e neppure perché ti so disteso finalmente su un materasso meno romantico della panchina della stazione ma senza dubbio più comodo, e neanche perché sei al riparo dalle violenze dei più violenti di te, se è vero che l'altra notte ti iniettarono a forza una dose di eroina mentre cercavi di prendere sonno su una panchina.
Sono contento perché ho capito che se tu dai una parola la sai mantenere ed ora quasi mi pento di non averti chiesto tre anni invece che questi tre squallidi mesi che sono passati lenti per te come una eternità e dolorosi come un calvario. Ma forse è meglio che sia finita così. Tutto sommato la tua libertà si è frantumata non contro le sbarre del supercarcere di Trani, ma contro quelle del nostro perbenismo borghese, delle nostre ipocrite paure dietro le quali siamo tutti prigionieri, dalle cui pareti non sappiamo evadere, non dico per tre mesi come te, ma neppure per tre giorni.
Coraggio Giuseppe, siamo tutti pezzi di galera ma prepariamoci ad uscirne.
Tu coprendo, sotto la tutela della tua parola d'onore, non un frammento di tempo, ma tutto l'arco della tua vita; noi ritrovando nel Vangelo, nella gioia di un'accoglienza che ci faccia intuire, se non per tutto l'arco della vita, almeno per un frammento di tempo, anche sotto l'amarezza di uno sguardo fosco come il tuo, la dolcezza del volto di Cristo. Sono in attesa di questo incontro, verrà presto, lo sento. E allora, ridiventato uomo, brinderemo di nuovo senza più paure, alla tua libertà, anzi alla nostra.
Alla salute Giuseppe, “uomo d'onore".
La gente comune
La gente comune della nostra città sa che non sono solo elucubrazioni letterarie, la gente che dorme nelle stazioni; qui lo so che la situazione sociale è molto diversa, ci sono forse povertà diverse, non ci saranno i poveri di denaro, ma c'è la gente povera perché non ha motivo per vivere, ha magari il portafogli gonfio ma il cuore vuoto; c'è tanta gente che vive in solitudine, capite allora la solidarietà, la condivisione, è avere occhi per scorgere i poveri; non so se vi ricordate "Il muro" di Sartre o di Camus.
L'episodio è questo: C'è un commesso che andava da una città all'altra a vendere; quando arrivava la sera nella città nuova, andava in un albergo, prendeva il pasto, poi il giorno dopo andava a vendere e poi cambiava. Un sera arriva in una grande città e va in un albergo e chiede un posto per dormire. Era un uomo molto triste perché dalla vita non aveva avuto nulla, era solo, non aveva figli, moglie, non aveva affetti, non sapeva più che farsene della vita. Ad un certo momento, appoggiato al bancone, mentre sta fornendo la carta di identità, arriva una coppia di sposi. Si vedeva che erano sposi, perché erano vestiti tutti e due in blue jeans, si abbracciavano ogni tanto, avevano una grossa valigia, erano in viaggio di nozze. Anche loro hanno chiesto una stanza per dormire.
L'albergatore ha preso anche i loro documenti e ha dato loro le chiavi. All'anziano commesso viaggiatore, che intanto non si stancava di contemplare quei due giovani, dà la chiave n. 23; ai due sposi la n. 24. Vanno a dormire. Il vecchio commesso viaggiatore non riesce a chiudere occhio, si gira e rigira nel letto, prima di tutto per il caldo, poi perché pensa sempre alla sua sorte così malinconica, e poi perché effettivamente, al di là della parete, sente un rumore di sedie, di pianto, di lamenti.
Alla sua fantasia accesa non è difficile immaginare quale festa d'amore si celebrasse al di là della parete. Poi finalmente riesce a chiudere occhio, ma per poco tempo, perché si sveglia di soprassalto perché c'e' un via vai nel corridoio, un rumore nell'albergo. Si alza, apre la porta, tira fuori il capo e a una domestica che passa chiede cosa sia successo. Quella lì fa un gesto come per dire lascia stare, possibile che tu non ti sia accorto di nulla, e va via.
Passa un cameriere e gli chiede cosa sia successo. "Come, tu non sai niente? è morto un uomo stanotte qui nell'albergo, nella camera n. 24. C'era un vecchio, si è sentito male nella notte e non è riuscito a chiedere aiuto, ha cercato di muovere un tavolino, si è lamentato, ha pianto, abbiamo visto sedie mosse, ha cercato di far giungere i segnali della sua sofferenza, ma non gli è riuscito di farli intendere a nessuno ed è morto", "Un vecchio?
Dove?", "Qui accanto, nella stanza n. 24", "Ma non c'era una coppia di sposi?", Il cameriere: "Sì, n. 24, ma del piano di sopra". La conclusione, nell'amarezza dell'esistenzialismo francese di quell'epoca, è che quando vogliamo giudicare una persona ci sbagliamo sempre di un piano; pensiamo che nella stanza accanto ci sia una festa d'amore e invece c'e' un uomo che sta morendo. Così anche noi passiamo davanti alla gente, la vediamo sorridere, ci sbagliamo di un piano...
