I Dossier

Lunedì, 27 Giugno 2005 21:31

La grazia di Babele - 1 parte (Raimundo Panikkar)

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Occorre smettere di costruire torri e torrioni inseguendo il vano sogno di una artificiosa umanità unitaria. Il pluralismo è alla radice delle cose; nessuna verità, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, e le lingue sono state giustamente confuse.


Testo di una relazione tenuta all'Università di California, a Santa Barbara, nel 1984. Il titolo originale è: "Il mito del pluralismo: la torre di Babele. Una meditazione sulla non violenza". E' stata pubblicata dalla rivista Bozze 84, n. 6, pp. 51-104. Il testo risente dello stile colloquiale della relazione. Alcuni riferimenti all'attualità politica risultano un po' datati, ma la relazione conserva tutta la sua attualità e pregnanza circa la riflessione sul pluralismo.


Il pluralismo, oltre il monismo e la dialettica
La grazia di Babele

"C'era una volta...", dice Genesi 11, (kai, è, dicono i Settanta)...:

… Tutto il mondo parlava una sola lingua e usava le stesse parole. Mentre gli uomini vagavano in Oriente giunsero ad una pianura nella terra di Sennaar è vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro "Venite facciamo mattoni e cuociamoli bene". Usarono mattoni per pietre e bitume per calce. "Venite - dissero - costruiamoci una città e una torre con la cima nei cieli e diamoci un nome, o noi saremo dispersi su tutta la terra".

sono un solo popolo e hanno tutti una sola lingua; questo è l'inizio della loro opera e ora mente di quanto avranno in mente di fare sarà loro impossibile. Ebbene andiamo giù e confondiamo il loro parlare, così che essi non comprendano ciò che si diranno l'un l'altro". Così il Signore li disperse da là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Questa è la ragione per cui è chiamata Babele, perché il Signore rese un balbettare la lingua di tutto il mondo; da quel luogo il Signore disperse gli uomini su tutta la faccia della terra (Gen. l1, 1-9).

"C'era una volta..." e ripetutamente si è verificato, più e più volte; i Babilonesi, gli Assiri, i Romani, i Greci, gli Alessandri il Grande e il resto, gli Spagnoli e i Francesi, e gli Inglesi e gli Americani, e i Tecnocrati dei tempi moderni: tutti costoro si sono ritenuti i soli a portare un vessillo con criteri assoluti.

Essi viaggiarono verso l'Est, viaggiarono verso l'Ovest per trovare nuove tecniche, nuovi modi per costruire mattoni più robusti o migliore calcina o utensili più adatti o armi più potenti, o che altro. Forse fu la lancia, fu la scoperta del ferro, fu - grosso balzo in avanti - la bomba atomica. E poi dissero: "Trascorriamo un po' di tempo insieme e costruiamo una grossa torre, una sola città, una sola civiltà, una sola costruzione… e adoriamo un solo Dio, perché ora abbiamo i migliori mattoni, con i quali possiamo fare qualcosa di duraturo e andare in cielo e questa volta costruite veramente una società senza classi, la vera giustizia sulla terra, il Proletariato arbitro del proprio destino" e così via.


Il Signore conosceva la futilità del sogno di un sistema monolitico e sapeva che a mondo è pluriverso e non un universo


C'era una volta... è stato il sogno dell'Umanità (un sogno che sembra in qualche misura costruito nel cuore dell'uomo) di edificare una sola torre, una grossa scala verso li cielo, una grande costruzione. E il Signore - che qui sembra esserle piuttosto invidioso, o desideroso di mantenere le proprie prerogative, o sta giocando un brutto scherzo - non sembra ben disposto verso simili imprese umane e. una volta ancora, Nabucodonosor cade, l'Augustus Imperator muore, l'impero colossale si sgretola, le grandi orde svaniscono... Eppure continuiamo a coltivare lo stesso sogno una grande città che racchiuda tutto. Forse, dopotutto, il Signore Dio sapeva meglio che la natura dell'uomo non è gregaria, collettiva, ma ciascun essere umano è un re, un microcosmo e il cosmo è un pluriverso, non è un universo. Dio, come il simbolo per l'Infinito, sembra essere nel suo proprio ruolo quando distrugge tutte le imprese umane tendenti a comode delimitazioni.

In ogni caso, dopo 60 secoli di umana memoria nel reame storico, non vi è per noi alcun modo per svegliarci alla futilità di questo sogno? Che cosa accadrebbe, se noi semplicemente smettessimo di costruire questa tremenda torre unitaria? Che cosa, se invece dovessimo rimanere nelle nostre belle piccole capanne e case e focolari domestici e cupole e incominciassimo a costruire strade di comunicazione (invece che solo di trasporto), che potrebbero col tempo essere convertite in vie di comunione, fra due o più tribù, stili di vita, religioni, filosofie, colori, razze e tutto il resto?

E anche se non riusciamo ad abbandonare il sogno dell'umanità unitaria - questo sogno del sistema monolitico della Torre di Babele è diventato il nostro incubo ricorrente - non potrebbe esso essere soddisfatto dal costruire semplicemente strade di comunicazione piuttosto che qualche gigantesco impero, modi di comunione invece che di coercizione, sentieri che possano condurci al superamento del nostro provincialismo, senza spingerci tutti entro lo stesso sacco, entro lo stesso culto, entro la monotonia della stessa cultura?

Questo, in conclusione, è ciò che voglio dire.


Il problema del pluralismo


I - Il problema del pluralismo. Non mi riferisco esclusivamente al cosiddetto "pluralismo politico", in grande evidenza durante la prima metà di questo secolo, nemmeno all'ideale di una "società pluralistica" come nel dibattito sociologico contemporaneo. Non ho intenzione di discutere il "pluralismo ontologico" nemmeno come enunciato. Il mio problema si riferisce a tutti questi aspetti e la sua trattazione vorrebbe offrire un supporto critico alla sociologia e alla ontologia, ma cerca di toccare una istanza più radicale che sta alla vera base dell'uso di questa parola "pluralismo" come simbolo vivo, il cui campo di indagine include sia la natura dell'uomo che quella del mondo.

