Se identifichiamo Dio con l’Essere sussistente in se stesso del tomismo (“Ipsum esse subsistens”), allora il nostro esistere è inevitabilmente un esilio da Lui. Lo dice l’etimologia del verbo latino “exsistere”, nel quale troviamo un nucleo statico, “-sistĕre”, e un nucleo dinamico che indica il moto da luogo, “-ēx”1. Alla lettera, esistere significa “stare da…”, “essere presenti nella realtà a partire da un’origine”. Esistere vuol dire stare nel mondo provenendo da Dio, dunque essere in qualche modo lontani da Lui. È quanto afferma Paolo in 2Cor 5,6-8: «Così, dunque, siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione. Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore»; il testo greco è in realtà meno drastico della traduzione CEI, non usa il termine “esilio” e dice solo «siamo lontani (ἐκδημοῦμεν) dal Signore», ma il senso è quello. L’Apostolo delle Genti costruisce un gioco di parole utilizzando due participi molto simili ma dal significato antitetico: “endemountes” (ἐνδημοῦντες), che vuol dire “abitanti”, “residenti in patria”, ed “ekdemountes” (ἐκδημοῦντες), il cui significato è “esuli”, “assenti dal proprio paese”. In questo modo Paolo esprime il paradosso della nostra condizione esistenziale: siamo nel mondo, dimoriamo nel corpo, e nello stesso tempo siamo lontani dal Signore, che è la nostra vera e definitiva patria. Il credente è un pellegrino, un viandante in cammino verso casa: «Infatti non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14).
Gettati fuori del mondo di Dio
Durante un’appassionata omelia pronunciata il 29 maggio 2022 nella Chiesa del Gesù per la solennità dell’Ascensione, il gesuita Ottavio De Bertolis ha sottolineato il carattere metaforico della cacciata di Adamo: «Noi nasciamo fuori del mondo di Dio, e se non fosse per la sua grazia ci rimarremmo. Nasciamo gettati fuori. La metafora è il cherubino che con la spada chiude l’accesso al paradiso; il paradiso perduto, direbbe Milton. Ebbene, quel paradiso non è più perduto perché ci siamo rientrati attraverso l’umanità di Gesù Cristo, perché il Verbo si è fatto carne, ha assunto la nostra debolezza; noi, che moriremo, rientriamo nel mondo di Dio attraverso la nostra morte». Non dissimile da quello di padre De Bertolis S.J. è il pensiero del teologo redentorista Théodule Rey-Mermet: «No, l’umanità non è nata in un paradiso terrestre. Quel cielo di felicità e di divina amicizia descritto da Genesi 3 è il modello della creazione: non è passato, ma futuro; non è dietro, ma davanti a noi. È il disegno di Dio per la fine dei tempi. È posto all’inizio della Bibbia perché si comincia sempre per definire il modello. Ma, nell’esecuzione, l’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti, ma con umili abbozzi amorosamente perfezionati da Dio secondo le leggi di un lento sviluppo. Questa è proprio la verità storica: “L’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti”. Ma la Genesi ha annunciato sotto forma di una magnifica parabola sia il futuro che Dio ha concepito per essa, sia il difficile cammino che essa dovrà percorrere prima di giungere al traguardo»2.
