Pace e teologia
di Eduardo Benvenuto
Il frequente riferimento del magistero e dei credenti alla pace mostra, talora, una scarsa profondità teologica. Il saggio di E. Benvenuto attraversa la storia della teologia e gli scritti più recenti (Jüngel, Molari, Moltmann, Westermann, Weizsäcker, ecc.) per cogliere diversità e consonanze.
La tradizione protestante colloca la pace cristiana non nel progetto storico, ma nella radice della persona. Essa è corpo della verità di Cristo.
Fra la linea interpretativa greco-romana e quella ebraica la proposta di pace del Cristo è «irrinunciabile contestazione di ogni lungimirante promessa di pace... a sostegno di un progetto umano, per quanto ragionevole e pio».
La conseguente linea del martirio. Gli esempi di Francesco, Bartolomeo de Las Casas, Francisco de Victoria, Erasmo da Rotterdam. La pace è martirio accolto senza riserve e testimonianza disarmata.
1. Dalla pace come «progetto» alla pace come «verità»
Anche il Grande Inquisitore de I fratelli Karamazov perseguiva un suo progetto di pace: nel suo cuore albergava un’immagine esaltante di quel momento ancor lontano ma sicuro, nel quale infine tutti i popoli della terra si sarebbero decisi di affidarti alla chiesa per ricevere dalle sue mani il dono imperituro della pace universale nel nome di Cristo. «Ah, certo, - egli spiegava quella notte a Gesù improvvidamente tornato anzitempo sulla terra e da lui subito rinchiuso in carcere - passeranno ancora secoli e secoli tra gli eccessi del libero arbitrio, della scienza e dell'antropofagia, perché, avendo cominciato a costruire senza di noi la loro torre di Babele, termineranno con l'antropofagia. E sarà proprio allora che la bestia striscerà verso di noi e ci leccherà i piedi con la lingua, e li innaffierà con lacrime di sangue. E noi ci siederemo sulla bestia e innalzeremo la coppa con la scrirta “Mistero". E allora, solo allora, comincerà per gli uomini il regno della pace e della felicità».(1)
Come si vede, dunque, l'annunzio di una pace ventura, frutto di un grandioso disegno religioso o politico, degno d'essere realizzato con energia e durezza, non è certo una novità ed anzi sta alla base delle più tristi manifestazioni della violenza istituzionale. La promessa di pace, anche se autentica, trattiene sempre in sé un elemento oscuro di ambiguità: coronando e legittimando ogni utopia, non può caratterizzarne nessuna in particolare, ma può servir soltanto a giustificare chi detiene il potere e pretende di essere creduto quale necessario strumento del futuro ordine nel quale la pace regnerà sovrana. Non mi interessa ora discutere se Dostojevskij abbia correttamente inteso il progetto della chiesa cattolica, associandolo alla figura tragica e tenebrosa del Grande Inquisitore. O se non abbia semplicemente obbedito al vecchio pregiudizio protestante che scorge in Roma l'opera dell'anticristo; tanto meno oso avanzare il sospetto che l'incalzante enfasi data al tema della pace dal magistero ecclesiale nel nostro secolo, unendosi costantemente alla denunzia della «cultura di morte» trionfante nel mondo moderno e all'evocazione dei perduti valori di una rimpianta «civiltà cristiana», possa aver talvolta corrisposto a segreti pensieri non lontani da quelli del personaggio dostojevskiano.
Mi interessa invece esaminare con una certa attenzione il concetto di pace nella sua declinazione cristiana, a partire appunto dall'ambiguità del suo annunzio; ambiguità (o plurisemanticità) che peraltro si riflette nella tormentata storia della teologia sull'argomento. Mi interessa inoltre tentar di comprendere il senso autentico della prospettiva cristiana sulla pace nell'attuale momento storico caratterizzato da impressionanti eventi a scala planetaria, che ancor pochi anni fa sarebbe stato assurdo prefigurare, e dal progressivo diffondersi di movimenti politici e culturali vieppiù incidenti, che della «scelta di pace» hanno fatto il proprio nobile vessillo.
Una prima osservazione si impone: la pace di cui oggi si parla, quale nuovo fondamento di una «cultura non violenta», non ha più nulla a che vedere con la pace promessa dal Grande Inquisitore al termine di un processo tuttora inconcluso e bisognoso di una milizia fedele, fors'anche spietata e inflessibile. Questi ultimi anni hanno conosciuto il crollo di ogni tensione utopica verso un mondo diverso ancor custodito dall'immaginazione creatrice. Vero è che nel '68 si leggeva a Parigi la scritta sognante «l'imagination au pouvoir», ma oggi tale scritta appare soltanto il colmo dell'ingenuità, o meglio, non riesce più a veicolare alcun entusiasmo: né il gesto marcusiano di un rifiuto globale della società esistente, né il presagio di una nuova totalità dischiudentesi oltre il muro d'ombra di una rivoluzione globale, sembrano esercitare un qualche fascino. Chi si attarderebbe ancora a operare per l'improbabile avvento di una società senza classi nella quale sia soppresso il dominio del capitale e ad ognuno sia dato secondo il bisogno, essendo ormai sparita ogni forma di sfruttamento del lavoro altrui? Non soltanto l'improvvisa dissoluzione del «socialismo reale» è dinanzi ai nostri occhi, ma soprattutto il sospetto è dilagato che dalla profezia marxista null'altro resti da attendersi e sia più conveniente prender atto della complessità dei fenomeni economico-sociali per elaborare adeguate «politiche» (policies) che assumano la base strutturale come un dato e non come ingenuo termine di progetto.
Svolta linguistica e concettuale
Probabilmente non riusciamo a renderci conto della svolta che si è realizzata nel giro di un decennio: una svolta linguistica oltre che concettuale, in virtù della quale sono state via via emarginate le parole che nel recente passato costituivano il patrimonio tipico della cultura di sinistra, alludendo alla totalità di un progetto connotabile, su cui orientare la lotta politica. Ad esempio, in urbanistica è entrato in crisi il concetto di piano, così come in economia l'idea di programmazione: altre parole sono subentrate, che si richiamano piuttosto a un giuoco fra le parti, alla logica del contratto e della mediazione; oppure è accaduto che un elemento periferico, un tempo ritenuto subalterno alla globalità del progetto, abbia acquistato improvvisamente un inedito ruolo centrale. Se prima si parlava di territorio, e il problema stava nel definire un acconcio piano territoriale onnicomprensivo secondo le sue diverse scale, oggi si preferisce parlare di paesaggio e l'elemento paesistico è assurto a principio organizzatore di nuove prassi pianificatorie, benché spesso sbilanciate o frammentarie. Così dicasi per il tema dell'ecologia e della qualità della vita: anziché ricercare un nuovo assetto politico, sociale, economico e urbanistico che comprenda tra i suoi effetti anche il rispetto ambientale e il miglioramento delle condizioni quotidiane di vita oggi sembra vittorioso il convincimento che tale assetto futuro resta pura chimera se non si opera già subito e con il massimo vigore per l’ecologia e la qualità.
Tutto ciò riveste indubbiamente notevole significato sia pratico, sia speculativo: si tratta di un atto prolettico-anticipativo (non estraneo alla dinamica della fede!) che vuole affermare l’essenziale e possederlo senza più rinviarlo alla previa realizzazione delle sempre incerte condizioni che dovrebbero esserne il fondamento sicuro: ovvero, si tratta dell’opzione retorica (non incongrua in un epoca governata dalla gestualità pubblicitaria) per una figura di discorso, la sineddoche che dice la parte per il tutto e che cioè riesce a evocare la globalità anche in assenza di ogni sua attendibile connotazione. In questo si manifestano aspetti di continuità e di rottura rispetto al principio di base del pensiero rivoluzionario che giudicava impossibile all'uomo, sopraffatto dalle idee dominanti della società borghese, intravedere qualcosa del mondo nuovo, frutto della rivoluzione (Rosa Luxenburg) ancor vale il riconoscimento che i condizionamenti attuali impediscono di dar forma a un progetto per il futuro; ma tale futuro non è più sperato oltre il passaggio per la distruzione totale dell’esistente; è bensì preteso senza indugio nell’assicurazione seppur parziale e inorganica dei suoi tratti più seducenti.