1. Irriducibilità della prassi a teoria. Ora affrontiamo uno di quei problemi esistenziali che scaturiscono da una sfida che nasce dalla prassi e solo nella prassi trovano la loro soluzione "teoretica" Il problema attuale del pluralismo deriva da una genuina esperienza di disorientamento e caos e non da una qualche problematica teoretica. Non vi è niente di molto peculiare in questo, dal momento che molti problemi reali scaturiscono dal dovere affrontare situazioni che fanno vacillare la mente. La peculiarità di tale tipo di problemi esistenziali nasce dal loro toccare un confine ultimo, qualcosa che è irriducibile per principio, e così invita a ritornare alla prassi. Nessuna soluzione teoretica può essere mai adeguata al problema del pluralismo e questo quasi per definizione. Un problema che ha una risposta teoretica non è un problema. pluralistico. Noi non dovremmo attenderci perciò una soluzione teoretica. Dovremmo evitare il complesso di superiorità ed il dominio dell'intellettuale, quanto quello dell'uomo d'azione. La teoria e la prassi sono vicendevolmente dipendenti allo stesso modo in cui hanno una propria consistenza. Chiamo questa relazione ontonomica.


Il pluralismo è diventato un dilemma quotidiano concreto, il vero interrogativo pratico dell'esistenza planetaria umana e non si risolve con alcuna teoria


Comunque sia, la soluzione appartiene altrettanto bene alla prassi (per quanto noi possiamo naturalmente riflettere anche sulla soluzione e sul suo significato). Se le cose stanno in questi termini, il rapporto fra teoria e pratica non è una relazione dialettica, che potrebbe tutto il peso soltanto sul logos e finirebbe per sfociare in un'altra ideologia "Noi sappiamo meglio e ora veniamo con la nostra soluzione tutte le torri precedenti erano errate" ma ora noi vi diremo il segreto per costruire il vero, l'eterno torrione. "Noi", i Cristiani, i Marxisti, i Civilizzati, i Tecnocrati, gli Artisti, gli Scienziati, i Razionalisti…". No!

Sto ancora preparando il terreno; permettetemi di farvi notare che c'è Stato uno spostamento di significati nella parola "pluralismo". Se noi consultiamo qualsiasi dizionario, vediamo che ha sia un significato sociologico che filosofico. Nel primo caso ci dicono che il pluralismo ha a che vedere con le teorie politiche del come strutturare l'interrelazione fra le società umane, specialmente lo Stato, e gli altri raggruppamenti umani. Nel secondo caso troviamo che il pluralismo è distinto dal monismo e dal dualismo e che il pluralismo può essere atomico, assoluto, sostanziale, ecc., dipendendo dal riferirlo a Bertrand Russel e al suo atomismo logico, o a William James, o a Gilbert Ryle, o chi altro. In breve il pluralismo è stato classicamente considerato un concetto metafisico che solleva certe domande in merito alla realtà in astratto tanto per intendersi. Oggi il significato della parola si sposta da un ambito sociale e metafisico a uno esistenziale, che ci aiuta a scoprire le sue radici. Il pluralismo è oggi un problema umano esistenziale che solleva acuti interrogativi sul come vivremo le nostre vite in mezzo a tante opzioni. Il pluralismo non è più la vecchia domanda da libro di scuola circa l'Uno e i Molti; è diventato un dilemma quotidiano concreto, provocato dall'incontro di punti di vista sul mondo e di filosofie vicendevolmente incompatibili. Oggi affrontiamo il pluralismo come il vero interrogativo pratico dell'esistenza planetaria umana.

Ora, naturalmente, la grande tentazione è, ed è sempre stata, quella di creare un super-sistema: "Eccomi qua, io, il tollerante, che ha fatto un posto per tutti e per tutti i diversi sistemi. Ovviamente voi dovrete stare nel luogo ché io vi ho destinato, Io - il grande jivanmuktadella persuasione vedantica - Io so di essere al di sopra di tutte le differenze e ho un luogo per i Cristiani, per gli Ebrei, per i Musulmani, per tutti... A condizione che, naturalmente; essi si comportino bene, seggano ai posti che io ho loro assegnato, saranno felici e contenti, perché Io - l'illuminato Uomo di Scienza e Ragione - ho una visione superiore, solida, che mi permette di essere totalmente tollerante e di tenere tutti gli altri al mondo contenti nei loro posticini. Io, il Cristiano, il Filosofo, il Re…". Basta così! Questo non è certamente un atteggiamento da pluralismo.

L'interrogativo del pluralismo è anche la perplessità che scaturisce da una pluralità di entità irriducibile. Essere tolleranti di una pluralità di religioni o di mercati mondiali o scuole d'arte per tutto il tempo in cui possiamo andare avanti con le nostre proprie idiosincrasie, facendo affari come al solito, essendo solamente rispettosi delle fantasie degli altri nella misura in cui non interferiscono con le nostre, ha poco a che vedere con il pluralismo religioso, economico, artistico, ecc. La pluralità di nazioni assolutamente sovrane, che promettono di non interferire negli affari dei vicini, perché implicitamente riconoscono che sono al massimo inter-nazionali, ma non sopra-nazionali, problemi come i diritti umani, le istanze sociali universali o gli interessi planetari, ha di nuovo poco a che fare con il pluralismo. Il pluralismo comincia quando la prassi ci costringe a prendere posizione di fronte all'effettiva presenza dell'altro quando la prassi rende impossibile evitare la reciproca interferenza e il conflitto non può essere risolto dalla vittoria di una parte o partito. Il pluralismo emerge quando il conflitto si delinea inevitabile.

Il problema del pluralismo sorge solo quando noi sentiamo - noi soffriamo - l'incompatibilità di differenti punti di vista e siamo al contempo costretti dalla prassi o dalla nostra reale esistenza a cercare sopravvivenza. Il problema diventa acuto oggi, perché la prassi contemporanea ci getta l'uno nelle braccia dell'altro; noi non possiamo più vivere tagliati fuori l'uno dall'altro in scatole geografiche, impacchettati in lindi piccoli compartimenti e reparti, segregati entro capsule economiche, aree culturali, ghetti razziali, e così via.

Forse la più grande, per quanto indiretta, conquista della tecnologia è l'aver portato la gente, i popoli assieme. Oggi l'isolamento non è più possibile e il problema del pluralismo è diventato il centro della faccenda. Né la muraglia cinese, né gli oceani, né la polizia segreta, né gli eserciti possono proteggerci contro le bombe atomiche e i mass-media.


