L'astrofisica del XX secolo ha dischiuso una visuale della realtà, che mostra una successione mozzafiato del tempo con inimmaginabili cambiamenti nell'universo a partire dalla grande esplosione e dalla formazione della terra fino alle inquietanti prospettive del lontano futuro. Le scienze naturali hanno rimosso l'uomo dal centro del cosmo. Come vera "offesa" dell'uomo io non sento però l'immagine copernicana del mondo e tutte le successive conoscenze, che lo hanno reso sempre più insignificante rispetto all'universo, bensì sento il tempo lineare e procedente in maniera inesorabile in avanti. Le idee derivanti da culture arcaiche e orientali di un rinnovamento periodico del mondo, di un eterno ritorno e di un tempo ciclico non corrispondono all'immagine del mondo delle odierne scienze naturali. L'essere umano non è stato rimosso solo spazialmente dal centro, ma partecipa in una misura minuscola anche al tempo. Egli non sta né alla fine né al di fuori dello sviluppo. A ciò collegata è l'offesa - che eufemismo! - inflitta dalla propria morte e dalla storia cosmica, che per lunghi tratti non significa progresso, ma decadenza.
In questo mondo decadente sono però in continuazione nate anche nuove strutture e ordinamenti, che non erano prevedibili o che erano al massimo germinalmente intuibili. Nella nuova immagine del mondo delle scienze naturali il cosmo si sviluppa da particelle elementari in una successione affascinante di salti evolutivi.
Questo passato innovativo è un motivo, dal punto di vista delle scienze naturali, per sperare? Dallo sviluppo passato non possiamo dedurre in maniera cogente un futuro favorevole per l'umanità o addirittura per l'individuo. Nell'universo si è sì formato perlomeno su un pianeta, la terra, un ambiente che rende possibile la vita, e l'evoluzione biologica si è spinta fino all'essere umano. Ma l'ottimismo è qui fuori luogo, a meno che non vogliamo dimenticare le innumerevoli vittime di tale sviluppo, i suoi errori e i suoi vicoli ciechi. Tutte le prognosi relative al futuro, riguardino esse gli esseri viventi, i pianeti, le stelle, le galassie o l'universo, prevedono in ultima analisi una disintegrazione. Il sole si raffredderà, la terra si perderà nello spazio, e addirittura la materia dell'universo decadrà radioattivamente. È sì senz'altro pensabile che anche in futuro possa nascere qualcosa di inatteso, che sia tanto nuovo quanto lo fu la vita sulla terra quattro miliardi di anni fa. Ma tale specie di nuovo non è prevedibile, perché gli sviluppi globali sono non lineari e caotici. Non esiste alcuna speranza dimostrabile in maniera scientifica naturale.
Un cultore di scienze naturali potrebbe stringersi nelle spalle e ricordare che l'incertezza fa parte di un futuro aperto. Noi vogliamo però cambiare ancora una volta posizione e chiederci da dove la fede cristiana attinge la propria speranza. La speranza può prosperare solo in un rapporto di fiducia. Tale fiducia è una determinata preconoscenza, con cui un uomo va incontro al proprio futuro. Essa poggia su una relazione tra il soggetto e il mondo. Sulla base di questa relazione si percepisce una realtà diversa da quella che si percepisce con il metodo delle scienze naturali. La speranza, la fiducia e la fede non possono in ultima analisi poggiare su dogmi o su costruzioni metafisiche, ma devono Concordare con proprie percezioni.
Neppure il cristianesimo postula ottimisticamente che lo sviluppo del mondo sia un progresso verso il bene e verso il razionale. L'ultimo libro della Bibbia, l'Apocalisse di Giovanni, lo dice mediante visioni apocalittiche. L'Apocalisse non spera più nel fatto che non ci sarà una crisi, ma solo nella nascita del nuovo. La speranza punta sulla dimensione divina del tempo, cioè sulla sua creatività. Le affermazioni "Io sono" del vangelo di Giovanni contengono la promessa e la speranza che la crisi - sia essa la fame, la sete, la mancanza di orientamento o la morte - sarà superata, senza però indicare come ciò avverrà concretamente. Noi uomini moderni, che pensiamo alla maniera delle scienze naturali, non troviamo facile accettare una speranza che deve contentarsi del semplice "che". Ma come già nel caso del concetto della creazione, così anche nel caso della speranza il "come" scientifico deve passare in secondo piano.
