Formazione Religiosa

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 71

Venerdì, 16 Maggio 2008 12:29

VINCERE SENZA PARTECIPARE

VINCERE SENZA PARTECIPARE

Emanuel Richter*, “Die Zeit”, Germania

da Internazionale 743, 9 maggio 2008

(abstract)

L’Italia ha votato e i buoni democratici di tutta Europa si disperano. Il nuovo Berlusconi stile 2008 sembra più moderato di quello del passato, ma la situazione di fondo è la stessa. Il popolo è stanco e si sveglia per votare e per mandare al potere un leader populista che governerà in modo autocratico un paese in profonda crisi. Così i cittadini evitano di doversi impegnare in prima persona: mandare Berlusconi al potere è come rinunciare plebiscitariamente ai diritti e ai doveri della partecipazione.
In nome della postdemocrazia alcuni politici ed esperti salutano in Berlusconi una svolta epocale della politica, cioè la fine della democrazia occidentale, un modello ormai logoro e non più al passo con i tempi. Altri invece temono il declino o quanto meno lo svuotamento del sistema democratico.
Effettivamente l’Italia di Berlusconi sembra rappresentare queste tendenze in modo esemplare. Già nella precedente campagna elettorale, Romano Prodi aveva esplicitamente evidenziato il nesso tra Berlusconi e la postdemocrazia. E il comico Beppe Grillo aveva ammesso che davanti a Berlusconi preferiva andare a pesca che andare a votare. In questo modo aveva segnalato che perfino gli intellettuali critici, scontenti della democrazia, si stanno ritirando in una sorda apatia.
Ma sarebbe un errore liquidare come “rottura postdemocratica” i sintomi di crisi in senso autocratico emersi con la rielezione di Berlusconi. A un’analisi più attenta, infatti, non si vedono istituzioni logore e una democrazia stanca, ma al contrario un uso insufficiente delle possibilità offerte dalla democrazia.
In Italia ci si incaglia di continuo in un costituzionalismo che soffoca qualsiasi dibattito giuridico o politico sulla costituzione. Anziché una divisione stabile dei poteri con un parlamento forte, governare in Italia si esaurisce nelle pretese di poteri “presidenziali” del primo ministro. Neanche gli elementi di federalismo, pur presenti nelle istituzioni statali italiane, sono stati ancora formalizzati in misura sufficiente, e questo provoca una polarizzazione indecente tra regioni povere e regioni ricche.
Inoltre bisogna aggiungere il dominio premoderno della mafia e della camorra, che ostacola la creazione di strutture amministrative trasparenti e stabili a livello locale e regionale. Per giunta, la corruzione politica determina rapporti di dipendenza di tipo feudale. In mancanza di un sistema di partiti con programmi chiari, attraverso i quali costruire ed esprimere la propria volontà politica in modo strutturato, la sola possibilità che rimane agli italiani è acclamare figure di leader che si presentano con alleanze elettorali puramente tattiche e di mera convenienza.
L’indipendenza dell’informazione, infine, soffre per la presenza di un autocrate – Silvio Berlusconi, appunto – che gestisce le tv e i governi ispirandosi allo stesso modello: l’imprenditore-patriarca dell’ottocento.

Arretratezza e senso di inferiorità
Solo quando tanta arretratezza si coniuga con un senso di inferiorità politica da parte dei cittadini, e genera disperate nostalgie di leadership, la volontà di potere di Berlusconi può apparire come il superamento di una democrazia ormai eccessivamente indebolita. Ma in realtà gli attacchi da tarda pubertà del Cavaliere contro tutto ciò che è moderato, equilibrato, ordinato e sistematico, i suoi atteggiamenti eccentrici e maschilisti sono solo un cattivo sostituto della scarsa fiducia in sé dei cittadini italiani, e al tempo stesso il segno del loro timore di fronte all’idea di un autogoverno radicalmente democratico.
Insomma Berlusconi, furfante machiavellico al potere, compensa l’impotenza di cui soffrono i cittadini. Paradossalmente, rappresenta la rinuncia alla cittadinanza a proporsi come attore collettivo e la proiezione di ogni voglia di partecipazione in un patriarca giovanile e colmo di energia, ma al tempo stesso rozzo e collerico. (...) Berlusconi incarna solo un vincitore triste, perché con la sua ascesa porta a compimento il ritorno regressivo a una condizione predemocratica. Solo un’offensiva capace di ricordare a tutti il senso della politica può aiutare a evitare queste derive.
La partecipazione alla vita pubblica rimane un punto di riferimento indispensabile della nostra esistenza politica. La democrazia è un progetto a cui si aspira incessantemente e che non si raggiunge mai del tutto.
Ironia della sorte: nelle recenti elezioni questo messaggio sembra sia stato recepito soprattutto dagli italiani residenti in Svizzera, che hanno fatto proprio il progetto democratico votando in maggioranza per Veltroni. Questo significa che dove la democrazia, coltivata da secoli, ha prodotto forme raffinate di partecipazione, cresce anche una sensibilità critica verso il populismo e aumenta la fiducia dei cittadini in se stessi.
Le probabilità di regressione predemocratica, quindi, sono minori quando si rafforzano i presupposti di una democrazia viva e vitale.