Il problema del pluralismo è il problema dell'"altro", ed è radicato nella natura più profonda delle cose


2. Importanza del problema. Il problema del pluralismo è, in un certo senso, il problema dell'altro.

Come possiamo tollerare, o persino capire, l'altro, quando ciò non è in nessun modo - razionalmente, ragionevolmente o intelligibilmente - fattibile? La parola è forse non più nelle mani del greco moira, o dell'indiano karma, o dell'abramico provvidenza. La parola oggi sembra essere nelle nostre mani, in una situazione forse peggiore di quei giorni, quando noi potevamo almeno bestemmiare i fati, accusare il destino o disputare come Giobbe con il suo Dio sulla bontà o meno del suo operato. Non abbiamo più nessuno da biasimare per le nostre sofferenze che noi medesimi. Che cosa è diventato per gli esseri umani più imperscrutabile e distante del Dio tradizionale? Come possiamo cavarcela con sistemi incompatibili? Come possiamo farcela con i problemi ultimi dell'Uomo? Come possiamo farcela in termini di giustizia con il problema dell'altro? Vale la pena notare che praticamente qualsiasi cosiddetta civiltà ha raggiunto la sua posizione di preminenza a spese di qualche popolo "marginale"… Il goym, il kaffir, l'infedele, il pagano, il povero, l'illetterato, il selvaggio, il nero, il terzo mondo… in una parola: il barbaro.

Il problema dell'altro in quanto altro: come possiamo pretendere di trattare i problemi ultimi dell'Uomo se insistiamo a ridurre l'essere umano a solamente l'Americano, o solo il Cristiano o solo il Negro o solo il Maschio o esclusivamente l'Eterosessuale o il sano o il "normale" o il cosiddetto civilizzato! Ovviamente non possiamo. Quello che io dirò è che il vero fondamento di una società pluralistica non sta nel pragmatismo, nel senso comune, nella tolleranza e nemmeno nel male minore, ma piuttosto che il pluralismo è radicato nella natura più profonda delle cose.

Si dovrebbe incontrare qui un'importante obiezione. Nell'affermare che la giustificazione del pluralismo non è a livello del pragmatismo - per la pura e semplice necessità di sopportare l'altro - ma e fondata nella natura dell'Uomo e della Realtà, non sto io assicurando una base teoretica al pluralismo e così contraddicendo la mia affermazione iniziale che il problema pluralistico, posto dalla prassi, non può venire risolto da alcuna teoria?

Due osservazioni possono dissipare questa obiezione. La prima consiste nel richiamare che io ho iniziato a parlare del Mito del Pluralismo non dissipando il mito, ma chiarificando che il pluralismo è effettivamente un mito nel senso più rigoroso del termine: un orizzonte sempre effimero nel quale poniamo le cose allo scopo di esserne consapevoli, senza mai trasformare l'orizzonte in oggetto. Il mito è irriducibile al logos - nonostante la loro comune origine - e così nemmeno riducibile alla teoria. La seconda osservazione ci ricorderà semplicemente che non è detto in nessun luogo che la natura dell'uomo e la realtà sono totalmente trasparenti alla teoria o, in altre parole, che l'Uomo è sinonimo di antropologia o Realtà di Filosofia - nemmeno come oggetti di coscienza. Affermando, allora, che la natura dell'Uomo e della Realtà è pluralistica, io sto sostenendo che nessuna antropologia (o antropologie), nessuna filosofia (o filosofie), ha mai esaurito - nemmeno teoreticamente - Uomo e Realtà. Neppure può la teoria offrire l'ultima giustificazione per la prassi (su che cosa la teoria stessa è basata?), né può la prassi offrire la fondazione ultima per la teoria (su che cosa è la prassi giustificata?).

Permettetemi di essere chiaro in merito a questo, tradendo una delle mie più accarezzate intuizioni metafisiche: l'assunto metafisico fondamentale della maggior parte della civiltà occidentale, fin dai Presocratici, è la convinzione dell'intima corrispondenza fra pensare ed essere. Possono essere in definitiva lo stesso o differenti, ma essi teoreticamente sono complementari. E la mia osservazione critica consiste nel sostenere che questa geniale intuizione non è umanamente universale e perciò non universalizzabile, se non vogliamo ridurre l'intera gamma dell'esperienza umana - o del fatto umano. Il mondo Buddista, ad esempio, non fa tale assunto.


Il problema nasce quando le diversità, spinte al limite, diventano incompatibili tra loro e rendono impossibile l'unità


3. Genesi del problema. Come interludio permettetemi di presentarvi alcune osservazioni sotto questa intestazione.

1) II pluralismo non ha significato (Uniformità).

All'infuori degli eccezionali, e generalmente mitici, inizi, la comunità (famiglia, tribù, gruppo, chiesa…) precede l'individuo. L'individuo entra o nasce in una società che egli non ha plasmato. Qui i riti di iniziazione (assegnazione del nome, circoncisione, battesimo, contratto, voti…) hanno il loro posto. Prima di questo tutto e indiscriminatamente indifferenziato "tutti i giovani uomini sono zii", "tutti i cinesi si somigliano". Vi è una coscienza indifferenziata: tutti gli altri sono gettati entro lo stesso sacco, tutti gli altri sono "terzo mondo" (Che cosa infatti la gente del cosiddetto terzo mondo ha in comune, eccetto un certo tipo di Prodotto Nazionale lordo?). L'altro in quanto altro non esiste; e se esiste egli è "non-persona"; ignorato, non considerato. Viviamo in un mondo indifferenziato, per grande o piccolo che questo mondo possa essere. La tribù e il mondo.

2) Pluralismo significa pluralità (Differenza).

Ad un certo momento, l'individuo comincia a notare che il suo gruppo non è il solo del genere esistente nel mondo (ci sono altre famiglie, tribù, nazioni, chiese, religioni). Diventa cosciente della molteplicità. Questa potrebbe venir chiamato un riconoscimento de facto della pluralità. È il regno della Quantità. I molti popoli mettono su Babele. Nella pluralità la questione della compatibilità o incompatibilità della molteplicità non si pone. È un fatto. Non genera frizioni insostenibili, perché i limiti sono nitidamente tracciati e custoditi con zelo. Una nazione è né più né meno che un'altra nazione, un gruppo semplicemente un altro gruppo, un individuo solamente un altro individuo e cosi via.

La molteplicità è data per scontata, e non vi è interrogativo sull'unità. (Bertrand Russell, difendendo il "pluralismo assoluto" lo chiamò dapprima "atomismo logico"; potrebbe servire da esempio qui).

3) Pluralismo significa pluriformità (Varietà).

Ad un altro momento, l'individuo diventa consapevole che egli ha una particolare visione del suo gruppo. Si rende conto che la sua interpretazione, benché ovviamente la migliore per lui, non è la sola possibile. Altra gente nello stesso gruppo sostiene opinioni diverse e queste nozioni si cristallizzano in forme differenti (partiti politici, persuasioni religiose, vari settori, ruoli e funzioni) entro una data comunità. L'uomo diventa consapevole della varietà. Questa potrebbe essere definita coscienza della pluriformità.