Ebbene la pace è appunto una di quelle parole che nel momento attuale sono state portate al centro dell’attenzione per esprimere l'atto prolettico-anticipativo o la sinéddoche di cui s'è detto qui sopra. Non si tratta più della pace che consegue da un nuovo ordinamento delle relazioni politiche, sociali, o generalmente interumane, e che dunque è il frutto della vittoria su chi si oppone a tale ordinamento; si tratta invece di una pace che vale in sé, quale valore incondizionato e imperativo categorico: una pace da riscoprire latente alle radici dell’identità umana, che quindi occorre perseguire senza mai rinviarla al termine di un progetto politico, per quanto generoso che la riempia di contenuti particolari. Anzi, nessuna battaglia cruenta dev'essere combattuta nel suo nome, poiché non c’è vittoria che possa recarla in dono attraverso la sconfitta di una delle parti oggi confliggenti; essa sovrasta ogni conflitto e precede ogni vittoria, tant’è che appartiene alla speranza di tutti coloro che guerreggiano per ottenerla, quale che sia il loro esercito. Essa riguarda pertanto l'elemento più intimo ed essenziale delle relazioni tra uomo e uomo: appartiene al fondamento costitutivo dell'antropologia, delineandone la struttura ontologica che permane immutabile al variare degli orizzonti storici. Per questo, una tal pace vien subito tradita da chi, pur con le migliori intenzioni, la subordini alla previa realizzazione di determinate condizioni, mentre si disvela a chi ne faccia l'assillante presupposto e la norma suprema della propria testimonianza disarmata e disarmante.
Struttura ontologica non movimento storico
La prospettiva che così prende forma è senz’altro suggestiva. Sarebbe forse eccessivo e ingannevole supporre che ad essa si richiamino le numerose Friedensbewegungen, i variegati Movimenti per la pace. che insospettivano l'anziano teologo Karl Rahner, in genere tanto generoso e accogliente nei confronti delle nuove istanze generazionali. (2) Tuttavia, è indubitabile che nel repertorio (alquanto magro, in verità) delle più recenti proposte teologiche sui tema della pace, quella prospettiva torna con una certa insistenza, gettando una luce inattesa e originale sui percorsi speculativi più degni di nota. Se la scelta di pace concerne - come si è sopra avanzato - il cuore dell'ontologia umana, anziché il multiforme evolversi della storia, allora ciò vuol dire che essa si pone al cospetto della Verità e in questa riposa, distinguendosi così da ogni altra scelta etica determinata dal contesto storico. Tra pace e Verità si instaura perciò un rapporto privilegiato: C. F. von Weizsäcker esprimeva questo rapporto con una metafora di grande bellezza: la pace è qualcosa come il «corpo di una verità». Egli scioglieva poi la metafora spiegandola così: «La pace può essere possibile finché dura la verità che la regge». (3)
Riprendendo tale suggestivo spunto, Eberhard Jüngel ha scritto nel 1982 un prezioso piccolo trattato su L'essenza della pace, nel quale la pace assurge a categoria dell'antropologia teologica. Jüngel corregge opportunamente la venatura storicistica che permane nella spiegazione data da von Weizsäcker alla sua metafora: non ogni concezione che in una assegnata cultura e per un certo tempo appaia veritiera può reggere la pace autentica, ma la Verità ultima e definitiva sull'uomo. Muovendosi nell'ambito della fede, Jüngel non può che riferirsi alla verità di Cristo risorto e i1 triplice saluto di pace (Gv 20, 19.21-26) che realizza l'annuncio di Gv 14,27: «Vi lascio la pace. vi do la mia pace; ve la do non come la dà il mondo». Cristo risorto rivela che l'essenza dell'uomo è un «essere per la pace»: e questa è appunto la Verità di cui la pace autentica è «corpo». La storia testimonia la perdurante tensione «tra la realtà dell’uomo la cui sigla è la guerra, e la verità dell'uomo che è di essere un essere di pace»: ma se è compito dell’uomo «realmente diventare quello che veramente è» - allora è necessario che egli comprenda la pace nella sua primigenia natura: «verità previa», che non dall'uomo, ma da Dio procede, e che nella quotidianità storica non deve essere proposta solo all’imperativo, quale comando o auspicio, ma deve essere detta all'indicativo, secondo il modo verbale che propriamente compete all'annuncio della verità. (4)
2. La pace di Cristo come fondamento di una nuova teologia
Torneremo in seguito sulle stimolanti considerazioni che Jüngel ha saputo sviluppare partendo da queste premesse. Per ora, tuttavia, è opportuno segnalare che anche tale paradigma di soluzione non può ritenersi del tutto chiaro. Il concetto di pace viene infatti a tal segno elevato da rischiar di mutarsi in astratta categoria antropologico-teologica, ovvero in componente interna di un discorso di fede che pretenda di radicarsi alla base dall'ontologia umana, trovando in essa il proprio fondamento. Sotto il profilo storico, la connessione tra pace e verità è tutt'altro che «pacifica»: occorre anzi ammettere che la proclamazione della Verità cristiana sull'uomo non ha purtroppo garantito reali progressi sulla via della pace, ma spesso è valsa in senso contrario a produrre divisioni, violenze e guerre.
In questo spirito si espresse qualche anno fa il teologo Giuseppe Mattai in una tavola rotonda organizzata a Palermo dal gruppo EirHnH (Eirene): egli iniziò il suo intervento con le seguenti parole che difficilmente potranno essere contraddette: «...intervengo con una sorta di "pudore”, non solo per la memoria storica delle violenze omicide perpetrate in nome di Dio e della religione (sacro e violenza è un binomio che purtroppo è andato spesso congiunto), ma anche e soprattutto per la legittimazione della guerra... e per i compromessi molteplici con lo spirito militarista giocati da uomini di chiesa in antico e, forse. anche dei nostri giorni». (5) Mattai adduceva tre ragioni del suo «pudore»: la prima riguarda il fatto che, fin dai primi secoli del cristianesimo, si introdusse nella chiesa una «morale del doppio binario», secondo la quale i chierici dovevano essere esentati da un diretto coinvolgimento nelle vicende cruente, mentre i laici eran tenuti a spargere il sangue proprio e altrui nelle «guerre sante».
La seconda ragione riguarda la «lettura schizofrenica del discorso della montagna» che alla fine prevalse nella chiesa, per via della quale si ritenne di dover interpretare alla lettera le espressioni relative al matrimonio e all'indissolubilità coniugale (Mt 5,27s), mentre le norme relative alla non violenza furono intese in senso debole e traslato, come meri consigli per un eroico cammino di santità singolare (Mt 5,38s), ma inapplicabili alla grande comunità umana.
La terza ragione, infine, si riferiva al riconoscimento che nel discorso cristiano su pace e guerra si è fatto appello generalmente a un concetto di Dio che ben poco ha da spartire col Dio di Gesù Cristo: un Dio mitico-sacrale e politico, strumentalizzato al consolidamento di un sistema culturale e sociale, la cosiddetta «civiltà cristiana», che ancor oggi, purtroppo, ricorre frequentemente a senza adeguate distinzioni storico-critiche nella parole del magistero.