*
Emanuel Richter insegna scienze politiche al politecnico della Renania-Westfalia ad Aquisgrana, in Germania. Sta per pubblicare un saggio intitolato “Die Wurzein der Demokratie” (“Le radici della democrazia”).

Mercoledì, 26 Marzo 2008 09:36

DIO E CESARE

DIO E CESARE

di Manuel Castells – da Internazionale 734, 7 marzo 2008

(abstract)

Gesù, oltre a essere Dio, era anche molto intelligente. E sapeva che il suo regno era nei cieli, cioè nella mente delle persone, dove ognuno fa vivere i suoi dèi. Per questo disse di dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. E decise così di stabilire, senza ambiguità, la separazione tra la chiesa e lo stato. Ma, proprio come è accaduto ad altri rivoluzionari, i suoi insegnamenti, ancora vivi per chi legge i Vangeli nel loro contesto e senza atteggiamenti settari, sono stati traditi nel corso della storia da chi si è eretto a rappresentante del potere divino sui corpi attraverso l’imposizione di un monopolio sulle anime. Perché la chiesa, secondo il cristianesimo doc, non sono loro (i vescovi), ma siamo noi (i credenti, ognuno a modo suo). Ecco perché ci sono miliardi di cattolici e altre centinaia di milioni di cristiani nel mondo per cui la spiritualità e la ricerca del senso della vita non dipendono dai proclami della gerarchia ecclesiastica ma dal dialogo intimo che la loro mente intesse con il dolore dell’esistenza e il mistero della speranza. È per questo che il cristianesimo è sopravvissuto duemila anni, superando anche la più grave minaccia dei suoi peggiori nemici (...).

Ma anche le radici più profonde si piegano quando l’esperienza interiore delle pecorelle contrasta con le grida dei suoi pastori. Per questo la struttura della chiesa cattolica sta perdendo la sua influenza sulla vita della gente, mentre in tutto il mondo Dio è più vivo che mai e la religiosità nelle sue diverse espressioni è in ripresa.

Studi come quelli di Inglehart e Norris, condotti sui dati del World values survey dell’università del Michigan, mostrano la forza della religione nel mondo, con una grande eccezione: l’Europa occidentale, la culla del cattolicesimo. Altre analisi indicano che in America Latina, il paese con il maggior numero di cattolici al mondo, le diverse confessioni evangeliche cristiane stanno sostituendo l’influenza della chiesa nei settori più popolari della società. Il fatto è che, nonostante la testimonianza e l’eroismo di tanti sacerdoti che aiutano il loro prossimo, l’eterna collusione della gerarchia con i poteri costituiti e l’ipocrisia di chi difende la famiglia e copre i prelati pedofili stanno minacciando poco a poco l’influenza di quelli che interpretano Dio secondo i loro interessi economici, politici e personali, rendendo la chiesa una struttura di potere.

Questo non significa che la chiesa debba smettere di difendere dei principi morali e religiosi fondamentali, come la famiglia o la vita del feto o la condanna della manipolazione genetica, anche se questi principi devono essere adattati a ogni situazione. I leader religiosi hanno tutto il diritto (un diritto che in Spagna è protetto dalla costituzione) di prendere posizione su argomenti etici della massima rilevanza e diventare un punto di riferimento per i fedeli.

Potrà sembrare un paradosso, ma quando il cardinale conservatore Joseph Ratzinger è diventato Benedetto XVI ho scritto un articolo pieno di speranza perché mi sembrava che potesse rappresentare un papato basato sui valori, per quanto discutibili questi valori potessero apparire a molti, soprattutto ai giovani. Perché questo è il terreno proprio di Dio. E per fare in modo che questi valori possano arginare l’individualismo competitivo e il consumismo distruttivo che caratterizzano la nostra cultura è necessario ricorrere all’autorità morale, all’esempio, alla testimonianza.

Ma se questi valori si mescolano con gli slogan politici, l’intervento diretto nella vita politica, la benedizione delle guerre sporche e il silenzio di fronte all’oppressione, tutto finisce in una bolla di sapone, soprattutto per i giovani (...). Entrando senza ritegno nella battaglia politica su argomenti che non spettano all’apostolato, i vescovi spagnoli si allontanano ancora di più dalla società del ventunesimo secolo e allontanano la gente da un Dio di cui c’è ancora un estremo bisogno in un’epoca di incertezza. Per questo alle elezioni spagnole del 9 marzo io voterò per Gesù Cristo, nonostante quello che ci dicono di fare i vanitosi farisei che pronunciano il suo nome invano.