Ancora una volta, il regno della Qualità; le genti diverse, con differenti qualità cominciano a costruire Babele. Nella pluriformità, la questione della compatibilità o incompatibilità della varietà non si pone, perché l'unità del gruppo è già un fatto accettato. Vi è la nazione e dentro di essa una varietà di partiti politici e di modi di agire. Vi è la Chiesa e al suo interno una varietà di opere, attività e chiamate. L'unità è data per scontata e la varietà non è vista come una sfida ad essa. Qui tutti viviamo dentro un singolo mito. Ma questa può diventare una assunzione erronea di filosofie e di visioni del mondo, quando esse cercano di essere universali, estrapolando da ciascuna un qualsiasi orizzonte unificato (la Cristianità post-medioevale potrebbe essere un esempio tipico o una Teologia del Processo; esse vogliono essere universali da una prospettiva che è vista come universale solo da dentro il sistema).

4) Pluralismo connota un'armonia irraggiungibile (Diversità).

Vi è un altro momento nell'evoluzione degli individui e delle società, quando l'Uomo diviene conscio di diversità che, se spinte al limite, romperebbero l'unità. L'uomo diventa consapevole di entrambe, sia dell'esigenza della diversità, che dell'esigenza dell'unità. Ma l'armonia fra le due esigenze è diventata tutto d'un tratto problematica; esse sembrano incompatibili. "Deutschland über alles" e gli Stati Uniti come "la più grande nazione del mondo" non possono coesistere come valori finali. Il Cristianesimo come "religione assoluta" e l'Induismo come "l'eterno dharma" sono incompatibili. Una filosofia basata sulla reale differenza tra essenza ed esistenza, come il vero fondamento per la libertà umana e per la distinzione fra Creatore e creatura, non può conciliarsi con la posizione Scotista, un Tomista non può né convenire con uno Scotista, né realmente comprendere come il secondo possa evitare il panteismo e chiamarsi cristiano - e, naturalmente, viceversa. O ancora, San Paolo ritenne inconciliabile per le persone sposate vivere l'esperienza coniugale ed essere pienamente consacrate a Dio.

In altre parole, fino a quando la Germania e gli Stati Uniti sono nazioni indipendenti, il Cristianesimo e l'induismo religioni senza rapporto, il Tomismo e lo Scotismo filosofie autonome, fino a quando le cose del mondo sono tenute separate da quelle di Dio, non vi è problema. Il problema sorge quando l'interazione diventa inevitabile e noi scopriamo che abbiamo solo un mondo per la Germania e gli Stati Uniti, solo una verità per l'Induismo e il Cristianesimo, solo una Chiesa per il Tomismo e lo Scotismo, solo una perfezione per i maritati e i celibi. I costruttori di Babele non possono ciascuno costruire una torre per sé. Non solo devono comunicare in merito ai mezzi (strumenti), ma condividere i fini (una sola torre). L'isolamento non è più possibile e l'unità non è convincente poiché distrugge una delle parti.

A questo momento le alternative sembrano essere o disperazione, con tutto quello che ne consegue, o la speranza, con tutte le sue esigenti richieste. Questa seconda metà del secolo può essere chiamata sia l'età della disperazione che l'età della speranza.

Al tempo corre e si fa breve: si dovrà cominciare tutto da capo (liturgia e morte) o tutto scoppierà (escatologia e rivoluzione). "Los estremos se tocam".


L'approccio filosofico al problema del pluralismo: la "soluzione" monistica


II - Approcci al pluralismo. A questo punto dovrò tentare di dire che cosa è il pluralismo. Mi accingerei alla formulazione per mezzo di tre percorsi diversi: quello filosofico, quello fenomenologico e quello antropologico.

1. L'approccio filosofico. Da un punto di vista filosofico il conflitto tra l'Uno e i Molti, che ha tenuto occupato l'Uomo almeno sino da Platone nell'occidente e gli Upanishadi in oriente, è forse l'interrogativo centrale della mente umana. Qui, invece di un intero corso di filosofia, mi limiterò ad esporre, come se fosse una mostra d'arte, focalizzando su profili metastorici, che cercheranno di indicare alcuni modi con cui l'Uomo ha trattato i problemi delle diversità umane fondamentali. Il problema dello hèn kai pollà, ekam evâdvitìyam, o, come possiamo porlo qui, (a) monismo, (b) dualismo, (c) non-dualismo, potrebbe essere formulato come segue: (a) uno o molti, e l'uno alla fine prevale; (b) uno e molti, e i molti vincono; e (c) né uno né due, e la polarità di tensione viene mantenuta. A causa della brevità alcune caricature sono inevitabili, ma voi con il vostro esprit de finesse le comprenderete, ne sono certo.

Monismo. Il primo itinerario è dominato dalla legge della giungla: ciò che l'accademia potrebbe chiamare la legge della storia, la scienza la legge di natura, e la filosofia la legge del potere. Il monismo qui può essere latente o implicito; non ha bisogno di mostrare subito i suoi colori. Il più forte in artigli, intelligenza, o armi prevarrà - a meno che, naturalmente, l'equilibrio sia mantenuto da una uguale proliferazione fra preda è predatore. Questa è la cosiddetta legge di natura. Il segreto della cultura è di posporre il confronto abbastanza a lungo da far sì che alla fine sia "risolto" dalla vittoria del più potente. Dobbiamo tollerare l'altro, fino a quando possiamo conquistarlo, convertirlo, convincerlo o indottrinarlo come la parte più debole. Pazienza, chiamata anche tolleranza e prudenza, sono qui le parole chiave, assieme a strategia, apostolato, conversione, vittoria e simili. Un Impero, una Chiesa, un Dio, una Civiltà, un Partito, una tecnologia ecc. sono le espressioni generali di questo atteggiamento. Il Monismo ne è l'espressione finale. Il monoteismo, come distinto dal teismo, potrebbe esserne un'altra parola chiave. Colonialismo e Imperialismo sarebbero descrizioni polemiche. E l'escatologia può essere il modo più raffinato di domare il conflitto, posponendo la soluzione fino alla fine. Con una concezione lineare del tempo, questo è perfetto per il più forte; può aspettare nella speranza della vittoria finale. Per la parte più debole tutto è perduto se il tempo è lineare. Se il tempo è circolare, ciascun momento è indipendente dal suo risultato finale e non si ha bisogno di stabilire che la vera bellezza di una sinfonia si trova solo nel suo finale. Nessuna meraviglia che lo sfruttamento monistico abbia trovato più facile dominare popoli indifferenti al fluire unidirezionale della storia. L'Escatologia teologica pone in una trascendenza verticale ciò che l'escatologia storica pone in un futuro orizzontale. In una concezione monistica, non vi è posto legittimo per il pluralismo. È al massimo tollerato - con gentilezza e pazienza (o talvolta senza di esse) - per evitare un male maggiore. La pluralità è sempre provvisoria.

