Violenza necessaria?
di Jean-Marie Muller
Spesso è la violenza delle situazioni di ingiustizia che provoca la violenza delle armi. È importante comprendere la violenza che nasce dalla rivolta degli oppressi quando vogliono liberarsi dal giogo che pesa su di loro. Se la nonviolenza condanna e combatte anzitutto la violenza dell’oppressione, essa obbliga ad una solidarietà attiva con quelli che ne sono le vittime. Quando questi, il più delle volte come ultima risorsa, ricorrono alla violenza, non è il caso, in nome di un ideale astratto di nonviolenza, di voltare loro sdegnosamente la schiena. Non è il caso di respingere in un mucchio solo tanto quelli che sono responsabili dell’ingiustizia quanto quelli che ne sono le vittime. È importante non dimenticare che i veri fautori di violenza sono quelli che traggono profitto dal disordine stabilito e non difendono nient’altro che i loro privilegi. Ma liberare gli oppressi è anche tentare di permettere loro di liberarsi dalla propria violenza. Anche questo è un obiettivo della solidarietà verso di loro.
Spesso la violenza degli oppressi e degli esclusi è più un mezzo di espressione che un mezzo di azione. Non è tanto la ricerca di una efficacia quanto la rivendicazione di una identità. È il mezzo che hanno, per farsi riconoscere, coloro la cui esistenza stessa resta non soltanto sconosciuta, ma misconosciuta. La violenza è allora il mezzo di rivoltarsi contro questo misconoscimento. È l’ultimo mezzo di espressione di quelli che la società ha privato di tutti gli altri mezzi di espressione. Poiché essi non hanno avuto la possibilità di comunicare con la parola, tentano di esprimersi con la violenza. Questa si sostituisce alla parola che è loro rifiutata. La violenza vuol essere un linguaggio ed essa esprime anzitutto una sofferenza; essa è allora un “segnale d’allarme” che deve essere decifrato come tale dagli altri membri della società. La violenza è per gli esclusi un tentativo disperato di riappropriarsi del potere sulla propria vita, di cui sono stati spossessati. La violenza diventa allora un mezzo di esistenza: «sono violento, dunque sono». E la violenza permette di farsi riconoscere tanto più per il fatto che essa è proibita dalla società. Essa simboleggia allora la trasgressione di un ordine sociale che non merita di essere rispettato. Ciò che gli attori della violenza ricercano è precisamente questa trasgressione. A colui che la legge esclude da ogni riconoscimento, la violazione della legge appare allora come il mezzo migliore per farsi riconoscere. Questo può essere vero per l’individuo come per il gruppo. Anche il gruppo può volere provare a sé stesso di esistere come gruppo facendosi valere presso gli altri con l’impiego della violenza. Esso così obbligherà gli altri a riconoscere che esiste, non fosse che col combatterlo sul terreno della violenza, là dove egli stesso ha scelto di esprimersi. Inoltre la violenza della trasgressione, distruggendo i simboli di una società ingiusta, gettando a terra gli emblemi di un ordine iniquo, provoca un maligno piacere, un godimento reale. In questo modo, la violenza esercita un fascino su quelli che sentono la frustrazione e l’umiliazione di essere degli esclusi.
Ma comprendere la violenza non è giustificarla. Infatti, se la violenza è giusta quando serve una causa giusta, non diventerà allora il diritto e il dovere di ogni uomo, di ogni gruppo, di ogni popolo e nazione? E si è mai incontrato nel corso dei secoli, si è mai visto al mondo un uomo, un gruppo, un popolo, una nazione che non pretenda ad alta voce che la sua causa è giusta? E se noi aderiamo oggi al discorso che approva la violenza per difendere la buona causa, come potremo opporci domani a quello che approverà la violenza per la cattiva causa? Basterà discutere della causa e non della violenza? Probabilmente no, non basterà. Se la violenza è legittimata come un diritto dell’uomo, ciascuno potrà prendere a pretesto questo diritto per ricorrervi ogni volta che lo stimerà imposto dalla difesa dei suoi interessi. In realtà l’ideologia della violenza permette a ciascuno di giustificare la propria violenza. La storia si trova allora risucchiata in una spirale di violenze senza fine. Si crea una reazione a catena di violenze degli uni e degli altri, tutte legittimate, le une come le altre, una catena che nessuno potrà più interrompere. La violenza diventa fatalità. La nonviolenza intende spezzare questa fatalità.
Secondo le ideologie che dominano le nostre società, è necessario opporsi alla prima violenza, dell’oppressione o dell’aggressione, con una contro-violenza che possa contenerla e alla fine vincerla. Quelle stesse ideologie legittimano e giustificano questa seconda violenza affermando che essa ha per fine di stabilire la giustizia o di difendere la libertà. L’argomento – che si pretende sia al di sopra di ogni sospetto – incessantemente avanzato per giustificare la violenza, è che essa è necessaria per lottare contro la violenza. Questo argomento implica un corollario: rinunciare alla violenza sarebbe lasciare libero corso alla violenza. Ma, quali che siano le ragioni avanzate, questo argomento resta colpito, in teoria come in pratica, da una contraddizione irriducibile: lottare contro la violenza con la violenza non permette di eliminare la violenza. Le ideologie della violenza vogliono occultare questa contraddizione. La filosofia della nonviolenza e la strategia che essa ispira ... portano al contrario tutta la loro attenzione sulla violenza per tentare di superarla. Poiché qui si pone una questione essenziale e decisiva: il fatto di impiegare la violenza con l’intenzione di servire una causa giusta cambia o no la natura della violenza? In altri termini, è possibile qualificare diversamente la violenza secondo il fine al servizio del quale si pretende utilizzarla? Le ideologie della violenza vogliono dare una risposta positiva a questa duplice questione, e insinuano che l’uso della violenza per una causa giusta non è altro che l’uso della forza. La filosofia della nonviolenza fa una critica radicale a questa risposta e la respinge assolutamente. La violenza, in definitiva, resta la violenza, ossia essa resta ingiusta e, dunque, ingiustificabile perché resta disumana quale che sia lo scopo che si pretende di servire utilizzandola.
Jean-Marie Muller, da: Le principe de non-violence. Parcours philosophique, Desclée de Brouwer, Paris 1995, pp. 38-41, traduzione di Enrico Peyretti, in: Il Foglio, 289.