Nel Nuovo Testamento la speranza guarda agli eventi sconvolgenti del venerdì santo e della Pasqua. Quel che là avvenne, essa dice, avverrà di nuovo in maniera simile. L'evento-modello della crisi e della redenzione ha un esempio storico, su cui è in ogni tempo possibile misurare la speranza. Non stupisce che i cristiani si rifacciano in continuazione ad esso. Là diventa chiaro anche il fondamento trascendente della speranza, di una speranza apparentemente contro natura e contro ragione. Questo esempio è il modello della speranza nel piccolo come nel grande. I cristiani sperano nientemeno che nel nuovo in un mondo della morte e dell'evoluzione spietata; sperano, in termini religiosi, in una nuova creazione.
È forse bene ricordare che alla base dell'evento pasquale non ci sono fatti oggettivamente garantiti (...). Il modello del venerdì santo e della Pasqua è sempre stato l'elemento di un diverso piano di percezione, di quel piano partecipativo dove il soggetto e l'oggetto entrano in una relazione reciproca e costituiscono un tutto. Il modello, e quindi anche la speranza, non sono per questo motivo oggettivabili. La speranza cristiana non scaturisce da un'interpretazione dell'evento naturale indipendente dalla persona che osserva e non può essere fisicamente fondata. Forse è tipico della libertà umana che la speranza non sia cogente, ma sia piuttosto come un dono che uno può accettare o meno. La speranza non è un'idea astratta, perché essa si ripercuote alla fine anche sulla persona e vuole nientemeno che cambiare la condizione della vita umana.
Come nasce tale speranza? Nella speranza si esprime l'esperienza religiosa sul piano della fede. Tale esperienza è nata originariamente da elementi di percezioni sensibili, ma include anche percezioni relazionali e "interiori" fatte in sogni, visioni, esperienze della totalità o improvvise intuizioni in stato di coscienza vigile e lucida. Io vivo questa esperienza germinalmente in momenti tranquilli della vita quotidiana, quando in seno al superficialmente normale si stabilisce improvvisamente per breve tempo una relazione intensa. Il modello tramandato aiuta a cercare e inquadrare tali percezioni. Se vivo sperando, allora non percepisco il tempo solo come una successione di processi causali o casuali e come un presente infinitamente breve. Allora il mio sguardo coglie l'atteso futuro e il tempo acquista una durata, la durata dell'attesa fin quando il nuovo subentrerà. Attendendo con attenzione scopro a volte delle anticipazioni e dei sintomi del Nuovo futuro. Questo tipo di percezione richiede pazienza ed è pronto a impegnarsi in una reciproca relazione con la realtà.
Gesù dice:
Io sono il vero Nuovo
Chi confida in me ha parte al senso del tutto
nonostante la decadenza e la morte,
anche se il sole si spegnerà,
la terra si perderà nello spazio
e l’universo cesserà di irradiare.
Arnold Benz
Profilo biografico: Arnold Benz, nato nel 1945, vivente, è professore di atrofisica al Politecnico di Zurigo. È molto noto anche ad un più vasto pubblico per le sue trasmissioni sulla scienza alla televisione svizzera.
Opera di Arnold Benz: in italiano è stato pubblicato nel 1999 Il futuro dell'universo. Caso, caos, Dio? (Brescia Queriniana), dal quale abbiamo qui tratto il paragrafo conclusivo.
Il testo che presentiamo: Arnold Benz, interrogandosi come scienziato sul futuro dell'universo, intreccia un dialogo tra scienze naturali e religione. Egli riesce ad individuare alcuni punti di contatto: il desiderio di un orientamento all'interno della nostra civiltà tecnologica, lo stupore per il dinamismo del creato, il problema della morte. Per lui la storia del cosmo diventa una metafora del futuro sviluppo di ogni persona e del mondo.