Non sto affermando che il monismo offre una cattiva soluzione. Ben compreso, può darsi che esso mantenga la polarità di aiutarci a lottare per una unità finale e sopportare le pluralità per il tempo corrente, durante la condizione itinerante dell'Uomo è dell'essere. L'Uomo allora ha una meta e allo stesso tempo una consapevolezza della sua caduta e condizione provvisoria, così che la pazienza diviene la virtù centrale - per mezzo della quale possediamo le nostre vite, tanto per citare il vangelo.


Il rimedio dialettico


(b) Dualismo. Il secondo modo per affrontare il problema delle diversità fondamentali è il genuino metodo dialettico. Qui, in un certo senso, il pluralismo è addomesticato. La tensione fra l'Uno e i Molti è risolta dalle cosiddette regole della mente e cerca un equilibrio ed eventualmente una sintesi, tra il sic et non. Alle diverse opinioni, visioni del mondo e atteggiamenti, è consentita una "libera" interazione dialettica; l'Uomo consente questo libero interagire di vari fattori con la piena fiducia che il conflitto alla fine sarà incanalato e risolto. La coesistenza è la regola base che consente allo scambio dialettico di avere luogo a tutti i livelli. Teoreticamente qualsiasi opinione potrebbe venire sostenuta, a condizione che voglia scendere entro l'arena dialettica e combattere là da sola. Se sconfitta perderà il diritto di esistere. Democrazia e libertà sono parole chiave qui; numeri (voti, punti, dollari...) sono considerati decisivi, il risultato di un processo dialettico per mezzo del quale questi stessi numeri sono conquistati. Non è proprio così semplice come "un uomo, un voto", perché maggiore è il numero delle responsabilità, più voti tu ottieni, e più in gamba sei, più denaro guadagni; così che il potere e l'influenza sono "equamente" distribuiti secondo i talenti. Liberalismo, libera iniziativa, interscambio, propaganda, e così via sono altre espressioni dello stesso atteggiamento.

Il Dualismo ne è l'espressione finale. Ma il vero dualismo implica che entrambi i partiti accettino il gioco dialettico. Funziona solo fino a quando l'uno e i molti sono più o meno egualmente potenti (il dualismo funziona quando si hanno Conservatori e Laburisti, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica), ma perché dovrebbero i bianchi Sud Africani accettare una conferenza con i negri attorno ad una Tavola Rotonda, o il governo degli Stati Uniti permettere all'esercito di Liberazione Simbionese di esistere, se essi sono convinti che lo scopo dell'altro è di distruggere totalmente l'avversario? Il monismo qui sta in agguato. Consentiamo la coesistenza fino a quando non pone in questione la nostra esistenza. Alcuni scendono a compromesso in buona fede, perché essi non vi cancellerebbero se potessero (l'opposizione democratica, per esempio, appartiene al sistema). Altri scendono a compromesso in cattiva fede, perché si rendono conto che non possono eliminarvi. Che cosa si deve fare allora? - "écraser l'infâme"? (invadere il Sud Africa o l'Unione Sovietica? o dovrebbero essi attaccare per primi, conoscendo le intenzioni dei loro avversari?)

Ancora, io non sto affermando che il dualismo è una cattiva o un'errata opzione. Forse in certi casi è la sola "realistica", Forse la situazione effettiva non consente nessun'altra forma di sopravvivenza; forse ripone la sua fiducia nella spontanea intuizione dell'Uomo, l'animale divino, dotato certamente di quello che i Greci chiamavano zoè (vita spirituale, infinita), ma anche di quello che essi chiamavano bios (vita animale, finita, o come potremmo anche dire, vita "vitale"). In ogni caso il problema del pluralismo non è risolto accusando gli altri di essere villani e presentando noi stessi come gli eroi.

(c) Non-dualismo. Vi è ancora un terzo modo, del quale la nostra epoca sta diventando crescentemente consapevole, per quanto sia coesistito con gli altri fin dal principio. Il primo modo cerca di risolvere il conflitto finale, promuovendo il trionfo della parte più forte, per quanto le parole usate non siano solo potere, ma anche verità, Dio, legge e ordine, ecc. e infatti, riesce a domare le forze disgregatrici di un determinato status quo. Il secondo modo cerca di risolvere l'incompatibilità per mezzo di un equilibrio dinamico e provvisorio fra le diverse posizioni, e certamente funziona per tutto il tempo che noi riusciamo a credere nello stesso mito. Il terzo modo è sensibile sia al diritto del potere che alla saggezza della tensione, ma tende ad un approccio del tutto differente da una soluzione monolitica in favore del più forte e da una soluzione dualistica, che è costretta o ad irrigidirsi entro un equilibrio instabile ed esplosivo, o a cadere in un compromesso nel quale alla minoranza è assegnato solo un premio di consolazione. Il non-dualismo sarebbe l'espressione di questo terzo modo.


Il "non dualismo" lascia aperta la questione: infatti il pluralismo è il problema del caso limite, che nasce nell'area di ciò che non è negoziabile per noi; si tratta di accettare positivamente la diversità


Qui il pluralismo appare come una consapevolezza che conduce ad una positiva accettazione della diversità - un'accettazione che né forza le differenti attitudini entro un'unità artificiale, né le aliena per mezzo di manipolazioni riduzionistiche. Qui il potere non ha l'ultima parola né la norma della maggioranza è il fattore decisivo.

Come abbiamo visto, il problema del pluralismo sorge quando noi non possiamo separare l'altro da un'unità che in qualche modo ci comprende entrambi, anche se siamo incapaci di consentire con (e spesso di comprendere) l'altra parte. Non possiamo né prescindere, né rompere l'unità - è sopra di noi. Non possiamo lasciare il paese o la lingua o il pianeta, per esempio, - ne approvare o comprendere la diversità - di nuovo obbligati da un potere superiore alla nostra volontà. "Noi" non possiamo passare sopra la tortura o il capitalismo o la dittatura. Come il poeta ha detto una volta parlando dell'amore: nec tecum nec sine te, né con te né senza tè io posso vivere.