Un’inevitabile condizione dovuta al fatto stesso di esistere
Questa condizione di esilio da Dio o lontananza che dir si voglia non può certo essere considerata un peccato nel senso proprio del termine, così come lo definisce il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il peccato è un’offesa a Dio: “Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto” (Sal 51,6). […] Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare “come Dio” (Gen 3,5), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato pertanto è “amore di sé fino al disprezzo di Dio”. Per tale orgogliosa esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all’obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza» (CCC 1850). Si tratta piuttosto di una inevitabile condizione dovuta al fatto stesso di esistere. È ciò che Heidegger chiama “Geworfenheit”, la “gettatezza”, l’essere lanciati nel mondo come dadi sul tavolo da gioco, l’essere-per-la-morte; non a caso i francesi di solito traducono “Geworfenheit” con “déréliction”, “derelizione”, “abbandono”. Veniamo gettati in un universo che non abbiamo scelto, ci è in gran parte sconosciuto, non manca talvolta di mostrarsi ostile nei nostri confronti e nel quale persino la materia inorganica, secondo una delle più accreditate teorie sulla fine del cosmo, è destinata alla morte entropica. Più che un’offesa a Dio, l’esistenza sembra un’ingiuria alla creatura e in particolare all’uomo, l’unico ente, per quanto ne sappiamo, ad avere coscienza del proprio destino di morte. Se non è un peccato nel vero senso della parola, tuttavia questa condizione produce nell’uomo una certa carenza d’essere che la rende molto simile al peccato. Come direbbero gli esistenzialisti, tale condizione determina uno sfasamento tra esistenza ed essenza: per l’esistenzialismo ateo di Sartre l’uomo è l’unico ente nel quale l’esistenza precede l’essenza, per cui egli deve darsi da fare per diventare se stesso attraverso le proprie scelte e il proprio impegno nel mondo; per l’esistenzialismo cristiano di Kierkegaard, Karl Barth, Paul Tillich e altri, invece, è l’essenza, divina e infinita, a precedere l’esistenza. Non manca chi ritiene possibile una terza posizione, come il pastore valdese Angelo Cassano: «Personalmente ritengo che non solo l’esistenza preceda l’essenza, come per Sartre, ma anche il contrario. Le due affermazioni viaggiano su binari paralleli e sono interconnesse»3. Come sia, questo sfasamento – che prendendo in prestito i concetti dell’elettrotecnica possiamo rappresentare come la mancata coincidenza tra tensione e corrente in una sinusoide applicata su un carico non puramente resistivo – esiste sempre, e secondo Tillich conduce al peccato. Per il teologo tedesco, Cristo è colui che corregge lo sfasamento tra essenza ed esistenza poiché, in virtù del suo essere pienamente Dio e pienamente uomo, le possiede entrambe in perfetto sincronismo.
Il tesoro sperperato del simbolo adamitico
Purtroppo l’interpretazione letterale di alcuni testi biblici ha fatto sì che per secoli e millenni la colpa di tutto ciò che di negativo esiste nel mondo fosse scaricata sull’uomo, con l’unica attenuante – se di attenuante si può parlare – della tentazione diabolica. Testi, per fare solo due esempi, come il racconto della caduta di Genesi 3 e il passo della Lettera ai Romani in cui Paolo scrive che «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte» (Rm 5,12). Se la creazione è opera di un Dio sommamente buono ed è essa stessa buona (cfr. Gen 1,1-31), si pensava, il male e il negativo non possono che venire da creature corrotte e corruttrici, il diavolo in primis e poi l’essere umano. Oltre ad aver colpevolizzato oltremisura l’uomo, questa interpretazione ha contribuito a fuorviarlo e deresponsabilizzarlo, a fargli perdere coscienza dei suoi veri errori, limiti e peccati: «Perfino la morte era colpa nostra», ebbe a dire Raniero La Valle durante una conferenza sull’argomento tenuta tempo fa presso il monastero camaldolese di S. Gregorio al Celio in Roma. È evidente che la tradizionale interpretazione della Genesi non è più accettabile: chi può ancora sostenere che il genere umano discenda da un’unica coppia di progenitori e che il peccato originale si trasmetta, come diceva sant’Agostino, attraverso il concepimento (opinione peraltro mai fatta propria dalla Chiesa)? Paul Ricoeur ha scritto parole molto chiare, al riguardo: «Il concetto di peccato originale è un falso sapere e deve essere infranto come sapere […]»4. Per poi aggiungere: «Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alla cristianità l’interpretazione letterale, bisognerebbe dire “storicista”, del mito di Adamo; essa lo ha fatto cadere nella professione d’una storia assurda e in speculazioni pseudo-razionali sulla trasmissione quasi biologica d’una colpevolezza quasi giuridica per l’errore di un altro uomo, respinto lontano nella notte dei tempi, non si sa bene dove, tra il pitecantropo e l’uomo di Neanderthal. Contemporaneamente il tesoro nascosto del simbolo adamitico è stato sperperato»5.