Mercoledì, 26 Dicembre 2007 13:15

UN MAGO ALLA CASA BIANCA

UN MAGO ALLA CASA BIANCA

di Christian Salmon*

“Le Monde diplomatique” – dicembre 2007

(abstract)

In un articolo del “New York Times” pubblicato alcuni giorni prima delle elezioni presidenziali del 2004, Ron Suskind, editorialista del “Wall Street Journal” dal 1993 al 2000 e in seguito autore di numerose inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, rivelò i contenuti di una conversazione da lui avuta nell’estate 2002 con un consigliere di George W. Bush: “Mi ha detto che la gente come me fa parte di quella tipologia di persone ‘che appartengono a ciò che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà’ (“the reality-based community”): questo tipo di persone pensa che le soluzioni emergano dalla loro giudiziosa analisi della realtà osservabile”. Ho fatto cenno di sì, mormorando qualcosa sui principi dell’illuminismo e dell’empirismo. Mi ha bloccato: “Non è più così che funziona realmente il mondo. Oggi noi siamo un impero” – ha proseguito – “e creiamo la nostra propria realtà nel momento in cui agiamo. E mentre voi studiate questa realtà, nel modo ragionevole che ritenete auspicabile, noi ci muoviamo di nuovo, creando altre nuove realtà che voi studierete nella stessa maniera, ed è così che vanno le cose. Noi siamo gli attori della storia (...). E a voi, a voi tutti, non resta che studiare quello che facciamo”.

Definito “scoop intellettuale” dal “New York Time”, l’articolo di Suskind fece sensazione. Editorialisti e blogghisti s’impadronirono dell’espressione “the reality-based community”, che si diffuse sul Web al punto che il motore di ricerca Google contabilizzava, a luglio 2007, quasi un milione di contatti. Wikipedia le ha dedicato un’intera pagina (...).

Quelle considerazioni a proposito della “comunità basata sulla realtà”, dovute senza dubbio a Karl Rove alcuni mesi prima della guerra in Iraq, non sono soltanto ciniche, degne di un Machiavelli mediologico: sembrano tratte più da uno spettacolo teatrale che da un ufficio della Casa Bianca. Non si limitano a riproporre gli antichi dilemmi che agitano da sempre le cancellerie, in cui si scontrano idealisti e pragmatici, moralisti e realisti, pacifisti e bellicisti o, nello specifico del 2002, difensori del diritto internazionale e sostenitori del ricorso alla forza. Propongono invece una nuova concezione dei rapporti tra politica e realtà. I dirigenti della più forte potenza mondiale si sottraggono non solo alla realpolitik, ma anche al semplice realismo, per diventare artefici della propria realtà, maestri di apparenze, rivendicando quel che si potrebbe chiamare una realpolitik della finzione.

L’invasione americana dell’Iraq, nel marzo 2003, ha fornito una spettacolare dimostrazione della volontà della Casa Bianca di “creare la propria realtà”. In quell’occasione, i servizi del Pentagono, non volendo ripetere gli errori commessi durante la prima guerra del Golfo, nel 1991, sono stati particolarmente attenti alla strategia di comunicazione. Oltre ai 500 giornalisti “embedded” di cui si è tanto parlato, hanno posto una speciale attenzione nell’organizzazione della sala stampa del quartier generale delle forze americane in Qatar: un hangar per stoccaggio convertito – per la modica cifra di 1 milione di dollari – in studio televisivo ultramoderno, con podio, schermi al plasma e tutto il materiale elettronico capace di produrre in tempo reale video di combattimenti, carte geografiche, animazioni e diagrammi...

L’apparato scenico da cui il portavoce dell’US Army, il generale Tommy Franks, si rivolgeva ai giornalisti è costato da solo 200.000 dollari ed è stato realizzato da un designer che aveva lavorato per la Disney, la Metro Goldwyn Mayer e la trasmissione televisiva “Good morning America”. Dal 2001 era stato incaricato dalla Casa Bianca di creare il fondale per i discorsi del presidente; una scelta che non stupisce quando si conoscano i legami tra Pentagono e Hollywood. Più sorprendente, invece, la decisione del Pentagono di reclutare per questi lavori di scenografia David Blaine, un mago molto noto negli USA per il suo show televisivo e i giochi di prestigio in cui si affranca dalle leggi fisiche levitando o restando chiuso per giorni, senza cibo, in una gabbia. In un libro pubblicato nel 2002, colui che si definisce il “Michael Jordan della magia” rivendica l’eredità di Jean-Eugène Robert-Houdin, il leggendario mago francese che nel XIX secolo accettò di recarsi in Algeria per aiutare il governo a sedare una sommossa dando dimostrazione del fatto che le sue arti magiche erano superiori a quelle dei ribelli. Non sappiamo se è questo che il Pentagono si aspettasse da Blaine, ma il fatto che sia stato reclutato e inviato in Qatar suggerisce che i suoi talenti d’illusionista siano stati usati per qualche trucco o effetto speciale...