Visto da un'altra angolatura, il problema del pluralismo sorge quando noi affrontiamo un conflitto insolubile di valori essenziali: da una parte, non possiamo rinunciare alle esigenze della nostra coscienza e dall'altra, non possiamo rinunciare alle esigenze della nostra personale consapevolezza. Per Abramo il problema di sacrificare il proprio figlio non era un problema pluralistico, perché Dio era l'assoluto padrone sia della coscienza che della consapevolezza. In questo caso non vi è conflitto Supremo.

Per Aryuna nella Bhagavad Gita, invece, il problema era pluralistico. Aryuna era diviso tra la sua coscienza, che gli diceva di seguire il sacro dovere della propria casta, e la sua consapevolezza, che gli suggeriva che finanziare una guerra non avrebbe risolto niente. Il problema del pluralismo è il problema del caso limite, dell'istanza suprema: Dio o Uomo, Coscienza o Consapevolezza, Famiglia o Nazione, Chiesa o Mondo, Fedeltà a se stessi o Lealtà verso la propria società. Il problema si pone quando so di avere inalienabili diritti, la cui conservazione è diventata un dovere essenziale per me. Il pluralismo nasce nell'area di ciò che è non-negoziabile per noi. Tutto il resto è una questione di accettazione, o compromesso, o prudenza, o savoir faire; ma il pluralismo in sé è non-manipolabile. Il pluralismo inizia il suo corso nel mondo quando l'Uomo, avendo perduto la sua innocenza, tenta disperatamente di conquistare una nuova innocenza. Se la filosofia o la religione ignorano questo problema, possiamo ben comprendere perché esse hanno poca credibilità, quando tentano di darci una bussola per orientarci nel nostro mondo. La vita umana autentica fronteggia la morte costantemente: "essere o non essere", come il giovane Naciketas esclama nella Kathopanishad.

Terminerei la breve descrizione di questo atteggiamento, ripetendo ciò che è stato puntualizzato negli altri due casi, vale a dire che questa fondamentale opzione può essere sia una scelta valida, che ci permette di superare le tensioni senza la distruzione di valori positivi, che un atteggiamento che ci soffoca, disarmandoci di fronte a situazioni conflittuali.

Vorrei includere una specie di nota a pie' di pagina sul trattamento ultraconcentrato, sotto il profilo filosofico, dei tre punti: l'Uomo ha spesso tentato di risolvere il dilemma, introducendo un fattore morale e una bontà assolutizzante, quando non ha avuto successo con la verità. "L'altro è cattivo, perché mi vuole uccidere". "Siamo convinti che i Turchi sono un pericolo per la Cristianità e così organizziamo una crociata; siamo convinti che i comunisti asiatici sono un pericolo per il mondo libero e così finanziamo una guerra". Oppure sfruttiamo la terra, perché vogliamo più carta o più petrolio e così via. Fino a quando saremo sulla vetta, "noi" - Cristiani, bianchi, maschi, Induisti in India, Musulmani in Pakistan, Occidentali, gente ricca, gli Istruiti, i Tecnocrati, i Sindacalisti, gli umani (contro la terra) - fino a quando "noi" siamo sulla vetta, troviamo modo per persuadere; per rendere le cose appetibili, per sistemarle in modo tale che l'altro sia in qualche misura felice nella sua posizione subordinata. Ma quando l'altro comincia a scalciare, siamo costretti a fare i conti... e allora che cosa succederà? Solo una tregua, fino a quando avremo armi migliori? Oppure?


L'approccio fenomenologico (che vuol dire non parlare dell'"Uomo" dimenticando gli schiavi, gli esuli, i diseredati)


2. L'approccio fenomenologico. Il problema del pluralismo raggiunge la fase critica quando noi semplicemente non sappiamo che cosa dobbiamo dire o fare. Permettetemi di addentrarmi di più in un tentativo che potrebbe sfociare in una fenomenologia semplificata. Un approccio fenomenologico potrebbe affermare che il pluralismo appare come un problema, quando ogni altro mezzo per trattarlo diversamente fallisce. Ho scelto tre tipi di fallimento ché vi esporrò brevemente. Non sto difendendo una visione pessimistica della natura umana, come se vi fosse un paradigma platonico di ciò che si suppone essere l'Uomo; ma non sto indulgendo nemmeno ad una valutazione ottimistica, come se dovessimo guardare solo verso un roseo futuro, timorosi di guardare gli errori del passato. Un atteggiamento realistico non dovrebbe essere scoraggiato dai fallimenti de! passato, ma nemmeno può ignorarli.

Qualsiasi scrittore è già un essere privilegiato, qualsiasi ascoltatore e lettore di una riflessione sulla condizione umana già si distingue dalla media dei suoi simili umani. L'emarginato non dà conferenze, nemmeno le ascolta, non ha neppure molto tempo per riflettere. Anche quando non è direttamente perseguitato e torturato o muore di fame, vive in un perenne precario equilibrio, la cui assenza potrebbe lasciarlo alla mercé dell'insensibilità umana. Quando diciamo Uomo, dimentichiamo gli schiavi per generazioni senza numero, gli sfruttati da padroni forestieri o di casa, i servi, gli eserciti di soldati, lavoratori al servizio di cause che nemmeno comprendono, le moltitudini di esuli, diseredati e affamati esemplari della nostra razza umana? Chi può farsi portavoce per loro, se essi non possono nemmeno cominciare ad articolare ciò che vogliono o di cui hanno bisogno? La maggioranza sottomessa non ha nemmeno la voce e, se fosse loro data una voce per farli parlare nei nostri termini, noi li convinceremmo facilmente che essi sono da compiangere, poveri diavoli ignoranti e degradati che meritano il loro destino. Nessuna meraviglia che i loro capi non sono profeti (che parlano) o preti (che celebrano), ma eroi che uccidono, fanno rappresaglie, ululano e distruggono. È su questo sfondo che noi dovremmo riflettere sul significato del pluralismo. Tutto il resto è letteratura "edificante".


Il fallimento storico-politico: l'amaro frutto di millenni di repressione, dominio e potere (basati sul monismo e sul dualismo)


(a) Il fallimento storico-politico. Un problema pluralistico sorge quando la questione non si può risolvere con mezzi democratici, perché non possiamo attenerci alle regole della maggioranza in merito a quei valori che sono più vitali per noi. Significherebbe un suicidio, e perfino un suicidio può non essere una scelta. Si vota solo sui mezzi, mai sui fini ultimi. Potete tollerare l'intollerante? Ma se non potete, allora diventate intollerante come lui. È l'equilibrio del potere la sola soluzione?