Si deve riconoscere che i tre punti indicati da Mattai sono largamente condivisi da chi, nel mondo cattolico, ha dato vita o partecipato alla «nuova cultura per la pace» professata da comunità, associazioni e movimenti più o meno interni alle istituzioni. In particolare, la riflessione teologica degli autori più significativi si è venuta sviluppando nell'esplicita convinzione che un annunzio efficace di pace comporti anzitutto una serena ma radicale autocritica ecclesiale, se non addirittura una «conversione necessaria dei teologi (e dei catechisti) per la svolta storica che la nostra generazione deve compiere».
Queste parole sono tratta da un notevole saggio di Carlo Molari che apre il volume collettaneo Per una teologia della pace edito da Borla nell'ambito di una collana dedicata al tema, a cura di G. Novelli del «Centro interconfessionale per la pace». Secondo Molari, «tutta la teologia cattolica può ancora essere percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. Spesso perciò con una teologia inadeguata noi contribuiamo all'educazione di uomini violenti, pur difendendo ideali di pace e proclamando il vangelo della fratellanza universale». Di più: «La chiesa non è preparata alla svolta che la storia oggi ci chiede; per compiere la sua missione salvifica deve assolutamente realizzare una radicale conversione e orientare tutta la sua esistenza alla costruzione della pace». (6)
Parola con molti sensi
Elaborando con ampiezza di respiro, seppur in modo succinto, il proprio argomento, Molari indica alcuni «modelli teologici» che a parer suo debbono essere profondamente revisionati alla luce della categoria dalla pace. Ad esempio la concezione di un Dio onnipotente, signore degli eserciti, inflessibile con i (nostri) nemici, «violento e guerriero», deve cedere il posto alla figura molto diversa del Dio salvatore rivelatoci da Gesù Cristo: «Dio della pace e non della vendetta, Dio della fraternità e non della supremazia, Dio della risurrezione e non della vittoria». (7) Analogamente dovranno essere riveduti numerosi altri elementi della consueta presentazione della fede, dal racconto delle origini alla lettura magico-demiurgica dell’azione di Dio nella storia, da una soteriologia incentrata sull’inattendibile concezione «giuridica» della dottrina di S. Anselmo (Cur Deus homo?), alla teoria relativa all'ordine «soprannaturale» che, limitando ai soli cristiani, anzi, ai soli cattolici la possibilità di costruire il regno di Dio, «conduceva al disprezzo di tutte le altre forme di religione, che spesso venivano considerate come frutto dell'azione del demonio nella storia». (8)
In conclusione, per Molari, la nuova ottica della pace impone ben altro che la perorazione per il disarmo: impone un atteggiamento spirituale del tutto nuovo al quale deve corrispondere «una teologia purificata da tutti gli elementi di violenza e di assolutismo che contiene. In particolare, è necessario evitare ogni dualismo e contrapposizione: azione di Dio-azione dell'uomo, grazia-natura, storia-regno». (9)
Nonostante l'indubbio interesse di queste considerazioni, e pur aderendo a quanto disse nel 1986 il card. R. Etchegaray, quando affermò che «la promozione della pace non può rimanere artigianale, ricondotta a bricolage di buone idee o alla suggestione di buoni sentimenti», resta tuttavia da domandarsi se non sia quanto meno eccessivo riguardare la scelta di pace quale principio organizzatore e fondamento di una così estesa ricostruzione teologica. Non è forse troppo pretendere questo da una parola certamente evocativa e pregnante, ma pur sempre aperta a molteplici, se non contrastanti, significati, sin nello stesso linguaggio biblico? E anche se si decide di accogliete l'annunzio cristiano di pace quale preminente figura dell'intero messaggio di salvezza, come può la sinéddoche esser norma della propria corretta interpretazione?
In realtà, come osservava Jürgen Moltmann in un suo attraente discorso su «La pace di Dio» tenuto anni fa alla radio bavarese e pubblicato nel volume Il linguaggio della liberazione (trad. it,, Queriniana, Brescia 1973, pp. 101-110), «se tutti, e anche noi, parliamo di pace non è detto che tutti intendono la stessa cosa... Ci sono troppi falsi profeti che dicono: pace, pace! e pace non c'è, e ciò anche nella chiesa. Lo pace non è sempre e in ogni caso un bene. Neppure Gesù è venuto nel mondo sotto le spoglie di un angelo di pace che placa e rabbonisce i contendenti. Il modo con cui egli ha portato sulla terra la pace di Dio ha provocato discordia e divisione. Per questo egli è stato crocifisso dai signori e dalle potenze di questo mondo come un turbatore della pace. Agli apostoli della pace di Cristo non è stato promesso un destino diverso: sofferenza, persecuzione, critica e scandalo. È necessario quindi che esaminiamo con maggiore esattezza che cosa deve essere la "pace", di cui si intende parlare e come essa deve essere vissuta». (10)
Potenza del rapporto di grazia
L'impostazione di Moltmann - in questo simile a quella più recente di Jüngel - si muove, per dir così, in senso contrario alla proposta di Molari: non è la scelta di pace a promuovere un diverso parlare di Dio, ma è la fede in Cristo crocifisso a imporre un diverso parlare di pace: «Se intendiamo parlare cristianamente della "pace di Dio" non dobbiamo benedire qualsiasi idea di pace e neppure parlare di pace, ma ricordarci il più radicalmente possibile che la pace viene resa presente, è prodotta e portata in mezzo a noi da Dio Padre mediante il Cristo crocifisso. Tra la pace di Dio e il mondo sta la croce... La pace di Dio non equivale perciò a essere soddisfatti e contenti del mondo, ma è anche sacra insoddisfazione e guerra con le potenze e i signori di questo mondo». (11)
Procedendo su questa via, è facile intuire qual è la mèta: il concetto di pace viene elevato a tal segno da perdere quasi ogni riferimento alla questione della non violenza, per esprimere invece la pienezza del rapporto di grazia tra l'uomo e Dio. «La pace che il Crocifisso rivela sta... nella remissione della colpa, nella liberazione dal potere della colpa» (12) Il riconoscimento di tale grazia, che trascende ogni bilancio moralistico e ogni vana rassicurazione sacrale, conferisce alla pace di Dio il duplice aspetto di una «liberazione dagli idoli» e di una «liberazione dalla paura». «La libertà dalla paura della morte e dal timore degli uomini è il più grande dono della fede. Senza una tale libertà vissuta - così Moltmann conclude - non vedo come possa realizzarsi una pace significativa». (13)
Analogo, sebbene assai più illuminante e originale, è l'esito a cui perviene Jüngel nel saggio che si è sopra ricordato. L'antropologia teologica che l'autore intende radicare alla categoria della pace poggia sulla verità previa del dono di pace già da sempre offerto all'uomo da Dio. L'uomo avverte al modo di imperativo morale l'esigenza di falsificare la tenebrosa realtà storica del principio di Hobbes: homo homini lupus. Il saluto di pace, secondo la Bibbia, intende realizzare una diversa situazione nella quale valga il vero principio della convivenza umana: homo homini homo, «l'uomo sia uomo per l'uomo». Ma questa nuova proposizione «non si fonda né si regge da sola. Essa non ha in sé nessuna forza assiomatica, ma deve essere fondata e retta da un'altra verità. Quest'altra verità è stata espressa dal NT quando ha chiamato Gesù Cristo nostra pace. L'indicativo della pace è costituito e garantito, secondo il giudizio della fede cristiana, in questa unica persona nella quale Dio si è fatto uomo per l'uomo. Se però in Gesù di Nazaret Dio stesso si è fatto uomo per l'uomo, allora la proposizione antropologica homo homini homo è fondata nella proposizione cristologica Deus homini homo e da essa è sorretta». (14)
Le tesi di Jüngel
L'argomento è ammirevole: tornando alla metafora di von Weizsäcker, della pace come «corpo di una verità», Jüngel può ora indicare quale sia la verità unica e irrevocabile di cui la pace autentica è corpo: e la verità cristologica che dice l'uomo nella sua interezza, nella sua tensione escatologica e quindi nella sua dinamica governata dalla sicurezza creativa (schöpferische Geborgenheit) rispondente al concetto biblico di shalom. Di qui le tre tesi che traducono nella storia la verità dell'uomo come «essere per la pace» e che coronano la nuova antropologia teologica di Jüngel:
1) «L'uomo è un essere della pace perché e nella misura in cui della sua esistenza fa parte il rimando e l'appoggio alla sicurezza creativa»;
2) «L'uomo è un essere della pace perché e nella misura in cui della sua esistenza fa parte la capacità di dare e di ricevere fiducia»;
3) «L'uomo è un essere della pace perché e nella misura in cui della su a esistenza fa parte la responsabilità per l'indicativo della pace». (15)
A parer mio, il breve trattato del teologo protestante su L'essenza della pace, che ho tentato qui di riassumere nelle sue principali conclusioni, rappresenta lo sforzo speculativo più notevole per dare contenuto non banalmente parenetico all'annunzio cristiano di pace. Il punto decisivo della riflessione di Jüngel sta nel riconoscimento che tale annunzio non è mero auspicio e nemmeno esortazione al ben fare, ma è anzitutto confessione di una verità già operante nel reale, o meglio, della Verità disvelata in Gesù Cristo che definisce l'interezza dell'uomo nella sua più profonda essenza: un essere per la pace. Siamo agli antipodi del vecchio concetto di una pace ventura da ottenersi quale frutto terminale della conversione del mondo alla fede (o alla chiesa, secondo la prospettiva del Grande Inquisitore): qui invece la pace diviene la cifra anticipativa che si appella a una originaria e universale istanza dell'uomo in cerca della propria verità, ma che resta oscura, fragile e infondata fintantoché non pervenga alla piena luce di Cristo nostra pace.