Scott Sforza, un ex produttore di Abc che lavorava per la propaganda repubblicana, ha creato molti degli sfondi sui quali Bush ha fatto le più importanti dichiarazioni dei suoi due mandati. È a lui che si deve la scenografia del 1° maggio 2003, in cui il presidente, sulla portaerei Abraham Lincoln, davanti a uno striscione con su scritto “Mission accomplished” dichiarava: “Le grandi operazioni di guerra in Iraq sono terminate. Nella battaglia in Iraq, gli USA e i loro alleati hanno vinto”.

Ma la messa in scena non finiva lì. Il presidente era atterrato sulla portaerei a bordo di un aereo da caccia ribattezzato per l’occasione Navy One e sul quale era scritto “George Bush, commander in chief”. Lo si vide uscire dal cockpit, vestito da aviatore, col casco in mano, come se tornasse da una missione, in un grandioso remake di “Top Gun”, il film prodotto da Jerry Bruckheimer, un habitué delle operazioni congiunte Hollywood-Pentagono, autore di “Profiles from the front line”, una trasmissione di tele-realtà sulla guerra in Afghanistan. Il commentatore di Fox News aveva visto giusto nell’esclamare, in segno di ammirazione: “È stato fantastico, come a teatro”. David Broder del “Washington Post” fu affascinato dalla “postura fisica” del presidente. Sforza aveva dovuto inquadrare la scena con grande attenzione, per evitare che all’orizzonte si vedesse la città di San Diego, distante una sessantina di chilometri: la portaerei, in realtà, avrebbe dovuto navigare in mare aperto, nella zona dei combattimenti.

Ma l’inquadratura di un discorso presidenziale non è mai stata così suggestiva come il 15 agosto 2002, quando il presidente degli USA si pronunciò solennemente sulla sicurezza nazionale davanti alla celebre falesia del monte Rushmore, dove sono scolpiti i volti di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosvelt e Abraham Lincoln. Durante il discorso, le telecamere furono posizionate in modo da filmare Bush di profilo, con il volto che si sovrapponeva a quello dei suoi illustri predecessori...

(...) Secondo Ira Chernus, professore all’università del Colorado, Rove ha praticato, durante i due mandati di Bush, una “strategia alla Sherazade”: “Quando la politica vi condanna a morte, cominciate a raccontare storie, storie così favolose, così accattivanti, così avvincenti che il re (o in questo caso i cittadini americani, che in teoria governano il nostro paese) dimenticherà la condanna capitale. (Rove) gioca con il senso di insicurezza degli americani, i quali hanno l’impressione che la vita gli sfugga”. La cosa gli è riuscita particolarmente bene nel 2004, al momento della rielezione di Bush, quando ha sviato l’attenzione degli elettori dal bilancio della guerra, chiamando a raccolta i grandi miti collettivi dell’immaginario americano: “Karl Rove” – spiega Chernus – “ha scommesso che gli elettori sarebbero rimasti ipnotizzati da storie stile John Wayne, con ‘uomini veri’ che combattono il diavolo alla frontiera, così da evitare la sentenza di morte che gli elettori medesimi possono pronunciare contro un partito che ci ha condotto al disastro in Iraq. Rove continua a inventare storie di buoni e cattivi a uso dei candidati repubblicani. Punta a trasformare ogni elezione in teatro morale, in un conflitto che oppone il rigore dei repubblicani alla confusione dei democratici. (...) La strategia alla Sherazade è una grande truffa, costruita sull’illusione che semplici storie moralizzanti ci possano trasmettere un senso di sicurezza, indipendentemente da quanto succede nel mondo. Rove vuole che ogni voto a favore dei repubblicani sia una presa di posizione simbolica”. Costretto alle dimissioni dai membri democratici del Congresso nell’agosto 2007, Rove ha annunciato la sua decisione con questa confessione, che equivale a una firma apposta in calce a tutta la sua opera: “Io sono Moby Dick, e loro mi inseguono!”.

*Scrittore, membro del “Centre de recherches sur les arts et le langage”. Ha appena pubblicato “Storytelling, la machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits”, La Découverte, Parigi, 2007.

Mercoledì, 26 Settembre 2007 21:33

IL LAVAGGIO DEI CERVELLI IN LIBERTÀ

IL LAVAGGIO DEI CERVELLI IN LIBERTÀ
Intervista a Noam Chomsky* - da “Le Monde diplomatique”, settembre 2007

(abstract)

Le Monde diplomatique
Cominciamo con la questione dei media. In Francia, nel maggio 2005, all’epoca del referendum sul trattato della Costituzione europea, la maggior parte degli organi di stampa sosteneva il “sì”, e tuttavia il 55% dei francesi ha votato “no”. Il potere di manipolazione dei media non sembra dunque assoluto.