Un peccato per analogia
In effetti – faceva notare nel 1973 il gesuita Maurizio Flick – «i Padri dei primi tre secoli ammettevano che tutti gli uomini hanno ricevuto un’eredità funesta da Adamo, una corruzione, e in modo speciale la morte; ma non dicevano che questa corruzione dovesse chiamarsi “peccato”»6. Per Ireneo di Lione il vero responsabile del peccato non è Adamo ma il serpente tentatore; Adamo è più vittima che colpevole, e i suoi discendenti vivono in un regime di cattività instaurato dal diavolo così come un esercito sconfitto è tenuto prigioniero dal vincitore. Per questo Dio maledice il serpente e la terra ma non maledice Adamo, nei confronti del quale si mostra anzi misericordioso; per Ireneo, Dio permette la morte affinché il peccato non diventi immortale7. Secondo il vescovo di Lione, quindi, ciò che Cristo redime non è tanto un peccato quanto una condizione di degrado, di separazione da Dio che accomuna tutti gli uomini.
La dottrina del peccato originale trovò la sua formulazione tecnica soltanto ai tempi di sant’Agostino, nella polemica anti-pelagiana. Con questa formulazione, secondo Flick, il Doctor Gratiae «volle dire, come mostrano vari studi convergenti (de Blic, Clémence, Staffner, Sage…) che la situazione in cui l’uomo nasce è realmente simile a quella in cui egli si mette per un peccato personale, in quanto implica la morte dell’anima (cioè la privazione della grazia) e una perversità della volontà (la concupiscenza) […]»8; la dottrina agostiniana sul peccato originale sarà successivamente confermata dai concili di Cartagine del 418, di Orange (529) e di Trento (1545). Si tratterebbe insomma di un peccato per analogia. Scrive ancora Flick: «Si è dunque segnati dal peccato per il fatto stesso che si entra per la nascita a far parte dell’umanità attuale. Il dogma del peccato originale consiste quindi essenzialmente nell’affermazione che l’uomo nasce in uno stato caratterizzato da questi tre elementi: privazione della grazia (“elemento ontico”), corruzione della volontà (“elemento personalistico”), dipendenza dal peccato personale antecedente (elemento “sociale” e “storico”). Per questi tre elementi la condizione nativa dell’uomo è realmente simile a quella che segue un atto personale gravemente peccaminoso, e perciò può essere detta analogamente “peccato”»9. È ciò che sostiene anche Karl Rahner quando parla della differenza tra “peccato originale originante” e “peccato originale originato”: «Peccato originale originante significa dunque il peccato proprio di cui è personalmente responsabile Adamo, a differenza dal peccato originale originato dei discendenti di Adamo: questo si può chiamare “peccato” solo in senso analogo»10. Di peccato per analogia parla anche il Catechismo della Chiesa Cattolica edizione 1993: «[…] Adamo ed Eva commettono un peccato personale, ma questo peccato intacca la natura umana, che essi trasmettono in una condizione decaduta. Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l’umanità, cioè con la trasmissione di una natura umana privata della santità e della giustizia originali. Per questo il peccato originale è chiamato “peccato” in modo analogico: è un peccato “contratto” e non “commesso”, uno stato e non un atto» (CCC 404).
Letto in questa chiave, Genesi 3 – lungi dal voler riferire «con esattezza protocollare ciò che è successo all’inizio della storia umana»11 – si configura come un racconto appartenente al genere drammatico, sapienziale ed eziologico che descrive la nostra condizione di sempre: l’uomo nasce condannato a morte, non è padrone di sé e della propria volontà, è preda della concupiscenza e di appetiti sfrenati, vive in perenne conflitto con Dio, con se stesso, con gli altri e con la creazione.