Non c'è bisogno che noi ci soffermiamo sul fallimento politico di tutte le civiltà. La storia non dovrebbe essere, ma di fatto lo è, una raccolta di successive, spesso simultanee, guerre, che ogni volta sembrano più o meno giustificate alle parti interessate, mentre anche i vincitori spesso si chiedono a posteriori se ne valeva la pena, o anche se la vittoria è stata veramente tale. La legge della giungla e le dialettiche monismo e dualismo non possono vantare un grande record. Non dovremmo essere interessati a questa svolta dell'umanità? L'interrogativo sul pluralismo può essere come cercare un candido loto in una pozza sporca, o un giglio che spunta in un mucchio di escrementi. Ma sulle rovine sia del vinto che del vincitore il pluralismo può slanciarsi come un fiore - ahimè, ancor più fragile di un loto o di un giglio.

Millenni di repressione, di dominio e di potere politico (e non solo politico) - tutti questi sistemi basati su supporti sia monistici che dualistici - hanno dato l'avvio a maggiore ingiustizia, sfruttamento, fame. Su scala mondiale il sistema non ha funzionato. Avrebbe potuto funzionare per te e per me, ma l'Ucraino, l'Ebreo, il Quechua, il Nero, il Cinese, per citarne solo pochi, non sono stati inclusi. E infatti i cambiamenti positivi - e sono molti - sono venuti grazie a Socrate, Buddha, Gesù, Gandhi... e non Alessandro, Akbar, Napoleone, Churchill (per non citare i mascalzoni).

Il problema di mantenere la pace non è un problema nuovo. La sindrome dell'essere minacciati e in pericolo di essere attaccati e vinti è un fattore quasi costante nella storia dei popoli. La violenza si confronta con la violenza e le armi si oppongono alle armi. "La difesa" viene giustificata con il timore di una possibile "offesa". Ciò che i Russi oggi sono per il "primo mondo", ciò che i Vietnamiti rappresentano per i Khmer rossi, o i Cinesi per i Vietnamiti, gli Americani per i Russi, ecc., i Mori, i Saraceni e i Turchi lo sono stati - per quasi tre secoli - per l'Occidente. L'Europa, fin dal XII secolo, ha vissuto il continuo timore dell'Islam. La risposta sono state le crociate. Ma dopo le prime esperienze, le Crociate non furono più possibili. La maggior parte della nobiltà e della gente non rispose alla chiamata patetica di alcuni Papi e Principi. Nel 1453 Costantinopoli cade. L'Europa vive in un parossismo. Si ha una tregua quando Granada viene conquistata da Ferdinando il Cattolico. Ma non vi è Concilio, non vi è avvenimento politico di rilievo, che non rammenti l'imminente pericolo per la "Cristianità". È solo nel 1571 che Giovanni d'Austria ottiene la vittoria di Lepanto, che divenne, cosa abbastanza comprensibile, una festa universale per l'intera Chiesa. Ma il pericolo non è scongiurato dopo Lepanto.

Eppure - e questo è il mio assunto - una manciata di persone prende un'altra strada. Raimondo Lullo, Nicolò Cusano, Pico della Mirandola, Erasmo, Luigi Vives e molti altri non credono nella violenza e nella guerra e propongono un vero ecumenismo: dialogo, persuasione, comprensione. Non sono popolari, sono considerati idealisti e spesso devono soffrire, ma offrono un'alternativa. Forse dovremmo cominciare a renderci conto che è meno rischioso avventurarci entro un atteggiamento pacifico, che confidare in un contropotere deterrente e minaccioso.


il fallimento della sola ragione e della pura dialettica: ci sono fedi, speranze e amori che resistono ad ogni confutazione


(b) Il fallimento filosofico-dialettico. Sorge un problema pluralistico quando non si può trattare dialetticamente l'argomento, perché il vero fondamento della dialettica è implicato nella questione. In effetti, l'Uomo è così costituito, che in molti campi dell'esistenza umana se "messo alle strette" dialetticamente - accusato di contraddizione, mancanza di prove intellettuali o impasse logico - non smetterà di credere, di sperare, di amare ciò che ritiene sia il caso. Molta gente non smette di credere o non credere in Dio o nella realtà del mondo, anche se il problema è provato o demolito da mezzi dialettici accettati e da ogni possibile ragionamento intellettuale. Dire, per esempio, che l'astrologia è irrazionale, lascia l'astrologia disinteressata e gli appassionati di astrologia felici. Vi sono, in altri termini, fonti di umana certezza, fedi, speranze e amori, che sfidano il potere della ragione e sono apparentemente più forti che superiori ad essa. E questo è un fatto: posso essere convinto, eppure questa convinzione può non avere efficacia o forza.

Le istanze del pensiero europeo da Descartes in poi, o della filosofia buddista dopo Nagarjuna, esemplificano questo fallimento. Il razionale dietro questi sforzi è chiaro: "dato lo scandalo prodotto dalle divergenti opinioni delle migliori persone che si occupano dei problemi decisivi della vita e della morte, consentiteci di stabilire un sistema infallibile, basato solo sulla ragione o sullo sforzo dialettico di trascendere le dialettiche". E dopo secoli di speculazione filosofica, ciò di cui disponiamo è una nuova proliferazione di sistemi di pensiero che si escludono reciprocamente, qualunque sia il nome che si danno e i titoli che sembrano esibire. La Torre di Babele non è stata ancora costruita e nessuna philosophia perennis ha raggiunto il secondo piano. Né la ragione e nemmeno una filosofia "di ampie vedute" ha avuto successo nel creare un sistema, una Torre di Babele, dove la gente possa vivere, almeno teoricamente, in giustizia e pace.


il fallimento dei sogni di unificazione universale in una sola religione e in una sola cultura (e ora avanza la tecnologia)


(c) Il fallimento religioso-culturale. Si pone un problema pluralistico quando il conflitto non si può risolvere con la violenza o il potere, perché non possiamo persuadere noi stessi a cedere alla pressione, anche se minacciati di morte. L'impero Romano dovette cedere ai Cristiani, l'Unione Sovietica ha dovuto riconoscere la presenza dei dissidenti e le storie dei Curdi, degli Armeni, dei Jainiti e di tanti altri offrono esempi altrettanto validi. C'è qualcosa nell'Uomo che né il potere, né la violenza, né il dominio possono riuscire a controllare o a ridurre all'unita. La storia di qualsiasi religione è più l'avventura delle sue eresie, che l'evoluzione della sua ortodossia.