E' vero che è un tipo di letteratura sorta in un ambiente particolare, quando andava di moda anche nella cinematografia l'incomunicabilità, ricordate la canzone di Modugno "L'uomo in frac": il vecchio che cammina lungo il fiume e saluta tutti quanti, dice addio alla vita, vestito con il frac, un candido gilè, un papillon di seta blu e dice addio al mondo. Al mattino sul pelo dell'acqua si vede galleggiare un cilindro, un fiore e un frac... un uomo che ha finito di vivere perché non ha trovato la possibilità di comunicare con nessuno.
Capite, sarà diversa la situazione, non ci saranno quelli che hanno bisogno del denaro, di una casa, qui da voi sarà diverso, ma dovunque andiate, amici miei, ricordatevi che ci sarà sempre qualcuno con cui bisogna pur condividere la propria gioia e col quale bisogna spartire la di lui sofferenza; dovunque andiate, potete andare dove volete. Capite allora questa transumanza che dobbiamo fare dalla pace della coscienza, dalla tranquillità, dalla pace che non implica itinerari, scavalcamenti di barriere, alla coscienza della pace.
Dall'obiezione di coscienza alla coscienza dell'obiezione
Un'altra transumanza che bisognerebbe fare è dall'obiezione di coscienza alla coscienza dell'obiezione. Non entriamo a discutere dell'obiezione di coscienza perché questo problema lo stanno discutendo a livello teologico, è proibito l'accesso ai non addetti ai lavori. Io spero comunque che le risposte che si daranno oggi anche dalla Congregazione della fede, saranno veramente profetiche.
Questo libro pro-manoscritto della Caritas è eccezionale anche per l'obiezione di coscienza. Pensate quanto coraggio si è espresso da parte della Caritas su questo problema; alcuni anni fa, nel 1982, il presidente della Caritas diceva (forse poi abbiamo fatto un pochettino di marcia indietro): "Dobbiamo sfidare il potere a non costruire più armi con i soldi del contribuente". I soldi devono essere destinati ad opere di pace per togliere la fame nel mondo, per la vita, non per uccidere. Allora dobbiamo anche essere pronti unitariamente a non dare contributi per le armi, ma darli ugualmente con forme che indichino la nostra opposizione agli armamenti e la nostra opera di costruzione della pace.
Dobbiamo quindi passare dall'obiezione di coscienza alla coscienza dell'obiezione, cioè al rifiuto di fronte a certe cose, di fronte al quadro delle ingiustizie planetarie, del quale abbiamo dato solo qualche rapidissimo abbozzo; di fronte a questo quadro non possiamo rimanere inerti.
Le stelle non possono stare a guardare, noi non possiamo rimanere lì a guardare se veramente vogliamo condividere la sofferenza dei poveri, non possiamo stare a guardare quando vediamo soprattutto quello che sta succedendo in Italia; lo sapete che le armi italiane uccidono in tutto il mondo? Oggi nel mondo si spara italiano, si veste italiano, si calza italiano... oggi si spara italiano... Avete tutti quanti seguito la vicenda su "Nigrizia", sulla stampa, l'anno scorso soprattutto, su questo problema.
Io non voglio entrarci dentro, però capite che basterebbe solo questa verità per farci insorgere tutti quanti contro un commercio che subordina al profitto il sacro diritto alla vita. E voi sapete che l'Italia è al quarto posto nei paesi che esportano armi in tutto il mondo, anzi al terzo posto tra quelli che le esportano nel Terzo Mondo.
Sicché con una mano diamo gli aiuti per lo sviluppo economico e con l'altra ci prendiamo questi soldi attraverso le armi che smerciamo in Iran, Iraq, Sud Africa e Afghanistan (le prime in classifica). Sapete come Pax Christi, Acli, "Missione oggi", Mlal, Mani Tese, con il cartello "Contro i mercanti della morte" abbiano parlato, gridato da due anni a questa parte perché finalmente ci sia una legge che abolisca il segreto che copre tutto questo osceno commercio di morte, perché è coperto dal silenzio, è tabù, non si sa il fatturato, niente. C'è un antico regolamento del 1941 che regola ancora tutta questa storia. Abbiamo convocato i parlamentari, siamo stati più volte ricevuti da Nilde Jotti, dalla Commissione difesa della Camera, del Senato... poi la legislatura cade e si riprende tutto da capo...
Adesso stiamo vivendo un momento di scoraggiamento; d'altra parte capite, ci stiamo accorgendo che non vale la spesa battersi solo contro il commercio clandestino, bisogna battersi contro il commercio delle armi, anzi, contro la fabbricazione delle armi: qui c'è la parresia, il coraggio profetico. "Trasformeranno le loro spade in vomeri", e non: accorceranno le loro spade a coltello a serramanico, perché sempre arma rimane. Un'altra cosa vorrei che capissimo a fondo e cioè il fatto che adesso anche nei gruppi cattolici, nella chiesa, questo problema della pace sta diventando così forte; non dipende dalla planetarietà dell'olocausto finale perché qui c'è poco da illudersi; la parola guerra è scomparsa dal vocabolario, c'è solo la parola olocausto, apocalisse, distruzione totale. Oggi una guerra trascina nella morte, non solo il drago, ma anche il cavaliere, Giorgio e il serpente.