Nella Rivelazione il dato fondamentale non è il peccato
L’insieme dottrinale riferentesi al peccato originale, spiega ancora Maurizio Flick, è stato tradizionalmente concepito secondo uno schema discendente dalla causa all’effetto, deducendo l’effetto a partire da una causa identificata con la trasgressione paradisiaca. In altri termini, dal peccato originale originante si è voluto dimostrare il peccato originale originato. Ora, questo modo di presentare il messaggio cristiano inverte la prospettiva in cui la Rivelazione pone il peccato. Nella Rivelazione il dato fondamentale, il nucleo del messaggio, non è il peccato ma Cristo, colui che può salvare l’uomo dalla morte e dal fallimento esistenziale. L’origine, la causa del male è collocata solo sullo sfondo. Occorre dunque abbandonare la visione amartiocentrica che già tanti danni ha provocato e orientarsi verso un cristianesimo realmente centrato sul Redentore e sulla redenzione. Allora il testo paolino di Rm 5,11-21 non è più un discorso sul peccato e sulla morte ma sul dono di grazia e sulla vita eterna: «Esso spiega che dobbiamo gloriarci in Cristo, autore della nostra salvezza»12. Non ha quindi molto senso continuare a domandarsi di chi sia la colpa, se a peccare sia stato il “sinanthropus” di Teilhard de Chardin, l’australopiteco Lucy o il sapiens, in quale anno sia stato commesso il peccato originale e cose del genere. Il peccato, inteso in senso lato come l’eredità funesta di cui parlavano i Padri, accompagna l’uomo da sempre ed è ovunque presente, come scrive Teilhard in Nota su alcune rappresentazioni storiche possibili del peccato originale: «Occorre che allarghiamo a tal punto le nostre vedute sul peccato originale da non poterlo più collocare, attorno a noi, né qui, né là, e che sappiamo soltanto che esso è dappertutto, mescolato con l’essere del Mondo tanto quanto Dio che ci crea e il Verbo Incarnato che ci riscatta»13. Ma in questa situazione innata e desolante, che la teologia scolastica chiama peccato originale originato, opera il Creatore infinitamente buono, che fin dagli inizi della storia perdona, soccorre, dona gratuitamente la sua misericordia salvifica: «Perciò la certezza fondamentale su cui si basa la fede nella redenzione non è l’informazione storica su fatti avvenuti all’origine del mondo […] ma è la rivelazione su Cristo, Redentore necessario di tutti i membri della nostra umanità, senza alcuna eccezione»14.
La Terra, un sistema di riferimento non-inerziale e non-spirituale
Il fatto che la condizione di esilio da Dio nella quale veniamo al mondo non possa essere considerata un peccato nel senso proprio del termine, non vuol dire che il peccato personale non esista. Esiste eccome, e il credente è chiamato a continua conversione, a fare tutto ciò che è in suo potere per evitarlo: anche questo rientra nel dato fondamentale della Rivelazione. Una parte rilevante del problema è che il mondo in cui nasciamo – e qui per mondo intendiamo non tanto la società umana quanto il mondo della natura – ha una straordinaria capacità di convincerci che non siamo altro che materia, corpi destinati alla morte. Si tratta in fondo di quella che per i Vangeli di Matteo e di Luca è la prima tentazione di Cristo nel deserto, la tentazione del pane (Mt 4,1-4; Lc 4,1-4): la risposta di Gesù svela il vero obiettivo del maligno, che non è dar da mangiare a un affamato ma convincerlo di non essere che ventre, necessità biologiche da soddisfare. Questo probabilmente è vero oggi molto più che nel passato, anche a causa degli straordinari progressi della scienza e della tecnica. Discipline importantissime, beninteso, ma per loro natura incapaci di riflettere sul principio ontologico universale – l’essere che unisce diversificando – e quindi di farci intravedere un orizzonte di trascendenza. Senza questo orizzonte, però, l’uomo va alla deriva: «Lo spirito umano esige più che la scienza per comprendersi in seno al mondo»15.
L’uomo contemporaneo, preda del riduzionismo materialistico, ragiona un po’ come i pensatori del passato, che continuavano a domandarsi, senza trovare risposta, perché un corpo lanciato in aria a un certo punto cada a terra. La soluzione al problema arrivò con il principio di inerzia scoperto da Galilei ma già intuito da Giordano Bruno nel famoso esempio della nave che si trova ne La cena de le ceneri (1583)16. E fu una soluzione del tutto contro-intuitiva, alla quale si giunse cambiando la domanda, l’approccio al problema: ci si cominciò a chiedere perché il sasso non prosegua la sua corsa all’infinito. Sembra la stessa domanda di prima ma è radicalmente diversa, perché parte dal presupposto che il corpo, se non interviene nessuna forza esterna a modificarne lo stato, continui a muoversi di moto rettilineo uniforme. I corpi cadono perché la Terra è un sistema di riferimento non-inerziale, nel quale cioè prevale la forza di gravità. Per analogia possiamo dire che è anche un sistema di riferimento non-spirituale, capace di convincere l’uomo dell’assoluta impossibilità che la vita continui oltre la morte e che anzi proprio dopo la morte possa raggiungere la definitiva pienezza. Ecco allora che la condizione di esilio in cui nasciamo può diventare – e di fatto spesso diventa – un peccato nel senso proprio del termine, cioè la scelta di credere nella sola realtà materiale, di dire no all’offerta salvifica di Cristo. E forse non si tratta nemmeno di una scelta: l’uomo post-moderno, figlio del positivismo e dello scientismo, lo ritiene quasi un dovere, pensa di non poter credere diversamente. La vita eterna gli appare del tutto impossibile. L’uomo di sola ragione non può, non deve credervi.