Non dobbiamo annegarci entro gli eufemismi: gli antichi imperi volevano conquistare il mondo intero; la cristianità e l'islam - per citare due sorprendenti, ma non esclusivi, esempi - hanno avuto l'aspirazione di diventare non solo la religione numero uno, ma idealmente la sola religione; la civiltà scientifica e la cultura umanistica hanno simili aspirazioni oggi. Ciò che noi discerniamo con tanta chiarezza come utopistico, se non ridicolo, nell'"urbi et orbi"dei Romani di Roma e dei Cattolici Romani, sembriamo incapaci a scoprirlo nei nostri sogni di universalità. Per quanto molti convengano sul fatto che l'Uomo non può costruire Babele, continuano a credere, come minimo, di averne i progetti: "Se tutti fossero buoni Cristiani! Se tutti praticassero la Meditazione Trascendentale ogni giorno! Se tutti seguissero i dettami della scienza!... Se tutti pensassero e si comportassero come me!".

E questa è la ragione per cui dopo almeno sessanta secoli di civiltà umana, dobbiamo ancora porci questa domanda fondamentale: Che cosa vi è nell'uomo che lo rende irriducibile all'unità, eppure incapace di rinunciare alla ricerca di essa? (Se questa non è una domanda religiosa, non so che cosa significano gli Studi Religiosi). Dopo il fiasco della Torre di Babele, non possiamo prevedere alcuna possibilità per il mondo, all'infuori di un sistema pan-economico e di una sola mega-macchina tecnologica? "Tu quoque?".


L'approccio antropologico. "Chi sei tu?" è la domanda antropologica fondamentale - Nessuno possiede l'intera "verità sull'uomo"


3. L'approccio antropologico.

(a) Tre capitoli antropologici. Nell'affrontare tali problemi concreti ed esistenziali, l'Uomo moderno si pone di nuovo la domanda circa se stesso, che forse inizia a chiudere il cerchio più ampio aperto dal primo Uomo occidentale Agostino (un Africano): Quaestio mihi factus sum, "Ho fatto di me stesso una domanda". Il dativo si è fatto pian piano un ablativo. "Che cosa sono io per me stesso?" è diventato "Che cosa è l'Uomo per me?" - cioè, come conosciuto da me, perché io possa conoscerlo meglio e, eventualmente, averlo nelle mie mani? Sto suggerendo che forse possiamo aver imboccato questo terzo sentiero nell'auto-riflessione dell'uomo su se stesso nell'intero contesto delle civiltà del mondo.

1) Che cosa è l'Uomo? Questo è il modo occidentale di formulare la domanda antropologica. L'Uomo è un oggetto di ricerca - anche di introspezione - e la scienza dell'Uomo sarebbe un'integrazione di tutti i risultati delle discipline specifiche che trattano l'uno o l'altro aspetto dell'essere umano. La chiamiamo antropologia integrale e oggi anche i teologi le pagano un tributo, quando essi parlano dell'"antropologia teologica". Che cos'è quell'essere che noi chiamiamo Uomo, che può pensare, parlare, costruire...?

2) Chi sono io? Sarebbe il modo tipicamente Indiano di formulare la stessa domanda. L'Uomo qui è il soggetto scrutinante che cerca di mangiare la torta, anche se non può averla. L'Uomo tenta di assistere proprio alle origini di questa consapevolezza dell'Io e la spinge sempre più a fondo, fino a che l'Io non è spogliato di ogni stratificazione di contingenza. La chiamiamo saggezza e il suo scopo è quello di ricostruire l'intero corpo del sapere da quella intuizione sovracosmica. Non vorrei semplificare troppo questi due straordinari e fecondi approcci, che ancora rimangono i due pilastri basilari dell'autocomprensione dell'umanità. Ma, nel nostro tempo di incontro e di mutua fecondazione delle culture, rimane da esplorare, con la stessa completezza degli altri due, un terzo itinerario, altrettanto fondamentale.

3) Chi sei tu? E la terza domanda. Cercherò di spiegarla nel suo significato, perché (siccome le lingue indoeuropee hanno perso il duale) la frase è ambigua. Non "Che cosa è l'Uomo?" (oggettivazione, anche se noi lo chiamiamo un soggetto); non "Che cosa sono Io?" (soggettivazione, anche se noi lo scopriamo nell'atman); ma "Che cosa sei tu?". E questa è una domanda radicalmente diversa, perché non si può rispondere ad essa senza il "tu", ma richiede il "tu" come interlocutore (Mitfragenden) e il "tu" è il Pigmeo, e il Musulmano, e la donna, e il comunista e il Cristiano, e il Democratico, e la moglie, e il lavoratore, e il povero... se voglio sapere che cosa è l'Uomo in modo più comprensivo di un reificato "è", devo ascoltai; me stesso e devo anche chiedere tu. La domanda "Che cosa sono Io?", la domanda "Che cosa è lui (egli o ella)?", semplicemente non basta. Devo chiedere "Che cosa sei tu?", guardarti negli occhi e formularla meglio: "Chi sei tu?". Chi può dire che cosa è l'Uomo, se nessuno di noi ha accesso all'intera gamma dell'esperienza umana? La domanda sull'Uomo appartiene all'Uomo e non esclusivamente a me, anche se Io faccio uno sforzo per parlare a nome di un grande gruppo umano. O prendiamo il pluralismo sul serio, o esso diventa appena un'altra etichetta per il nostro imperialismo filosofico. E se lo prendiamo sul serio, non possiamo oltrepassare il tu di qualsiasi essere umano.

Quello cui tendo qui è semplice e chiaro: l'Uomo non è un oggetto di ricerca... soltanto o principalmente; lui stesso è un soggetto che ricerca. Ma questo soggetto che ricerca non è solo il mio ego, è anche tu. In termini più sintetici: l'autocomprensione dell'Uomo appartiene all'essere dell'Uomo. Ancor più semplicemente: la comprensione di sé è parte di qualsiasi comprensione. Ma il "sé" non è solo il mio ego, o "noi solamente". Nessun incontro di culture e religioni può veramente aver luogo senza una nuova antropologia.

Raimundo Panikkar

(continua)

 

Letto 3451 volte Ultima modifica il Domenica, 31 Gennaio 2016 21:00
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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