Nulla di più confortante potrebbe essere immaginato per il credente. Eppure oso ancora dire che non tutto è chiaro Tratto caratteristico di una simile teologia è che ognuno dei suoi concetti, elaborato sino in fondo, converge all’interno della fede e si trasfigura in sineddoche dell’unico gran disegno possente della nostra salvezza, di cui soltanto il cristiano può avvistare il profilo. In altri termini, si da una struttura impredicativa del linguaggio teologico in virtù della quale nulla può essere inteso se non con riferimento alla totalità, e solo dall’alto l’analogia fidei può spezzare il circolo, illuminando a ritroso le diverse realtà che tutte insieme ed ognuna per sé connotano l’intero. V’è qui lo spirito del migliore pensiero protestante: al cospetto del Tutto ontologia e storia si confondono, l’avvenimento dell’incarnazione di Dio in Cristo non è che il dispiegarsi storico della Verità già da sempre incisa alla radice dell’antropologia, non c’è lacerazione che non sia ricomposta, non c’è dono che non sia riconferma, non c’è avere che non sia essere, non c’è operare che non sia «realmente diventare quel che veramente si è».
Entro questa cornice teorica si può ben comprendere perché la categoria della pace assuma particolare centralità. La vera «pacificazione» è ormai già celebrata a monte a livello speculativo includendo anche la negatività del dolore, della divisione, della morte al modo di momento dialettico che vieppiù rinsalda la compagine totale nella sua positiva pienezza: si veda in tal senso l’interpretazione della theologia crucis offerta da Moltmann ne Il Dio crocifisso (16) e riaffiorante nel suo scritto su «la pace di Dio» sopra menzionato. Ebbene, il concetto biblico di pace, shalom, sembra essere appunto il più appropriato indicatore di codesta pienezza da riconoscere nella fede all'indicativo della verità e da testimoniare nella vita all'imperativo dell'impegno morale.
Tuttavia, è proprio su questo punto che mi sembra necessaria una riflessione critica, per accertare se davvero l'annunzio cristiano di pace faccia semplicemente «séguito al discorso veterotestamentario sullo shalom», (17) così come asserisce Jüngel per fondare sulla pace di Cristo la sua antropologia teologica, o se invece la pace che il Risorto ha donato al mondo non sia tutt'altra cosa ancora, tale da scardinare anche le premesse della «pacificazione» speculativa che l’analogia fidei pretende di realizzare nell'impredicatività del linguaggio teologico. La questione è delicata e richiede almeno un breve cenno alla movimentata storia del concetto di pace nell' antichità classica, nella cultura ebraica e nel pensiero cristiano.
3. Da eiréne a shalom: la pace come «pienezza»
Sia Moltmann, sia Jüngel, sottolineano con vigore che lo shalom biblico, cui essi intendono riferirsi, differisce profondamente dalla eiréne greca, dalla pax romana. L'eiréne cantata da Esiodo come figlia di Zeus e associata da Pindaro alle altre due ore, l'eunomia (disciplina) e la dike (giustizia), resta infine definita per via negativa, come cessazione o tregua della guerra che Eraclito affermava essere «madre di tutte le cose». Ogni guerra è certamente combattuta non per se stessa (Aristotele, Etica nicomachea X, 7), ma per la pace che seguirà alla vittoria, e Atena, dea della guerra vittoriosa, è chiamata anche «portatrice di pace»: ciò instaura però un rapporto indissolubile tra la pace e la volontà imposta dal vincitore: (18) un rapporto destinato a intensificarsi ancor più nella civiltà romana. «Si vis pacem, para bellum», scriveva Publio Renato Vegezio, autore di arte militare: il dare pacem - infatti, implica il de-bellare e il per-domare; su un mondo «pacificato» in tal guisa regnerà il fanciullo celebrato da Virgilio nell'Ecloga IV («pacatumque reget patriis virtutibus orbem». v. 17).
Ma c'è di più: come bene osserva G. Pattaro, l'esperienza occidentale che trova nella Grecia e in Roma il suo retroterra, «considera la pace non come fine ma solo come mezzo, nel senso che, solo nelle condizioni di pace, le città e i popoli possono finalmente realizzare i progetti fatti». (19) Così infatti si esprime Cicerone ne Le Filippiche: «Pace è un nome che suona dolcemente, e vivere in pace è un gran bene: ma non c'è pace dove c'è servitù: corre tra loro un abisso. La pace è libertà serena (tranquilla libertas), e la schiavitù è il peggiore dei mali, da respingere non solo con la guerra, ma anche col sacrificio della vita».
Il concetto è chiaro: la pace è sì un bene degno d'essere perseguito, ma non vale in sé, incondizionatamente; essa designa una situazione di tranquilla libertà nella quale possano essere realizzate altre mète; in caso contrario è asservimento ad altrui obiettivi e deve essere combattuta senza riserve.