Il peccato originale originante: un inizio assoluto
Quando l’insegnamento della Chiesa sul peccato originale venne fissato dai succitati concili di Cartagine, di Orange e di Trento, nessuno metteva in discussione il peccato originante commesso da Adamo, per cui i concili si limitavano a ripetere il racconto di Genesi 3 senza interpretarlo17. Oggi non lo si può più fare. La paleoantropologia propende per l’ipotesi poligenista piuttosto che per quella monogenista: l’umanità attuale non proverrebbe da un’unica coppia ma da un gruppo più o meno grande di progenitori. Se questo è vero, se non esiste un Adamo storicamente identificabile, come si può continuare a parlare del peccato originale originante in termini di colpa personale? Chi lo avrebbe commesso? E in cosa consisterebbe esattamente? La distinzione della teologia classica tra peccato originale originante e peccato originale originato va fatta salva, se è vero che, come sostiene Flick, il peccato originale originante «non sembra essere riducibile alla massa di tutti i peccati commessi dall’umanità». In questa serie di colpe, precisa il gesuita, «mi sembra che la prima abbia una funzione speciale, essenzialmente diversa dalle altre. Infatti, il primo in una serie di atti umani non è semplicemente primo in ordine cronologico, ma segna un inizio assoluto, che non può non avere una speciale importanza. Inoltre, in questo modo si spiega meglio il salto qualitativo avvenuto nella condizione umana, in ordine alle sue relazioni con Dio»18. A tal proposito potrebbe tornare utile far cadere la distinzione tra il primo Adamo e i suoi discendenti, tra una condizione pre e post lapsaria, tra il prima e il dopo. Non dobbiamo cercare il peccato originale originante in chissà quale antenato preistorico; siamo noi a commetterlo, siamo noi il primo Adamo che continuamente cade e, cadendo, genera una moltitudine di peccati originati.
Il peccato originale: l’interpretazione di Thomas Merton e dell’anonimo autore de La nube della non conoscenza
Ma cos’è esattamente questo peccato originale originante che «non sembra essere riducibile alla massa di tutti i peccati commessi dall’umanità» e nello stesso tempo «segna un inizio assoluto» (Flick)? Il racconto di Genesi 3 può essere interpretato in molti modi diversi, non solo come peccato di “hybris”. Ne ricordiamo qui altri due che ci sembrano particolarmente originali e interessanti. Thomas Merton, senza troppo preoccuparsi della distinzione tra peccato originante e originato, identifica il peccato originale con l’egocentrismo umano: «Anche se sono buoni, i miei atti naturali, quando sono soltanto naturali, tendono a concentrare le mie facoltà sull’uomo che non sono, su colui che non posso essere, il falso Io in me, la persona che Dio non conosce. E questo avviene perché sono nato nell’egoismo. Sono nato egocentrico. E questo è il peccato originale»19.