Se noi prendiamo coscienza del fatto che ci stiamo battendo contro il commercio di armi, di morte, ci stiamo battendo per la pace, tutto questo non deve derivare dalla planetarietà dell'olocausto come se fosse proprio questa de-creazione, anti-genesi, a provocare il nostro impegno. L'impegno per la pace deve essere dettato dall'amore e non dalla paura, per cui anche una scaramuccia in paese per noi non può essere accettata. In Italia ci sono 85.000 operai che lavorano nelle fabbriche d'armi, ci sono tantissime fabbriche d'armi, dappertutto, anche a Bari; noi vescovi lo abbiamo detto in quel documento ed è per questo che non è stato pubblicato sull'organo locale più diffuso: anche il potere dell'informazione è terribile.
Dalla nonviolenza della strategia alla strategia della nonviolenza
Avviandoci alla conclusione: queste sono le transumanze forti che dobbiamo fare. Ho detto: dalla pace della coscienza alla coscienza della pace, dall'obiezione di coscienza alla coscienza dell'obiezione, dalla nonviolenza della strategia alla strategia della nonviolenza. Anche qui c'è tutta una scoperta che dobbiamo compiere come credenti, per cui in questi gruppi di solidarietà il tema della nonviolenza dovrebbe essere meglio studiato, approfondito. La nonviolenza: "Rimetti la spada nel fodero. Chi di spada ferisce di spada perirà"; con questa espressione Gesù Cristo ha disarmato per sempre tutti gli eserciti della terra: volenti o nolenti come cristiani dobbiamo prendere atto di questo fatto. Quando ci dicono: "Ma così disarmando gli eserciti come si difende la patria?" La difesa non si fa solo con le armi, c'è anche la difesa popolare nonviolenta: Gesù Cristo ci ha dato un esempio e non siamo utopici. Noi credenti non dobbiamo avere paura di questa accusa; Gesù Cristo ha disarmato uno schiaffo; al soldato che lo ha schiaffeggiato di fronte al sommo sacerdote non ha risposto con un altro schiaffo, ma dicendo: "Se ho parlato male dimmelo, se ho parlato bene perché mi percuoti?". Chissà come si è sentito incenerire quel soldato.
Concludo davvero dicendo che se noi ci facciamo carico di tutte le sofferenze del mondo, se le assumiamo come sofferenze nostre e se lo facciamo anche con uno stile cristiano sull'esempio di Gesù Cristo che ha condiviso in tutto e per tutto la nostra condizione umana eccetto il peccato, Lui che ebbe l'icona della condivisione nel modo più totale, se noi facciamo questo sono convinto che i grovigli della speranza cominceremo a sentirli anche percettibilmente sulla nostra schiena. Sono stato due anni fa in Argentina a trovare un parroco della mia diocesi che a 51 anni ha lasciato tutto ed è andato in missione là. In un ritiro del clero mi sfuggì: "Nonostante tutto, se qualcuno volesse partire missionario non troverei nessuna difficoltà"; lui il giorno dopo viene da me e dice che vuole andare via. Sta in Patagonia; sono andato a trovarlo perché non stava molto bene; un giorno siamo andati in una città, forse la più bella dell'Argentina (un po’ come la nostra Cortina D'Ampezzo), luogo di villeggiatura dei "big", che si chiama Bariloche.
Attorno alla città dei ricchi sfondati c'è la cintura della miseria, incredibile... Io non ho visitato la Bariloche "bene" ma quella della povertà, delle baracche fatte di cartoni, di lamiere contorte. Era il mese di ottobre che corrisponde al nostro mese di marzo, c'erano alberi innevati e c'erano bambini scalzi nonostante il freddo, il fango, che facevano volare gli aquiloni.
Io ne ho "catturato" uno con le lusinghe del "signorotto" e gli ho chiesto dove abitasse: mi ha indicato una capanna. Siamo entrati dentro, una casa misera, terribilmente misera, con un donna di 30 anni che aveva 12 figli, una donna che doveva essere molto bella; solo gli occhi le erano rimasti belli... C'era un tavolino con un libro: il Santo Evangelio. Ho chiesto a quella signora in italiano - capiva perché era cilena - se leggeva il Vangelo; la signora ha risposto: "Unico consuelo por nuestra povereza" (unico conforto per la nostra povertà). Quando sono uscito fuori ho visto gli aquiloni nell'aria e mi sembrava che fossero stati ritagliati sulle pagine del Vangelo e che andassero a portare annunci di liberazione agli estremi confini della terra.
Io credo che se noi non tiriamo i remi in barca, se non ci lasciamo abbattere da tante contraddizioni, avversità, perché è faticoso, la speranza ancora può rinascere su questa vecchia terra. Perciò vi faccio tanti auguri perché il vostro impegno non demorda e perché possiate anche suscitare in tutti coloro che vi accompagnano in questo cammino tanto coraggio e tanta buona volontà.
Tonino Bello
(da La Non violenza in cammino, n. 1145 del 15 dicembre 2005)