Nel medesimo spirito, Blaise Pascal affermerà il valore condizionato e strumentale della pace, confrontandola col valore superiore e apodittico della verità. In uno dei suoi «frammenti polemici» contro i «gesuiti» e i «nuovi casisti» egli scrisse: «C'è... un tempo in cui la pace è giusta e un tempo in cui è ingiusta. E sta scritto "c'è tempo di pace e tempo di guerra” 'Eccl., III, 8), e chi li discerne è l'interesse della verità. Ma non c'è un tempo di verità e un tempo di errore: anzi, sta scritto che "la verità di Dio permane in eterno” (Psalm,, CXVI, 2). Ecco perché Gesù Cristo, il quale affermò di esser venuto a portare la pace, dice parimenti di essere venuto ad apportare la guerra (cf Joan., XIV, 27. Mt, X, 34): ma non dice di esser venuto ad apportare la verità e l'errore. Pertanto, la verità è la regola prima e il fine ultimo delle cose». (20)
Di contro a questa classica tradizione senza dubbio prevalente nella nostra cultura, che vincola la pace all'esser mezzo per la realizzazione di altri fini (libertà, verità, giustizia. ecc.), sta l'altra linea di pensiero che deriva dal concetto veterotestamentario di shalom: concetto polimorfo ma intenso quant'altri mai, che in sé aduna l'universo del desiderio ebraico, sia nella sfera più intima del singolo uomo, sia in quella interpersonale e sociale, sia infine in quella più vasta riguardante i destini del popolo eletto. Ogni momento della vita è in esso compreso nella sua positività connessa all'obbedienza a Dio: «L'amicizia, l'abbondanza, la concordia, l'intesa, l'incontro e, più in generale, la speranza che accada quanto di più desiderato l'uomo cerca, in fedeltà a Dio, nella vita». (21) L'etimo della parola shalom può aiutare a comprendere questa vastità di campitura: come spiega Cl. Westermann, shalom «è formata da un verbo che significa completare qualcosa, renderlo integro e sano». (22) Da ciò segue quell'intenzionalità alla pienezza di un rapporto tra l'uomo, il cosmo e Dio che appartiene al concetto ebraico di pace: lo shalom non è dunque subordinato ad altri valori, come lo è la pace dell'occidente, ma è il termine ultimo in cui ogni altro progetto umano confluisce e che trova totale realizzazione nel «giorno del Signore», (23) pur conservando un diretto e corposo riferimento alla realtà storica.
Le intenzioni esorbitanti
Riesce agevole capire, allora. perché la maggior parte degli autori contemporanei che hanno inteso introdurre il tema della pace nell'odierna impostazione antropocentrica della teologia, abbiano ravvisato nello shalom veteratestamentario il più suggestivo referente biblico di quella categoria di totalità, di pienezza, di «Vollendung» o compimento, che generalmente viene oggi evocata per esprimere lo specifico della verità di fede, rispetto alle istanze di salvezza storicamente emergenti o ai progetti e ai valori strettamente umani. In questo senso è stato possibile a Jüngel assumere la pace quale base di un'antropologia teologica, incentrando il proprio argomento sulla continuità tra lo shalom ebraico e la pace donata da Cristo. In questo senso, ancora, è stato possibile a Moltmann chiarire che il senso autentico della pace cristiana risiede nella pienezza di grazia che, tramite il Crocifisso, libera dalla colpa, dalla paura e dalla morte.
Sarà opportuno osservare, peraltro, che una siffatta «attualizzazione» dello shalom non ottiene l'unanime consenso del teologi e, in particolare, dei biblisti, Mi riferisco, ad esempio, a un eccellente studio di Hans Heinrich Schmid, che mette in guardia dall'uso precipitoso ed enfatico del concetto nelle discussioni attuali sulla pace. «L'AT - scrive l'autore - non è solo un libro canonico, normativo per la fede e la teologia; è anche un libro del passato: un passato che si esprimeva con un altro linguaggio, che prende le mosse da particolari presupposti concettuali, politici e religiosi, dai quali risulta profondamente segnato». (25) Da un'attenta analisi dei testi Schmid giunge a concludere che «per l'A.T. la pace è fondamentalmente quella del mondo israelitico. Negli studi di critica sovente si afferma che, quando l'A.T. si apre a pensieri universalistici, questo limite viene superato. Ma i testi non confermano questa tesi. Certo, nella storia della religione israelitica si è giunti progressivamente a intendere Dio come sovrano e signore di tutto il mondo. Tuttavia… il centro del mondo rimane Israele, in particolare Sion. La pace definitiva poteva essere rappresentata solo con la sottomissione o l'annientamento degli altri popoli». (26)
È probabile che Schmid abbia buona parte di ragione e che non sia prudente il voler caricare lo shalom veterotestamentario di intenzioni esorbitanti, a noi pervenute dal doppio filtro del Nuovo Testamento e della tradizione cristiana successiva, sino alla svolta del pensiero contemporaneo, che trova le sue radici nei concetti illuministici di contratto sociale e di diritto dei popoli. Quel che si richiede è appunto tentar di misurare la portata rivoluzionaria del messaggio di Cristo, anche sul tema della pace, sia in relazione a quello shalom che compendiava il desiderio di Israele, sia - soprattutto - in relazione alla contraddittoria storia della sua ricezione nella civiltà occidentale.
4. Non pace ma fuoco: il senso autentico della pace di Cristo
Il rapporto tra la pace di cui parla Gesù e lo shalom degli ebrei deve essere esaminato in tutta la tua problematicità - curiosamente lasciata in ombra o comunque «edulcorata» da molti studiosi. Si tratta soltanto di un'ulteriore e decisiva universalizzazione-intertorizzazione del concetto che porta a pienezza di compimento un processo già adombrato dal pensiero profetico? Se è vero, come dice Schtmid, che «nella sua predicazione Gesù si è rivolto solo a Israele», (27) la novità del suo annunzio del Regno imminente consiste soltanto nell’interpretazione estensiva di questo evento che dovrà coinvolgere tutti i popoli della terra? Ma se è così, come si può capire il fatto che Gesù abbia decisamente negato di esser venuto a portar la pace sulla terra? «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse gia acceso! C’è un battesimo che devo ricevere: e come sono angosciato finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera» (Lc 17, 49-53).
Non credo sia possibile passar sotto silenzio questo passo inquietante o sbiadirlo intendendo che Gesù volesse riferirsi alla pace menzognera già denunciata da Geremia quando gridava contro i falsi profeti: «Essi curano la ferita del mio popolo, ma alla leggera, dicendo pace, pace, ma pace non c’è» (Ger 6,14). Un riferimento di tal sorta può esser utile per un’affrettata omelia, ma non coglie l'essenziale. Gesù indica il fuoco, anziché la pace, quale termine della sua missione tra gli uomini: e comunque lo si interpreti il fuoco è simbolo di qualcosa che radicalmente contrasta con l'idea ebraica di shalom. Sia esso presagio della croce, come lascerebbe pensare il richiamo al battesimo, sia esso figura di un conflitto interiore che stravolte anche i più sacri vincoli della convivenza familiare, il fuoco non indica affatto uno stato di tranquilla floridezza dove regnino la buona salute, la prosperità, la concordia, la solidarietà, ecc., nell'obbedienza ai precetti della Legge che confortano e allietano il cuore del buon israelita «più di quando abbondino frumento e vino» (Sal 4,8). Il fuoco è calore e luce proprio perché brucia e consuma ciò che lo alimenta; proprio perché non accumula ma toglie, non trattiene ma recide, non assomma ma purifica.
Qui risiede l'assoluta novità della pace che, nella notte in cui fu tradito, Gesù donò ai suoi dicendo: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). È la pace della più radicale separazione: il dono della vita da chi si appresta al martirio, sapendo che proprio e soltanto a colui che a Dio rende testimonianza (martyria) Dio stesso rende testimonianza, a dispetto del sacro sdegno e dell’irrisione degli scribi del popolo e dei sacerdoti (Gv 8, 13-30). Per questo Gesù non promette ai suoi alcuna tranquilla prosperità in seno al popolo d'elezione, alcuna pacifica convivenza: rendere testimonianza a lui è tutt'uno con lo scandalo della separazione, essere scacciati dalle chiese, essere anche uccisi da chi crederà di rendere con ciò gloria a Dio (Gv 16,2). Tra la pace di Cristo e il martirio c’è un misterioso rapporto: a pensarci bene, l'unico atto veramente pacifista compiuto da quel Gesù che pure non aveva schivato parole «violente» contro i farisei e non s'era astenuto dal prendere a staffilate i mercanti del tempio, fu quello che egli compì nell'orto di Getzemani al momento del suo arresto, quando Pietro trasse fuori una spada e tagliò l'orecchio dello sgherro: «Rimetti la spada nel fodero, - egli disse allora, secondo il racconto di Matteo - perché tutti coloro che mettono mano alla spada, di spada periranno» (Mt 26,52). Ed aggiunse, secondo il racconto di Giovanni: «Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» (Gv 18,11), collegando direttamente, così, l'atto di pace disarmata all'offerta di sé nel martirio.