Le parole di Merton sulle facoltà che tendono a concentrarsi sul falso Io ci permettono di fare un parallelo con un altro grande contemplativo, l’anonimo autore de La nube della non conoscenza, con ogni probabilità un monaco certosino inglese del XIV secolo20. L’anonimo propone una singolare interpretazione del peccato originale: a suo avviso, «l’uomo ha peccato quando ha smesso di contemplare Dio, secondo quanto leggiamo nella Scrittura: “Chiunque rimane in lui non pecca” (1Gv 3,6)»21. Quelle facoltà, tutte le facoltà umane che Merton vede dirottate sul falso Io, sull’Ego, dovrebbero invece convergere su Dio. In fondo non è altro da ciò che prescrivono lo Shemà Israel di Dt 6,4-9 e il primo comandamento del Decalogo (Es 20,2-17; Dt 5,6-21). Focalizzare tutte le proprie facoltà su Dio significa centrarsi sull’Essere sussistente, e così ricevere da Lui tutto l’essere partecipato che la nostra condizione di creature (o di enti, per usare il linguaggio della metafisica) permette di accogliere. Dunque disobbedire a Dio – la disobbedienza di Adamo – vuol dire in ultima analisi smettere di ascoltare la voce dell’Essere, che – come sperimenta il profeta Elia sull’Oreb – si presenta come «qôl demamah daqqah», espressione che, tradotta alla lettera, significa «una voce di silenzio sottile» (1Re 19,12)22. Non è affatto facile ascoltare questa voce, lo sanno bene i mistici: occorre mettere a tacere il chiacchiericcio mentale, disciplinare l’immaginazione, resistere alle distrazioni, dominare la curiosità e il desiderio di esperienze sensazionali… Vuol dire in sostanza sviluppare le proprie capacità di attenzione e quindi di preghiera; già i primi Padri, riflettendo sull’assonanza tra le due parole greche che significano attenzione (“prosoché”) e preghiera (“proseuché”), avevano infatti compreso lo stretto legame tra queste due realtà.
La follia di Eva
Disobbedire a Dio significa insomma “dis-ascoltarlo”, cioè mancare di cogliere – per cattiva volontà, incapacità, pigrizia, instabilità, eccetera – la voce di silenzio sottile, la voce dell’Essere. È un peccato di disattenzione, più che di “hybris”; un peccato che commettiamo tutti, sempre, senza neanche rendercene conto. Nell’istante in cui smette di far convergere tutte le sue facoltà sull’Essere sussistente in se stesso, l’uomo si ritrova frammentato, alienato, carente d’essere, il che è tipico della condizione peccaminosa. Tale carenza non può essere colmata attraverso sforzi umani, come cercano di fare Adamo ed Eva: il problema non si risolve coprendo la propria ontica nudità con le maschere dell’Ego, tentando di nascondersi alla vista di Dio, scaricando la colpa sull’altro, cercando di prendere e possedere. L’unico modo è tornare a contemplare l’Essere, a indirizzare tutte le facoltà ed energie su di Lui. Riguardo all’Ego appena menzionato, si fa molta confusione tra questo e l’Io, inteso sia come pronome, sia – soprattutto – come ciò che secondo la tripartizione freudiana della mente è il mediatore tra l’Es/Id e il Super-Io. Si sente dire spesso che per unirsi a Dio è necessario «mortificare l’Io», «annullare la propria volontà», «morire a se stessi» e cose del genere. In realtà ciò che bisogna far morire non è l’Io ma l’Ego, cioè la nostra personalità falsa, idealizzata, creata da noi, egocentrica e capricciosa. Se vogliamo amare, agire nel mondo, vivere da persone sane e relazionarci correttamente con gli altri, al contrario, l’Io dev’essere ben saldo. Un Io fragile e destrutturato non conduce alla santità ma alla neurosi e alla psicosi. L’Io e l’Ego stanno tra loro in un rapporto di proporzionalità inversa: più cresce e si consolida l’uno, più diminuisce l’altro (e viceversa). Lo si vede in Gen 3,2-3, nella risposta che la donna (si chiamerà Eva solo più avanti, in Gen 3,20) dà al serpente che le chiede se è vero che Dio ha comandato di non mangiare di nessun albero del giardino: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». La donna commette un errore disastroso, fatale: scambia di posto l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male (Gen 2,9). In mezzo al giardino non c’è l’albero dai frutti proibiti, ma l’albero della vita. Nella mente della donna nasce così l’idea che Dio sia colui che si oppone alla vita, che impedisce all’essere umano di vivere pienamente, il che ovviamente è assurdo e falso. Così la donna comincia a non capire più niente, a confondere, a non discernere più – cioè, nel linguaggio giudaico, a “conoscere” – il bene e il male; allora, per usare le parole della biblista Bruna Costacurta, «Eva, da donna-saggezza, donna che dà la vita, diventa donna-follia». L’Ego di Eva, la sua personalità decaduta, peccaminosa, finisce col divorare anche l’Io razionale.