Noam Chomsky
Il lavoro sulla manipolazione mediatica o sulla fabbrica del consenso fatto da Edward Herman e da me (Edward Herman e Noam Chomsky, “Manufacturing Consent”, Pantheon, New York, 2002) non affronta la questione dell’influenza dei media sul pubblico. È un argomento complicato, ma le poche ricerche approfondite sul tema suggeriscono che, in realtà, questa influenza sia più forte sulla parte istruita della popolazione. A livello di massa l’opinione pubblica sembra, invece, meno dipendente dal discorso dei media. Prendiamo, ad esempio, l’eventualità di una guerra contro l’Iran: il 75% degli americani ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero cessare le minacce militari e privilegiare la ricerca di un accordo diplomatico. Varie inchieste condotte da istituti occidentali affermano che l’opinione pubblica iraniana e americana convergono anche su alcuni aspetti riguardanti la questione nucleare: la stragrande maggioranza della popolazione di entrambi i paesi pensa che la zona che si estende da Israele all’Iran dovrebbe essere interamente liberata dalle armi nucleari, comprese quelle in dotazione alle truppe americane della regione. Ora, per trovare questo tipo di informazione nei media bisogna cercare col lanternino. Peraltro, nessuno dei principali partiti politici dei due paesi difende questo punto di vista. Se l’Iran e gli Stati Uniti fossero autentiche democrazie, all’interno delle quali la maggioranza determina realmente le scelte politiche, l’attuale scontro sul nucleare sarebbe senza dubbio già risolto. Ci sono altri casi del genere. Rispetto, ad esempio, al budget federale degli USA, la maggioranza degli americani auspica una riduzione delle spese militari e un aumento, invece, delle spese sociali, dei crediti versati alle Nazioni unite, dell’aiuto economico e umanitario internazionale, e infine la cancellazione delle riduzioni di imposta decise dal presidente George W. Bush a favore dei contribuenti più ricchi. Su tutti questi temi la politica della casa bianca è totalmente contraria alle richieste dell’opinione pubblica. Ma le inchieste che mostrano questa persistente opposizione pubblica raramente trovano spazio sui media. Cosicché i cittadini non solo sono allontanati dai centri di decisione politica, ma sono anche tenuti all’oscuro del reale stato d’animo dell’opinione pubblica. A livello internazionale si registra preoccupazione per l’abissale “doppio deficit” degli Stati Uniti: il deficit commerciale e quello di bilancio. Ma questi esistono solo in stretta relazione con un terzo deficit: quello democratico, che continua ad ampliarsi non solo negli USA, ma più in generale in tutto il mondo occidentale.

L.M.d.
Ogni volta che si chiede a un giornalista di grido o a qualche presentatore di un grande telegiornale se subiscono pressioni, se gli capita di essere censurato, questi risponde che è assolutamente libero e che esprime le proprie convinzioni. Sappiamo come funziona il controllo del pensiero nelle dittature, ma come si attua in una societò democratica?

N.C.
Quando i giornalisti sono chiamati in causa, rispondono immediatamente: “Nessuno ha fatto pressioni su di me, scrivo ciò che voglio”. È vero. Solo che, se esprimessero opinioni contrarie alla posizione dominante, non scriverebbero più i loro editoriali. La regola non è assoluta, certo; capita anche a me di essere pubblicato dalla stampa americana, neppure gli Stati Uniti sono un paese totalitario. Ma chiunque non soddisfi certe esigenze minime non ha alcuna possibilità di entrare nel novero dei commentatori di primo piano. D’altronde questa è una delle grandi differenze tra il sistema di propaganda di uno stato totalitario e il modo di procedere delle società democratiche. Esagerando un po’, si può dire che nei paesi totalitari lo stato decide la linea da seguire e tutti devono poi conformarvisi. Le società democratiche operano in modo diverso. La linea non è mai enunciata come tale, è sottintesa. Si procede, in qualche modo, a un “lavaggio di cervelli in libertà”. E anche i dibattiti appassionati nei grandi media si svolgono nel quadro dei parametri impliciti consentiti, tenendo al margine molti punti di vista contrari. Il sistema di controllo delle società democratiche è molto efficace; insinua la linea direttrice come l’aria che si respira. Non ce ne accorgiamo, tanto che a volte ci sembra di assistere a un dibattito particolarmente vivace. In fondo è infinitamente più efficace dei sistemi totalitari. Prendiamo, per esempio, il caso della Germania all’inizio degli anni ’30. Si tende a dimenticarlo, ma allora era il paese più avanzato d’Europa, all’avanguardia in campo artistico, scientifico, tecnico, nella letteratura e nella filosofia. Poi, in un brevissimo lasso di tempo si è prodotto un capovolgimento totale, e la Germania è diventata lo stato più sanguinario, più barbaro della storia umana. Tutto questo è stato possibile instillando la paura: paura dei bolscevichi, degli ebrei, degli americani, degli zingari, in breve di tutti coloro che, secondo i nazisti, minacciavano il cuore della civiltà europea, cioè gli “eredi diretti della civiltà greca”. In ogni caso, è quanto scriveva il filosofo Martin Heidegger nel 1935. Ora, la maggior parte dei media tedeschi che ha bombardato la popolazione con questo tipo di messaggi ha utilizzato le tecniche di marketing messe a punto... dai pubblicitari americani. Non dimentichiamo che un’ideologia viene imposta sempre nello stesso modo. Per dominare, la violenza non basta: ci vuole una giustificazione di altra natura. Così, quando una persona esercita il suo potere su un’altra – che sia un dittatore, un colonialista, un burocrate, un marito o un padrone – ha bisogno di un’ideologia giustificatrice, sempre la stessa: la dominazione è fatta “per il bene” del dominato. In altri termini, il potere si presenta sempre come altruista, disinteressato, generoso. (...).