Contro Io shalom
Non la pace che dà il mondo è dunque la pace che Cristo dona. Ma qui occorre intendersi con chiarezza. Troppo spesso questa espressione viene interpretata nel modo più banale, pensando che il mondo di cui parla Gesù sia quello delle nazioni pagane o dell'attuale laicismo o tutt'al più quello già deplorato da Geremia per la presenza di falsi profeti. In realtà io credo che la contrapposizione tra la pace del mondo e quella di Cristo riguardi ben più alla radice il mistero del prologo giovanneo: «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto» (Gv 1,11). Il mondo che non può dare la pace al modo di Cristo è anzitutto quello in cui l'universo del desiderio viene organizzato nella forma ordinata, concorde, appagante e devota dello shalom. Fu proprio quel mondo di umana pienezza, che dalla sua parte aveva «l'adozione, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi» (Rm 9, 4-5); fu proprio quel mondo in cui da sempre e a diritto risuonava il saluto confidente shalom alehem (pace a voi), il mondo che rifiutò di accogliere Cristo e la sua pace. Quel mondo possedeva un progetto ben più sicuro e ragionevole di pace: collocando all'esterno di sé il muro della divisione, facendo cioè dell'elezione divina l'elemento di separatezza tra Israele e le nazioni, lo shalom poteva fiorire all'interno nella chiara luce della Legge. E la Legge, per suo conto, saggiamente stabiliva condizioni sufficienti a eliminare ogni conflitto con provvide divisioni ordinatrici: da un lato i padroni, dall'altro i servi: da un lato gli uomini, dall'altro le donne: da un lato i sacerdoti, dall'altro il popolo; affinché tutto procedesse con ordine, e la concordia regnasse nelle famiglie, e il culto dei morti foste rispettato, nell'attesa del giorno del Signore. Quel mondo aveva piamente ricongiunto lo shalom alla Torah, la pace alla Legge, e dunque poteva ben attendersi che quella fosse la chiave per la pacificazione universale: unendo tutti gli uomini nell'obbedienza alla Legge, Dio avrebbe esercitato la sua giustizia donando pienezza di pace. Allora infatti «le montagne porteranno pace al popolo e le colline giustizia» (Sal 72,3).
Ed ecco invece che gli imperscrutabili giudizi di Dio e le inaccessibili sue vie condussero in Cristo a tutt'altro esito. «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia» (Rm 11,32). La pace di Dio che Cristo ha recato in sé è stata anzitutto l'abbattimento di quel muro di cinta che fondava e proteggeva lo shalom di Israele ricongiunto alla Torah: Cristo è appunto per questo la nostra pace: egli è «colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace…» (Ef 2,14-15). Non più dunque la pace resta presidiata da una separazione circoscrivente che rinsaldi l'ordine interno, ma, al contrario, la nuova pace consiste proprio nell'abolizione di quel presidio etico-culturale, che immediatamente frantuma anche ogni divisione ordinatrice all'interno del popolo di Dio: solo in questo senso sconvolgente «piacque a Dio di fare abitare in [Cristo] ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua Croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli» (Col 1,19-20).
Per questo, nel mondo grande così rappacificato «non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna (Gal 3,28); talché la Legge non ha più oggetti a cui aggrapparsi per continuare ad angustiare con i suoi cavillosi precetti. La nuova pace rilascia le false sicurezze indotte dalla Torah, e si separa per sempre dalle altre ore, sue sorelle e figlie di Zeus, che i greci avevano identificato nell'eunomia e nella dike: ormai essa entra a far parte dell'ubertoso giardino dei frutti dello Spirito. Frutti dello Spirito sono «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; su queste cose la Legge non può nulla» (Gal 5, 22-23).
Soltanto in questo quadro riusciremo a capire le parole più conturbanti di Gesù che sembrano voler scardinare la pietà consueta e il venerabile ordine retto dalla Legge: soltanto in questo quadro riusciremo a non scandalizzarci se egli sembrò disprezzare il sacro culto dei morti impedendo a quel tale di seppellire suo padre (Lc 9, 59-60), o se disse alla sua gente che lo seguiva devota: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 26). La pace che Cristo dona è, in certo senso, l'esatto contrario di quelle anticipazioni prolettiche di pienezza che davano corpo allo shalom di Israele: è anzitutto disarmata ma irriducibile contestazione di ogni lusingante promessa di pace che sempre fiorisce in bocca di chi pensa di poter rimodellate gli imperscrutabili disegni di Dio a sostegno di un progetto umano, per quanto ragionevole e pio.
5. Tradizione cristiana e «guerra santa»: la pace come martirio
Ciò che più sorprende nello studio della tradizione cristiana di fronte alla pace e alla guerra è che le scomode conclusioni avanzate nel precedente paragrafo trovano singolare e paradossale conferma, nonostante l'orientamento tutt'affatto diverso che per quasi duemila anni ha caratterizzato l'insegnamento ecclesiastico e la riflessione teologica. Non è questo il luogo per richiamare la tormentata storia del concetto di pace nella cultura cristiana. Del resto, abbondano ottimi testi che possono essere consultati dal lettore interessato. (28)
Ebbene, l'analisi storica dimostra con un'evidenza quasi sconsolante che il tema della pace è penetrato nella cristianità generalmente sotto il segno del suo contrario: ossia, a causa dell'esigenza di dare legittimità alla guerra «giusta», se non addirittura «santa». Soltanto nella chiesa primitiva può essere registrata una posizione radicalmente pacifista, nel senso di un obbligo alla non violenza: come osserva Peterson, (29) non si tratta propriamente di una dottrina della pace, ma di una forte tensione escatologica ancor sostenuta dall'attesa dell'imminente parousia: l'ottica è dunque accentuatamente martiriologica, e l'argomento fondamentale per il rifiuto della violenza l'affermazione del carattere sacerdotale dell'intero popolo di Dio, cui corrisponde la dottrina di una totale distinzione tra chiesa e impero.
