Che cosa potrebbe avere da dire un giornalista sul perdono? Dopo tutto, la nostra professione è tra le più spietate nel giudizio e tra le meno portate al perdono del mondo. Che cosa potrebbe avere da dire un reporter sul perdono come strada verso la riconciliazione? Non sono forse i media che si affannano sempre nei punti caldi e che alla fine non fanno che suscitare un po' più di violenza? Forse i media non approfittano in qualche modo della violenza per aumentare la diffusione e l'audience?
Non sono un cattolico osservante, ma dal Natale 1999 a Pasqua 2001 ho compiuto quello che ho chiamato un "ostinato pellegrinaggio giornalistico da cattolico". Ho ripercorso il cammino di Gesù da Betlemme all'Egitto, a Nazareth, al Giordano e a Gerusalemme. Lungo le antiche strade romane di pietra, ho trovato che i temi che risuonavano duemila anni fa all'epoca della vita di Gesù - occupazione militare, estremismo religioso, ingiustizia economica, il tentativo di controllare Gerusalemme - sono gli stessi temi che dividono la gente oggi. Sono arrivato ad una verità semplice e profonda: il messaggio predicato da Gesù nella terra che chiamava casa sua - una teologia centrata sul perdono anche dei propri nemici – è una sfida radicale oggi come lo era allora. Ho cercato di capire se la teologia del perdono, forse anche "la politica del perdono", possa essere una via d'uscita dal "ciclo di violenza" nel Medio Oriente.
Nel tempo trascorso a Gerusalemme, ho sentito parlare l'arcivescovo Desmond Tutu che sfidava gli israeliani e i palestinesi a seguire la strada del Sudafrica nel cercare di porre fine allo spargimento di sangue tramite una commissione per la verità e la riconciliazione come quella da lui guidata. Per citare l'arcivescovo Tutu, "il perdono non è solo un'idea vaga e nebulosa che si possa facilmente lasciare cadere. Ha a che fare con l'unire i popoli tramite una politica concreta. Senza il perdono non c'è futuro".
Non sono un teologo. Sono un corrispondente straniero. Ciò che faccio è raccontare storie, storie che, spero, possano illuminare. In questa vocazione, si ha una posizione di prima fila sulla storia, e vorrei condividere due scene recenti e personali cui ho assistito da questa posizione.
La prima ha avuto luogo in Afghanistan. Ero tra i primi reporter nel Paese dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001. Come chiunque altro, stavo annaspando in ciò che era accaduto. In quell'albero di dolore che sembrava tendere i suoi rami in tutto il Paese, mia moglie ed io avevamo perso una cara amica. Una nostra vicina di Charlestown (Massachusetts), era sul volo 11 dell'American Airlines. Il suo nome era Neilie Casey, ed era una splendida giovane donna il cui sorriso era caldo come il sole. Ma prima del suo funerale, mi trovai sul fronte in Afghanistan.
Guadammo il fiume Amru Daya a dorso di cavallo e salimmo su una costa polverosa. Dalle trincee potevamo vedere le forze talebane e di Al Qaeda circa 800 metri davanti a noi. Quelle vaghe ombre che si muovevano nella polvere erano il nemico. Un soldato dell'Alleanza del Nord mi offrì il suo fucile russo da franco tiratore, perché aveva un mirino ad alta precisione grazie al quale potevo vedere meglio. Sollevai il fucile ed eccoli lì, i combattenti talebani e di Al Qaeda, proprio lì a tiro.
Il fucile era carico e senza la sicura. Improvvisamente pensai a Neilie e all'enormità del crimine che le aveva tolte la vita E in quel momento, riconobbi la facilità della vendetta, "l'oscuro piacere", come l'ha descritto un teologo. Per un momento potei sentire il mio dito stringere il grilletto. Non sparai. Ovviamente non sparai. Prima di tutto, sono sicuro che non ne sarei stato in grado. Secondo, non è questo che fanno i giornalisti. Non sono un soldato. Restituii il fucile al soldato dell'Alleanza del Nord che mi chiese con provocazione, reprimendo un sorriso: "Perché non spara, signor Charles?".
Dopo l’11 settembre, l'America deve porsi degli interrogativi su che cosa sia la giustizia e che cosa sia la vendetta. Come possiamo rinunciare alla giustificabile rabbia che proviamo dopo aver visto il nostro Paese attaccato in modo così codardo e malvagio da uccidere 3.000 civili una splendida mattina di settembre? O più recentemente a Ryad, in Arabia Saudita, e chissà dove la prossima volta? Vi sono momenti, in guerra, anche per i giornalisti, in cui queste domande si pongono in modo drammatico, domande che vanno al cuore della nostra fede e al cuore di ciò che siamo come individui e come Paese.