* Docente di linguistica al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, Stati Uniti.

E WAL-MART TENTA I CATTOLICI CON LE BAMBOLE DELLA BIBBIA

di Matteo Alviti – da “Il manifesto”, 15 agosto 2007

(abstract)

Ancora pochi giorni e gli scaffali del settore giocattoli di Wal-Mart si illumineranno di luce divina. Il 18 agosto la One2believe lancerà sul mercato statunitense la prima linea di bambole parlanti ispirata ai personaggi della Bibbia. Gesù, Noè, i muscolosissimi Davide e Sansone, che ricordano un po’ i pupazzi della saga di He-man. E poi Mosè, che ripete i comandamenti con voce cupa e metallica: “Non devi commettere adulterio. Non devi rubare...”. Trenta centimetri di bambola biblica, e ce n’è per tutti i gusti. “Siamo la One2believe”, si legge sul sito dell’azienda californiana, “creatori della linea di giocattoli Tales of glory”. L’operazione commerciale concordata con il colosso statunitense della vendita al dettaglio si limiterà in un primo periodo alle 425 filiali Wal-Mart della cosiddetta bible belt, tra il sud e gli stati del Midwest – là dove il sentimento religioso si ammanta spesso di miope fondamentalismo – oltre che in alcuni negozi della California e della Pennsylvania. David Socha, fondatore e amministratore delegato dell’azienda, è un giovane dalla faccia pulita e dal carattere determinato. Socha è consapevole che in ballo c’è un mercato potenzialmente enorme: “So che, se potessero scegliere, il 90% degli americani comprerebbero i nostri personaggi invece dei giochi violenti attualmente sul mercato”. Vista come un baluardo contro l’assuefazione alla violenza in tenera età, l’idea potrebbe riscuotere anche simpatia. Ma le dichiarazioni di Socha ne rivelano la natura commercial-fondamentalista. Per il fondatore dell’azienda californiana si tratta di una lotta “per le menti dei bambini”: il bene contro le manifestazioni del male in formato giocattolo “che glorificano la morte e le uccisioni”. E visto che si tratta di una sperimentazione che terminerà a gennaio, dopo le feste natalizie, in bilico tra il sacro e il profano Socha chiama l’armata di Dio alla guerra giusta, quella santa. “Questo progetto rappresenta un’occasione immensa per la comunità della fede. È una chance per far sapere che noi, come comunità cristiana, siamo preoccupati per i giocattoli con cui giocano i nostri bambini. Siamo consapevoli dell’influenza che questi hanno sulle loro menti impressionabili e vogliamo vedere più opzioni che onorino Dio”. È una battaglia, dice Socha, contro i produttori di giocattoli senza Dio. Anche la Barbie, ha chiesto preoccupato un reporter della Abc? “No, no, la Barbie va bene”. Ironia della sorte, o del capitalismo, i pupazzi destinati a un pubblico tendenzialmente conservatore sono prodotti in quel che resta della Cina comunista. Per la One2believe, che finora ha venduto i suoi prodotti direttamente attraverso chiese e Internet, la multinazionale di Bentonville, Arkansas, rappresenta un’occasione unica. “Con Wal-Mart – il più grande rivenditore di giocattoli statunitense – il mercato è illimitato, grazie a Dio”, si lascia scappare David Socha. In fondo non sembra altro che una conferma della teoria weberiana sulle assonanze tra lo sfaccettato spirito del protestantesimo – in questo caso nella sua variante evangelica – e quello capitalista. (...). In un video promozionale una bambola della One2believe viene presentata a una bambina. La piccola ascolta incuriosita il promotore che spiega il senso divino dell’oggetto. “Ma parla anche?”. “Certo!” E il pupazzo: “Dio ama il mondo così tanto che ha mandato il suo unico figlio a pagare per il peccato. Così chi crede in lui non può essere punito”. La bambina sorride: “That’s cool!”.