Così si esprime, ad esempio, Origene nel Contra Celsum, e la Tradizione Apostolica di Ippolito conferma la proibizione al cristiano di uccidere in guerra, pena la scomunica: lo stesso vale per Tertulliano nel De Corona, dove la necessaria scelta di pace è direttamente connessa alla scelta del martirio. Da ricordare, in tale contesto, il caso di martiri militari documentabili sin dal tempo della persecuzione di Settimio Severo (202). P. Siniscalco ha offerto un eccellente quadro storico in proposito narrando di Massimiliano martirizzato sotto Diocleziano nel 295 a causa della sua obiezione di coscienza. (30)
La svolta imperiale
La situazione cambia completamente nei secoli successivi. Il concetto di sacerdotalità dell'intero popolo di Dio viene gradualmente offuscato dalla distinzione tra clero e laicato emersa a partire dal III secolo: (31) da quel momento in poi, «saranno i preti e i monaci a ereditare la riserva escatologica sul mondo, così che per essi da subito viene stabilita l’esenzione da tutto ciò che fa riferimento alla guerra... Il compito del non uccidere passa dal popolo sacerdotale alla casta sacerdotale. Con un equivoco non più risolto, che divide i compiti all'interno stesso della chiesa». (32)
Ma c’è di più: nella chiesa costantiniana tende a sparire la differenza tra la missione della chiesa e quella dell'impero; alla differenza subentra la continuità e l'integrazione. Osio di Cordova ed Eusebio di Cesarea elaborano addirittura un'esegesi biblica a favore delle equazioni pace di Cristo = pace imperiale, pax = fides; di qui nasce il concetto di «guerra giusta» in difesa dell'impero, e di «guerra santa» in difesa della fede. Il capitolo 13 della Lettera ai romani diverrà il costante riferimento per una sua stravolta interpretazione in favore della sacralizzazione del potere costituito. (33)
Il resto della storia è ben noto. Nel medioevo la pace si identifica con la fede cattolica, e la rottura della pace sta essenzialmente nell'eresia, talché il Decreto di Graziano decide che uccidere l'eretico non è peccato di gran conto. Per S. Bernardo la crociata «diventa affermazione e lotta per la difesa della fede, anzi si trasforma in momento alto della predicazione cristiana in questo scontro frontale fra il mondo del Cristo e quello dell'anticristo». (34) Nella Costituzione III del Concilio Lateranense IV si legge: «i cattolici che, presa la croce, si armeranno per sterminare gli eretici, godranno delle indulgenze e dei santi privilegi che sono concessi a quelli che vanno in aiuto alla Terra Santa». (35)
Neppure i massimi teologi che onorano il pensiero cristiano sfuggono a questa morsa che gradualmente cinge la chiesa riproponendo il vecchio «muro di separazione» tra i credenti da un lato e «la nazione impura... la razza maledetta» degli infedeli dall'altro (cf. il discorso di Urbano II al concilio di Clermont) (36): l'idea di una «guerra santa» e di una salutare e doverosa violenza nei confronti degli «sterpi eretici» (Paradiso, XII, 100) trovò anzi robusti argomenti teologici a suo favore. Già S. Agostino, al quale pur si deve – nel libro XIX del De Civitate Dei - un primo luminoso accenno a quella «metafisica della pace» che abbiamo visto essere oggi ripresa da Jüngel, aveva difeso nel Contra Faustum la piena legittimità della professione di soldato, e nella Lettera a Marcellino aveva negato che la dottrina cristiana dovesse condannare ogni guerra, definendo anzi, nelle Questioni sul Pentateuco, le condizioni che dovevano qualificare la «guerra giusta».
Nell’età della grande scolastica medievale, s. Tomaso riprende e razionalizza la teoria agostiniana sulla «guerra giusta», accogliendo integralmente nella Quaestio 40 della Summa Theologica, secunda secundae, la dottrina stabilita dal Decreto di Graziano.
Va osservato che la morsa di cui s’è parlato riguarda non soltanto la chiesa cattolica. ma anche quella riformata di Lutero e di Calvino. È pur vero che in alcuni suoi scritti politici Sull'autorità popolare (1523), Esortazione alla pace, sopra i dodici articoli dei contadini di Svevia (1525), Lutero aveva moderatamente perorato per lo Spirito non violento che deve animare il cristiano; ma nell’opera Contro le empie e scellerate bande dei contadini (1525) egli esorta i principi alla repressione con le seguenti parole non propriamente pacifiste: «Ferisca, strangoli, scanni, chi lo può: e se ciò facendo troverai la morte, te felice morte; più beata giammai potresti incontrare perché muori in obbedienza alla parola e al volere di Dio e al servizio della carità, per salvare il prossimo tuo dall'inferno e dai lacci del demonio».
Le testimonianze
A questo punto, vien certo da domandarsi dove mai si rifugiata. nella civiltà cristiana, la pace di Cristo: quella testimonianza forte e disarmata che a null’altro s’affida se non alla propria debolezza. La risposta c'è, e direttamente si ricollega alle considerazioni sopra svolte sull’intima dimensione martiriologica dell'annunzio cristiano di pace. Martirio qui non vuol dire soltanto offerta incondizionata della vita, ma anche affermazione sofferta di fronte alla chiesa e nella chiesa dell'elemento essenziale che caratterizza la pace donata da Cristo: e cioè, l’abbattimento di ogni «muro di separazione» che pretenda di dar ordine all’interno dividendolo dall'esterno e consolidando ulteriori separatezze e gerarchie in seno al popolo di Dio.
Gli esempi che possono essere addotti sono, per grazia di Dio numerosi; ma la lunghezza di questo scritto mi costringe di accennare appena ad alcuni.
Il primo può essere quello di s. Francesco nei diversi racconti (Tommaso da Celano, Bonaventura, ccc.) della sua missione pacifica presso il sultano, nonché più in generale nella sua testimonianza di ritorno al Vangelo vissuto sine glossa e cioè non più coartato ed inscialbito entro gli schemi di una cristianità politica e sacrale. Ben lontano dalle idee guerresche di Urbano II e dei crociati, egli si presenta disarmato al sultano, nella convinzione che «anche le membra del diavolo possano un giorno diventare discepoli di Cristo» (s. Bonaventura, Leggenda maggiore). Nella Regola non bollata, egli dà ai suoi fratelli missionari tra gli infedeli la direttiva di un radicale pacifismo congiunto all'accettazione della «beatitudine» del martirio.
Un secondo esempio è certamente quello della notevole testimonianza per la pace evangelica offerta dai domenicani Bartolomeo de Las Casas e Francisco de Vitoria al tempo della conquista politica e religiosa delle Americhe. Fortemente critico nei riguardi dell'evangelizzazione violenta operata dagli europei, de Las Cassa afferma che «il Cristo non ha dato a nessuno il potere di reprimere e di molestare gli infedeli che si rifiutano di ascoltare la predicazione della fede». Se il popolo di Israele poteva usare la guerra per acquistare e difendere la terra promessa, ciò non vale più per l'apostolo di Cristo: «Egli non prenderà né conserverà i suoi territori, se non per mezzo della dottrina di Cristo, piena di dolcezza, di pace, d'amore». (37) Alla «profezia» di de Las Cassa fa riscontro la «dottrina» di de Vittoria teologo della sovranità e dell'eguaglianza dei popoli e sostenitore dell'esistenza/esigenza di una comunità mondiale sovrastante, per diritto naturale, qualsiasi divisione tra stati, culture e confessioni religiose.
Un terzo esempio è dato dal grande Erasmo da Rotterdam, filosofo cristiano della pace nell'ottica della tolleranza. La sua perorazione appassionata prende subito la tonalità di severa critica intraecclesiale: «I cristiani... - egli scrive nella Querela pacis del 1517 - combattono più crudelmente degli ebrei, dei pagani, delle bestie feroci... i cristiani oggi sono alleati con i vizi e combattono contro gli uomini... Neppure i vescovi, neppure i cardinali, neppure i vicari di Cristo hanno vergogna di essere istigatori e provocatori di guerra». Ed ancora. nel Dulce bellum inexpertis (1516-17), la denuncia di Erasmo si rende vieppiù pressante: «Gli eserciti cristiani vanno all'attacco portando ognuno innanzi a sé il segno della croce, proprio di quella croce che potrebbe indicare in qual modo i cristiani devono vincere. Sotto questo sacro segno divino... si corre al reciproco massacro e di un'azione così empia si rende Cristo garante e spettatore».
Contro i sogni di potenza
Ulteriori esempi possono essere tratti fuori dai confini del cattolicesimo: si pensi al pacifismo di tonalità quasi proto-cristiana professato da Michael Sattler e dagli anabattisti o al messaggio di non violenza testimoniato più tardi da William Penn e dai quaccheri. A partire dal XVIII secolo, con l'affermarsi dello spirito illuminista, i progetti per una «pace perpetua» tra le nazioni si vanno moltiplicando; ma ormai la discussione è deliberatamente extra-ecclesiale, se non anti-ecclesiale. In tal contesto si muovono le proposte del deismo non confessionale, o le provocazioni voltairiane, o la trattazione etico-politica di Kant (Per una pace perpetua, 1795).