Per me, una di quelle scene si è dispiegata proprio la scorsa primavera nell'Iraq settentrionale. Stavo coprendo la guerra per il Boston Globe e lavoravo a fianco di mio fratello Rick, un fotoreporter di talento. Era il 10 aprile, il giorno in cui la città di Kirkuk fu liberata. Rick e io avevamo un piano attentamente progettato per coprire l'evento per conto nostro. Come tutti i piani in guerra, esso venne stravolto dal caos delle pressioni dietro al fronte di guerra che collassava. Nella confusione fummo separati. Non lo sapevamo, ma venimmo spinti entrambi nello stesso punto: il fumo e le fiamme di un pozzo di petrolio nei vasti campi petroliferi che hanno fatto di Kirkuk uno dei più alti premi della guerra. Ad attrarre entrambi era una sorta di istintiva risposta giornalistica, come le falene che si avvicinano al fuoco.
Rick andò a Kirkuk in testa alle Forze Speciali degli Stati Uniti. L'esercito iracheno si stava arrendendo ovunque intorno a noi, e i combattenti alleati curdi si stavano mobilitando. Ma una marmaglia di combattenti volontari arabi conosciuti come fedayn erano impegnati nell'ultima battaglia. In una distorta interpretazione dell'Islam, era stato loro promesso il paradiso se fossero morti durante la battaglia contro gli americani "infedeli", che in questo caso comprendevano apparentemente giornalisti inermi. Per un momento straziante, Rick divenne il bersaglio dei Fedayn. Due guerriglieri lo stavano puntando.
Uno di loro sollevò un kalashnikov ma venne colpito dalle forze curde. L'altro, con la linguetta di una granata in bocca, ed un'altra granata nella mano sinistra, mirava a Rick. Mio fratello corse per salvarsi la vita e si salvò per poco. Ne venne scosso gravemente. L'uomo con le granate in mano fu ucciso quando Rick fuggì. L'altro fu dato per morto.
Ma su questa strada vi fu un intervento del destino. Mezz'ora dopo che Rick era scappato, stavo viaggiando sulla stessa strada e trovai il soldato fedayn morente. Mentre il nostro autista accostava, vidi soldati curdi prendere a calci l'uomo alla testa. Fu un fatto brutale anche nella brutalità della guerra. Il combattente era disarmato, aveva una ferita al petto e necessitava di assistenza medica. Ero con altri due colleghi, e chiedemmo ai soldati curdi di portare l'uomo in ospedale. Ci guardarono con rabbia e dissero: "è un fedayn. Hanno cercato di uccidere gli americani" Noi insistemmo perché l'uomo venisse portato in ospedale. L'ultima immagine che ho di lui era che veniva caricato nel baule di una vecchia auto e portato via. Più tardi venimmo a sapere che era sopravvissuto.
Non sapevo che l'uomo la cui vita stavo cercando di salvare aveva appena cercato di uccidere mio fratello. Solo pochi giorni dopo il fatto Rick ed io avemmo il tempo di ripercorrere la storia e le sue fotografie, e mettemmo insieme tutto. Avrei cercato di salvarlo se avessi saputo che qualche attimo prima aveva cercato di uccidere mio fratello? Sarei stato capace di perdonare quell'uomo in fin di vita se avesse ucciso mio fratello?
Non conosco le risposte a queste domande. Non ci sono ipotesi possibili su qualcosa di tanto difficile come il perdono. Ma ho visto scene incredibili di perdono in una regione così apparentemente estranea ad esso come il Medio Oriente. Myrna Bethke, una pastora il cui fratello fu ucciso al World Trade Center l'11 settembre, ha fatto tutta la strada fino a Kabul e ha descritto il perdono verso gli aggressori come qualcosa che le toglieva un enorme peso. "Sei di nuovo libero di vivere", ha detto.
Se noi come Paese vogliamo andare oltre l'agonia dell'11 settembre, possiamo imparare molto da Myrna. Abbiamo bisogno di chiedere giustizia. "Un crimine non può rimanere senza conseguenze". Ma dobbiamo anche farci domande che riguardano lo spirito. Non penso che la politica globale o il controterrorismo o persino la potenza militare ci faranno superare l'11 settembre.
Nel contesto iracheno, dobbiamo chiedere perdono per gli anni di appoggio al regime di Saddam Hussein alla fine degli anni '80? per esserci girati dall'altra parte quando Saddam portava avanti un attacco chimico contro il suo popolo, perché allora era di fatto un alleato nella guerra Iran-Iraq? Penso che se potessimo portare una dimensione di perdono nel nostro approccio al Medio Oriente, sarebbe un segno di apertura. Un prete una volta mi disse che già la volontà di perdonare è un grande inizio.
Come ha scritto Robert Frost, "il perdono non è una negazione della responsabilità umana; piuttosto riposa sul giudizio morale che quell'atto era sbagliato. Il perdono è compatibile con la giustizia, mai con la vendetta".
(da Adista n. 82, 15 nov 2003)