L’“esperienza zero” della mistica
Il peccato originale originante spezza uno dopo l’altro tutti gli anelli che compongono la catena delle relazioni umane (cfr. Gen 3). Il primo a rompersi è l’anello tra Dio e l’uomo, poi quello tra l’uomo e se stesso, quindi si spezza l’anello tra l’uomo e il suo prossimo, infine quello tra l’uomo e il creato. Questi anelli vanno ricomposti esattamente nell’ordine in cui sono stati spezzati. Cercare di ricostruirli diversamente, cominciando per esempio dalla relazione tra l’uomo e il suo prossimo, è impresa destinata al fallimento. Secondo l’autore de La nube, la via migliore per farlo è la contemplazione: esercitarsi costantemente, indefessamente, senza scoraggiarsi, nella difficile arte di focalizzare tutte le proprie facoltà ed energie su Dio. Questa è la contemplazione, che Thomas Merton descrive come qualcosa di simile allo stato dell’anima di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre: «Tutto è tuo, ma a una condizione infinitamente importante: che sia tutto dato»23. La contemplazione è come il sonno: deve venire da sola, non può essere afferrata, pretesa, ottenuta con uno sforzo dell’umana volontà. È un dono di Dio, ma esige che l’uomo impari a vivere in uno stato di fiduciosa ricettività e silenzio. La contemplazione coincide con l’esperienza mistica, che non consiste affatto nell’avere visioni spettacolari, nello sprofondare in stati di trance o nel godere di ineffabili delizie spirituali. L’autore de La nube, anzi, considera tutto questo un serio pericolo per l’autentica contemplazione, una tentazione diabolica: «Alcuni di questi uomini, il diavolo li inganna in modo del tutto meraviglioso. Infatti, manda loro una specie di rugiada – cibo degli angeli, essi pensano – che discende come dal cielo e cade dolcemente e deliziosamente nella loro bocca. […] Ma per quanto a loro possa sembrare santo, tutto questo non è che una mera illusione […]. Ed ecco che spesso il diavolo inganna le loro orecchie con suoni inusitati, i loro occhi con luci folgoranti, il loro naso con profumi gradevolissimi: nonostante tutto, questi sono fenomeni fasulli»24. Gli fa eco Thomas Merton: «L’ambizione spirituale è un ostacolo all’unione mistica. […] La nube, non diversamente dai grandi testi della tradizione apofatica, ci avverte che l’appetite for experiences – o, più crudamente, il desiderio di stati di trance – costituisce il danno più grave allo sviluppo di un’autentica vita mistica»25. L’esperienza mistica, propriamente parlando, non è neanche un’esperienza, o almeno non rientra tra ciò che comunemente viene considerato “esperienza”: secondo Swami Agehananda Bharati, al secolo Leopold Fischer, per oltre trent’anni docente di antropologia alla Syracuse University, essa è «esperienza zero» (“zero experience”)26. L’esperienza, infatti, viene normalmente definita come conoscenza: «conoscenza pratica della vita o di una determinata sfera della realtà» (Garzanti), «conoscenza diretta di qualcosa per osservazione, per prova o per percezione» (De Mauro), eccetera. Ma l’unione mistica, come abbiamo visto, avviene nella non-conoscenza, nella nube, nella notte oscura. Lo stesso Rahner, quando parla dell’esperienza trascendentale di Dio e della grazia, non si riferisce a un’esperienza particolare, categoriale, quanto piuttosto al fondamento di tutte le esperienze, all’orizzonte entro il quale esse hanno luogo, all’atmosfera in cui siamo immersi27.