Vero è che nell'età contemporanea, soprattutto per iniziativa del magistero, simili progetti di pace sono stati abbondantemente recuperati alla cultura cristiana: basti ricordare la coraggiosa denuncia della guerra quale «inutile strage» da parte di Benedetta XV, o gli elevati insegnamenti impartiti da Pio XII in diversi suoi radiomessaggi, o la formidabile testimonianza di Giovanni XXIII, o quella sofferta e intensa di Paolo VI, per giungere infine al nobile zelo per la pace internazionale dimostrata dall'attuale pontefice, nel cui magistero il valore preminente della pace sembra assurgere a elemento connettivo meta-confessionale di un «religiosum commune», sostitutivo del tradizionale «humanum commune» (in tal senso porrebbe esser letta la spettacolare assemblea delle «religioni per la pace» celebrata ad Assisi qualche anno fa).
Resta però aperta la domanda se questo lodevole recupero cristiano dell'idea di pace maturata – volerlo o no - in ambito laico e non senza l'influsso della svolta concettuale e linguistica impressa dall'illuminismo, (38) corrisponda veramente all'annunzio di quella pace diversa, trasgressiva e liberante che Cristo ha donato ai suoi.
Gli esempi sopra richiamati ci inducono a riconoscere che l'autentico contrassegno della pace di Cristo si è manifestato nella storia della chiesa sotto una duplice luce: il martirio accolto senza riserve, e la testimonianza disarmata, ma irriducibile contro qualsiasi progetto politico-religioso che congiunga la promessa di pace al ripristino dei vecchi bastioni. custodi dell'ordine e del potere. Per questo, anche nel nostro tempo, le parole spiritualmente più feconde per la scelta di pace non sono mai state pronunciate tra gli applausi dell'ufficialità, ma hanno preso voce da scomodi testimoni che nella loro vita sopportarono incomprensione, emarginazione, se non persecuzione: da don Mazzolari a don Dilani, da mons. Helder Camara a Martin Luther King, ecc. E se ciò è vero, se cioè la pace può valere come sinéddoche dell'intero della fede soltanto quando sia testimoniata nella sua specifica dimensione martiriologica, allora è opportuno che io concluda queste mie riflessioni con un umile ma fervoroso invito alla sobrietà nell'uso della parola.
La pace di Cristo non deve essere evocata con tranquilla compiacenza, né per dar lustro cristiano a istanze politiche, né per fondare una nuova antropologia teologica. La pace di Cristo non è neppure semplice dilatazione dello shalom ebraico; essa è fuoco, quel fuoco che spazza via ogni muro di separazione e annienta ogni presidio dell'ordine costituito che pretenda di ammantarsi di motivazioni religiose. Questa pace occorre annunziare, ma «con timore e tremore», sapendo che essa non sopporta di essere temperata e ricomposta entro più rassicuranti disegni, senza corrompersi subito nel suo tragico e tenebroso contrario: non soltanto nel «sale insipido» della vana omelia, ma più ancora nella riproduzione in forme sempre aggiornate e suadenti del vecchio sogno di potenza che offuscava la mente del Grande Inquisitore.
Note
1) F. Dostojevskij, I fratelli Karamazov, Parte II, Libro V, Cap. 5.
2) Cf. Karl Rahner in Gespräch, Band 2, Kösel-Verlag, München 1983, p. 307ss.
3) C. F. von Weizsäcker, Der Garten del Mensclichen Beiträge zur gescichtlichen Antropologie, 19786, p. 40ss.
4) E. Jüngel, L’essenza della pace, trad. it., Morcelliana, Brescia 1984, pp. 10-11, 28-29.
5) G. Mattai, «Verso una “coscienza teologica” della pace», in Il problema della pace tra filosofia e politica, Edizioni «Augustinus», Palermo 1986, p. 17.
6) C. Molari, «Educare alla pace è anche parlare di Dio in modo diverso», in Per una teologia della pace, Borla, Roma 1987, pp. 15-16.
7) Ibid. p. 17.
8) Ibid. p. 23.
9) Ibid. p. 30.
10) J. Moltmann, Il linguaggio della liberazione, trad. it., Queriniana, Brescia 1973, p. 102.
11) Ibid. p. 104.
12) Ibid. p. 106.
13) Ibid. p. 108.
14) E. Jüngel, op. cit., p. 75.
15) Ibid. pp. 79-91.
16) J. Moltmann, Il Dio crocifisso, trad. it., Queriniana, Brescia 1973.
17) E. Jüngel, op. cit., p. 78.
18) Cf. E. Dinkler, Art. Friede, RAC vol. VIII, 1972, coll. 434-505.
19) G. Pattaro, «Pace», in Nuovo dizionario di teologia, Paoline, Alba 1977, p. 1052.
20) B. Pascal, Pensieri, trad. it., Einaudi, Torino 1962, pp. 447-448.
21) G. Pattaro, loc. cit., p. 1051.
22) Cl. Westermann, «Der Frieden [Shalom] im Alten Testament», in Studien zur Friedensforschung, a cura di G. Picht e H.E. Tödt, 1969, Vol. 1, p. 147.
23) G. Pattaro, loc. cit., p. 1051.
24) E. Jüngel, op. cit., p. 66.
25) H.H. Schmid, Šālôm. La pace nell’antico Oriente e nell’Antico Testamento, trad. it., Paideia, Brescia 1977, p. 94.
26) Ibid. p. 107.
27) Ibid. pp. 107-108.
28) Ricordiamo, ad esempio, il saggio di J. Daniélou, «La non violence selon l’Écriture et la tradition», pubblicato nelle Conférences du Congrès Pax Christi, Paris 1955, pp. 9-32; quello sempre lucido e, quando occorra, pungente di M.D. Chenu, «L’évolution de la théologie de la guerre», apparso in Lumière et vie, VII, n. 38 (1958), pp. 76-97; il libro di J.M. Hornus, Évangile et Labarum, Génève 1960; quello di R.H. Bainton, Il cristiano, la guerra e la pace, trad. It., Torino 1968; gli studi medievalistici di E. Delaruelle, «L’idée de croisade chez saint Bernard», in Mélanges Saint Bernard, Dijion 1953, pp. 53-67, «Paix de Dieu et croisade dans la chrétienté du XII siècle», in Paix de Dieu et guerre sainte en Languedoc au XIII siècle, Toulouse 1969, pp. 51-60 (l’intero volume è di utile lettura) ; alcuni scritti di G. Alberigo (ad es. «Il popolo di Dio e la pace», in Humanitas 1-2 (1970); ecc. In particolare, segnaliamo la bella antologia Pace e Vangelo. La tradizione cristiana di fronte alla guerra, Queriniana, Brescia 1980, preceduta da un ottimo saggio introduttivo di M. Toschi.
29) E. Peterson, I testimoni della verità, trad. it., Milano 1955, p. 92.
30) P. Siniscalco, Massimiliano: un obiettore di coscienza del tardo impero, Torino 1974.
31) A. Faivre, I laici alle origini della chiesa, trad. it., Paoline, Torino 1986.
32) G. Pattaro, loc. cit., p. 1057.
33) Cf. J. Comblin, Théologie de la paix, Paris 1960, T. 2, p. 91.
34) M. Toschi, Pace e Vangelo, Queriniana, Brescia 1980, p. 39.
35) Ibid. p. 41.
36) Ibid. p. 36.
37) Ibid. p. 49. Il testo di de Las Casas si trova in L. Hanke, Colonisation et conscience chrétienne au XVI siècle, Paris 1948, pp. 3-4.
38) Cf. H.H. Schmid, op. cit., pp. 109 e ss.
(da Il Regno-attualità, n. 10, 1990, pp. 312-323)