Venerdì, 11 Maggio 2007 23:25

IO, PRETE GAY, VI SPIEGO I DICO

IO, PRETE GAY, VI SPIEGO I DICO

di Ivan Carozzi

da Carta n° 13 – 14/20 aprile 2007

(abstract)

“Che alcuni sacerdoti siano ‘merletto di giorno e cuoio di notte’ è un’espressione che avrei voluto inventare io”: queste parole sono tratte da “Fede oltre il risentimento”, saggio di teologia con un tocco di sensibilità “queer” appena uscito per Transeuropa Edizioni. L’autore è James Alison, sacerdote e teologo inglese (cattolico) dichiaratamente omosessuale, che nel libro indaga sul rapporto tra amore diverso e sacre scritture. Lo fa riferendosi al pensiero del filosofo e antropologo René Girard, pensatore francese che ha riletto la storia dell’umanità alla luce delle categorie di “vittima” e “capro espiatorio”. Alison ha fatto parte dell’ordine domenicano dal 1983 al 1995, fino a quando, cioè, non è stato fatto oggetto di persecuzioni a causa della sua dichiarata omosessualità. Da allora si è reinventato pastore itinerante, organizzando seminari e ritiri spirituali per sacerdoti. Osservatore attento e coraggioso dei rapporti tra società, Chiesa e mondo gay, Alison segue con passione anche quanto sta accadendo nel nostro paese a proposito del progetto di legge sulle unioni civili. A James Alison, Carta ha rivolto alcune domande.

Carta
Che opinione si è fatto dei Dico?


James Alison

Confesso di preferire ai Dico quelle forme di unioni civili giuridicamente omologhe al matrimonio. La soluzione spagnola e canadese mi sembra la migliore.

C.
Per quale ragione?

J. A.
Per ragioni sia teologiche sia pratiche. In accordo con Benedetto XVI ritengo che all’unione fra due individui vadano riconosciuti tutta la forza e gli strumenti necessari perché si faccia vera testimonianza di fede ed espressione divina. Non sono però d’accordo con il Papa quando afferma che tale possibilità debba concedersi solo a individui di sesso opposto. Sulle questioni pratiche, e che riguardano la sfera del diritto, credo sarebbe più utile servirsi di termini come “coniugi” e “conviventi”, ignorando ogni riferimento al sesso. È una scelta lessicale che semplificherebbe il percorso di legge, evitando questioni tortuose che spesso sono fonte di speculazioni arbitrarie.

C.
Quando è avvenuto il suo “coming out”?

J. A.
A 18 anni. Mi sembrò doveroso per onestà verso il prossimo e verso me stesso.

C.
Lei sostiene che da una lettura approfondita delle sacre scritture è possibile ricavare un atteggiamento sereno nei confronti dell’amore omosessuale.

J. A.
Certo, e in accordo con le interpretazioni più recenti della Bibbia. La categoria dell’omosessualità è un’invenzione del diciannovesimo secolo, di cui non si ha notizia nella Bibbia. Gli episodi biblici che vengono usati contro i gay appartengono alle antiche culture mediterranee. Sono episodi di umiliazione sessuale, di stupro di gruppo, che riguardano entrambi i sessi e che ricordano gli abusi praticati nel carcere di Abu Ghraib. Spesso ci accostiamo alla Bibbia cercando ciò che ci torna più utile. Se volessimo usarla come manuale per odiare qualcuno, probabilmente ci riusciremmo. Ma mi sembrano un approccio e una lettura del tutto strumentali.

C.
La Chiesa teme che una legge sulle unioni civili possa trasformare radicalmente le fondamenta della nostra civiltà. Perché tanta paura?

J. A.
Forse non sono la persona più adatta a esprimermi su quanto sta accadendo in Italia, tuttavia credo che ogni volta che si profila la possibilità di un grande cambiamento sociale le forze conservatrici tendono istintivamente a irrigidirsi. In seguito, quando quel cambiamento si è ormai consolidato, quelle stesse forze cominciano a familiarizzare con il nuovo contesto sociale, scoprendo che non ha avuto quell’impatto distruttivo di cui temevano. In un articolo apparso su www.noi.it viene rilevato come le parrocchie e le piccole diocesi abbiano un atteggiamento disteso verso la questione delle unioni civili, a differenza degli alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Non mi sorprende. È la prova che la realtà si trova sempre un po’ più avanti di quanto si creda.

C.
La cultura gay è penetrata a fondo nella moda, nell’arte, nello spettacolo. Eppure, appena si parla di diritti civili per i gay riaffiorano antiche ostilità.