L’uscita dal flusso esperienziale dell’esistenza terrena
La (non)esperienza mistica è proprio ciò che consente di uscire dal flusso esperienziale e accidentale dell’esistenza terrena, che il buddhismo e altre religioni orientali chiamano saṃsāra e considerano insostanziale e carico di dolore e sofferenza. A questo punto, visto che abbiamo chiamato in causa l’esperienza zero della mistica, possiamo usarla – un po’ come si fa nell’analisi matematica con i cosiddetti “annichilatori” – per eliminare, azzerare l’elemento in comune ai sostantivi “esistenza” ed “esperienza”, vale a dire la preposizione “ex”. Così l’esistere non è più uno “stare da…”, un “essere presenti nella realtà a partire da un’origine”, ma soltanto un essere presenti, un “esserci”. Grazie all’esperienza mistica non c’è più il moto da luogo, la distanza da Dio. Lo sfasamento tra essenza ed esistenza che caratterizza la nostra condizione e la carenza d’essere causata dal peccato sono sanati, risolti. E l’uomo, semplicemente, è. L’esilio è terminato. Siamo tornati in patria.
Marco Galloni
Note
1 Cfr. R. Radice, Esistenza e identità. Il punto di vista del pensiero antico, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1-2 (2015), pp. 79-81.
2 In J. Delumeau, Scrutando l’aurora. Un cristianesimo per domani, Edizioni Messaggero Padova (EMP), Padova, 2003, p. 81.
3 A. Cassano, Prima l’esistenza o prima l’essenza?, Riforma.it, 30 novembre 2021.
4 P. Ricoeur, «Il peccato originale»: studio di significato, in ID., Il conflitto delle interpretazioni (titolo originale: «Le péché originel»: étude de signification, in ID, Le conflict des interprétations. Essais d’hermenetique, Seuil, Paris, 1969, pp. 266-267), trad. it., Jaca Book, Milano, 1977, pp. 286-287.
5 Ivi, p. 280.
6 M. Flick S.J., Il dogma del peccato originale nell’attuale riflessione teologica, nota redatta per incarico della Commissione per la Dottrina della Fede e la Catechesi, 30 dicembre 1973, p. 3.
7 Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti (titolo originale: Adversus haereses, Libro terzo, 23,3-23,7), a cura di E. Bellini (nuova edizione a cura di G. Maschio), Jaca Book, Milano, 1997, pp. 290-294.
8 M. Flick S.J., op. cit., p. 3.
9 Ivi, pp. 5-6.
10 K. Rahner – H. Vorgrimler, Dizionario di teologia, trad. it., TEA, Milano, 1994, p. 482.
11 M. Flick, op. cit., p. 2.
12 Ibidem.
13 P. Teilhard de Chardin, Note sur quelques Représentations historique possibles du Peché originel, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 61-70.
14 M. Flick, op. cit., p. 5.
15 P. Gilbert, La pazienza d’essere. Metafisica. L’analogia e i trascendentali, Pontificio Istituto Biblico, collana Philosophia, 2015, p. 10.
16 G. Bruno, La cena de le ceneri, Dialogo terzo.
17 Cfr. M. Flick, op. cit., p. 4.
18 Ivi, pp. 6-7.
19 T. Merton, Semi di contemplazione, trad. it., Garzanti Editore, Milano, 1991, p. 42.
20 Come scrive A. Gentili in Premessa alla nuova edizione de La nube della non-conoscenza e gli altri scritti (Àncora Editrice, Milano, 1997, p. VI), l’identificazione dell’ignoto autore rimane a tutt’oggi problematica, anche se accurate ricerche credono di poterlo identificare in Adam Horsley, sacerdote in cura d’anime presso prestigiose università inglesi poi passato alla certosa di Beauvale.
21 Cfr. A. Gentili, op. cit., p. 55.
22 Cfr. Dicastero per la Cultura e l’Educazione – Sezione Cultura, La voce del silenzio.
23 T. Merton, op. cit., p. 173.
24 Anonimo del XIV secolo, La nube della non-conoscenza e gli altri scritti, Àncora Editrice, Milano, 1997, cap. 57, p. 224.
25 T. Merton, Preface, in W. Johnston, The Mysticism of the Cloud of Unknowing. A modern interpretation, St. Meinrad, 1975, pp. IX-XI.
26 Cfr. H.D. Egan, Christian Apophatic and Kataphatic Mysticism, in «Theological Studies» 39 (1978) 400.
27 Cfr. G. Sambonet, L’orizzonte teorico in cui è inscritto “Ai piedi del Maestro”, www.guiasambonet.com/blog/2018.