J. A.
È una situazione paradossale. Il vero momento di rottura si verifica piuttosto quando in un determinato paese i leader della destra diventano consapevoli che la questione gay non può ridursi a materia ideologica, a qualcosa che serva a marcare la differenza fra destra e sinistra. Quando realizzano che si tratta di una questione che può riguardare i loro stessi membri ed elettori. A quel punto le loro precedenti posizioni cominciano a sembrargli stupide e imbarazzanti. È accaduto tra i tory inglesi, nel partito popolare spagnolo e accadrà fra i repubblicani negli Usa, anche a causa degli scandali che li hanno investiti. In questi paesi la Chiesa ha l’opportunità di mutare atteggiamento proprio grazie a tali cambiamenti politici e culturali.

C.
Molti leader politici dichiarano di non nutrire nessun sentimento di discriminazione nei confronti dei gay. Ci si limita a dire che l’attribuzione dei diritti civili agli omosessuali potrebbe minacciare l’istituzione del matrimonio.

J. A.
Se questa affermazione non deriva dal pregiudizio, allora deve basarsi su di un qualche tipo di prova. Una prova che non esiste. Non dimentichiamo che i gay rappresentano una modestissima percentuale della popolazione, circa il 4%. Chi avversa le unioni civili afferma che potrebbero alla lunga cancellare l’istituzione del matrimonio. Ma è forse accaduto questo in Olanda, in Spagna, in Canada, nel Massachussets?

C.
Si dice anche che le unioni civili potrebbero rivelarsi un cavallo di Troia per arrivare a una legge sulle adozioni per le coppie omosessuali.

J. A.
Se la gente vuole una nuova legge sulle adozioni, allora sarà una questione che verrà a porsi pubblicamente, senza sotterfugi. In molti paesi dell’Ue e del Sud America gay e lesbiche possono già adottare, a condizione che uno dei partner abbia legami di parentela col bambino. A meno che per cavallo di Troia non si debba intendere che dietro le adozioni per le coppie omosessuali si nasconda una qualche sinistra intenzione, come se in ogni omosessuale dovesse nascondersi un pedofilo. Si tratta di un altro pregiudizio, smentito da molte ricerche che attestano come non esista nessun specifico legame tra omosessualità e pedofilia. Tanto meno ci sono motivi per ritenere che un bimbo cresciuto da una coppia gay non possa avere la stessa possibilità di crescere di un qualsiasi altro bambino.

C.
Lei vive e lavora in Gran Bretagna, dove le “civil partnership” hanno raggiunto un anno e mezzo di vita.

J. A.
Le “civil partnership” hanno trovato il generoso supporto dei parenti e degli amici dei congiunti, per i quali avevano senso e razionalità. Personalmente ho partecipato a due cerimonie, una a Londra, l’altra a Leicester, e confesso di averle trovate piuttosto toccanti.

C.
Che ruolo ha avuto il pensiero di Girard nel suo lavoro?

J. A.
Mi è stato essenziale per la comprensione del cristianesimo. Il suo punto di vista sul desiderio è decisamente liberatorio. Per Girard non esistono differenze tra i vari orientamenti sessuali, dal momento che ognuno di essi è governato dal medesimo impulso mimetico e competitivo. E dal momento che gay ed etero possono positivamente trasformarsi abbracciando un modo di amare non competitivo. È stata infine risolutiva, anche per la mia stessa esistenza, l’idea girardiana di capro espiatorio.

Venerdì, 18 Agosto 2006 14:44

LA FINANZA ETICA NON ESISTE

LA FINANZA ETICA NON ESISTE

da
Carta n° 7, luglio/agosto 2006

(abstract)

La finanza etica non può esistere. È un ossimoro che può condurci su
percorsi equivoci. Dobbiamo invece ripartire dalla moneta e dal suo ruolo di
supporto tecnico ai processi produttivi e di scambio. Affermare questo significa
rendere la moneta dipendente dalle scelte produttive e non queste dalla
finanza. Significa inoltre abbandonare l’idea che la moneta, mediante la sua
forma finanziaria, possa divenire fonte di valore e di guadagno. Senza questo
salto di qualità non si esce dai meccanismi perversi della speculazione
finanziaria ai quali va ricondotto lo stesso concetto di interesse. Non può
esistere una “banca etica” il cui utile non sia il risultato di una
partecipazione al rischio di ogni operazione imprenditoriale di investimento,
in forma solidale con i produttori, ma sia un utile acquisito come diritto solo
per il possesso del denaro che viene messo in circolazione indipendentemente
dall’esito finale dell’operazione economica. Altro aspetto della banca etica
deve essere il rifiuto di partecipare alle attività di imprese non etiche e a
forme di investimento finanziario anonime come avviene mediante l’immissione
sul mercato delle azioni e delle obbligazioni. L’anonimato è la causa
principale della mancanza di etica e della corruzione di certa finanza. 

Pagina 2 di 2

Search