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Anno A

don Paolo Squizzato

Domenica, 06 Settembre 2020 18:16

La donna in Palestina ai tempi di Gesù

1. Il filmato puoi vederlo , clicca qui

 

2. Bibliografia sul tema

.......

3. Dispensa (a seguire):

La donna in Palestina ai tempi di Gesù

Premessa

Gesù visse in una realtà in cui, a proposito delle donne, circolavano detti come questi:

- una donna ha solo da imparare a servirsi del fuso;

- ciò che deve fare una donna è stare in casa;

- chiunque discorre molto con una donna, si fa del male;

- le parole della Legge vengano distrutte dal fuoco piuttosto che essere insegnate alle donne.

Nel Talmud [il testo che dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. mise per scritto la discussione dei sapienti e dei maestri circa il significato e l'applicazione della Torah, prima trasmessa solo oralmente; la sua parte più importante è la Mishnah, che raccoglie le discussioni dei maestri più antichi; testo considerato di valore dottrinale] si leggeva:

- il mondo non può esistere senza maschi e senza femmine, ma felice colui i cui figli sono maschi e guai a colui i cui figli sono femmine;

- la nascita di una bambina è un evento infelice.


Nella preghiera che ogni buon ebreo (maschio) recitava ogni giorno si diceva:

Benedetto Colui [Dio] che non mi ha fatto pagano, non mi ha fatto donna, non mi ha fatto bifolco [contadino, incapace di osservare la Legge].

Avere una figlia era considerato una sciagura, come scriveva sconsolato (meno di due secoli prima di Gesù) il Siracide:

Una figlia è per il padre un'inquietudine segreta, la preoccupazione per lei allontana il sonno: nella sua giovinezza, perché non sfiorisca; una volta accasata, perché non sia ripudiata; finché è vergine, perché non sia sedotta e resti incinta nella casa paterna; quando è maritata, perché non cada in colpa e perché non sia sterile.

Alcuni aspetti della condizione della donna ebrea al tempo di Gesù

La bambina: nascita e prima educazione.

Nascere femmina, nella Palestina al tempo di Gesù come nella maggior parte del mondo antico, era una condizione svantaggiata. Nelle famiglie, quando esistevano già altre bambine, un'altra nascita femminile era a rischio di "esposizione" (abbandonare la neonata fuori del villaggio per sbarazzarsene: se non veniva sbranata da qualche animale notturno, poteva essere raccolta da un mercante di schiavi, che l'avrebbe allevata per poi avviarla alla prostituzione, anche minorile).

Una bambina che veniva allevata in famiglia era educata primariamente al disbrigo dei lavori domestici. In casa apprendeva dalla madre i riferimenti basilari dell'osservanza, religiosa: dalle preghiere ai riti domestici legati all'osservanza del sabato e delle festività.

Mentre per i maschi dai 5-6 anni era previsto l'inizio di un'istruzione scolastica (in scuole legate alla sinagoga, un'istruzione basata sullo studio della Scrittura; il che significava per la popolazione maschile un livello minimo di alfabetizzazione abbastanza diffuso), le bambine restavano in casa: le donne non erano tenute allo studio della Torah, anche se erano obbligate ad osservarne i precetti (non quelli positivi, cioè quelli che cominciavano con "tu devi", ma quelli negativi, quelli del "tu non devi").

La ragazza: il matrimonio.

A 12 anni la ragazzina era indirizzata al matrimonio, che non era una scelta personale ma un evento del gruppo e pertanto era sempre combinato dai rispettivi padri (la bambina poteva· essere stata già promessa in sposa subito dopo la nascita), che avveniva in due momenti distanziati di un anno.

1) Sposalizio. Una volta che la proposta di matrimonio era stata accettata dal padre della ragazza (o in sua assenza dal fratello più anziano), il futuro sposo e il padre andavano a casa della ragazza, ne valutavano la condizione fisica e contrattavano la somma ("dote indiretta") che la famiglia dello sposo promesso doveva pagare alla famiglia della sua futura sposa. In questo modo ella era come "acquistata" e diveniva proprietà esclusiva del marito, passando dalla sottomissione del padre a quella dello sposo (nel matrimonio era l'uomo che sposava la donna, non viceversa). La famiglia della sposa a sua volta stabiliva la "dote" che intendeva trasferire alla sposa stessa. Questa dote non era solo una transazione economica, ma anche un'espressione dell"'onore" della famiglia in occasione delle nozze di una figlia: la consistenza della dote mostrava alla comunità la ricchezza della famiglia (era il segno pubblico del suo "onore"). Al termine della contrattazione lo sposo metteva il velo (usato come copricapo) sulla testa della ragazza e pronunciava la semplice frase "Tu sei mia moglie", a cui la ragazza rispondeva "Tu sei mio marito". Poi ognuno tornava a casa sua, perché il matrimonio era finalizzato alla procreazione e per la ragazza di 12 anni, per quanto matura potesse essere, poteva essere ancora presto ed era meglio aspettare ancora un anno.

2) Nozze. Un anno dopo la sposa, accompagnata dalle amiche e addobbata in maniera ricca e festosa, veniva condotta a casa dello sposo per le nozze: evento civile, senza alcuna cerimonia religiosa. Era l'occasione di una grande festa durante la quale si cantavano canti d'amore in onore degli sposi, a cui seguiva un banchetto che poteva durare più giorni. Essendo il matrimonio considerato uno strumento di alleanza tra famiglie, gli inviti erano fatti con molta attenzione; ma alla festa potevano partecipare anche ospiti di riguardo e di passaggio perché il matrimonio era una occasione di prestigio sociale per l'intero parentado. Un ruolo importante avevano gli "amici dello sposo", i quali, mano a mano che arrivavano gli ospiti, presentavano allo sposo i regali portati: questi erano importanti perché, quando ci fosse poi stato un matrimonio nella famiglia che portava il regalo, lo sposo che lo aveva ricevuto avrebbe poi dovuto ricambiarlo con uno della stessa entità (dunque non si trattava veramente di un regalo di nozze gratuito e libero, ma di una vera "partita di giro" che finiva per costituire una leva potente dell'economia dell'epoca. Il primo rapporto sessuale avveniva la sera del primo giorno di festa, prima ancora che il matrimonio fosse ufficializzato perché il fidanzato doveva accertare che la ragazza fosse veramente vergine. A questo scopo, gli amici dello sposo restavano fuori della stanza nuziale in attesa che lo sposo lanciasse il grido come segnale dell'aver trovato la sposa vergine e venisse fuori con i "segni della verginità": un lenzuolo bianco macchiato del sangue della sposa, che gli amici dello sposo esibivano agli invitati e che poi veniva conservato gelosamente dalla donna. Se la sposa non era vergine, poteva essere immediatamente denunciata al tribunale il mattino seguente e ripudiata: l'uomo poteva esigerne la lapidazione per adulterio.


Adulterio e ripudio.

Il matrimonio era giuridicamente valido fin dal momento dello "sposalizio", il fidanzamento. Se lo sposo promesso veniva a morire nei dodici mesi di fidanzamento, la fidanzata era comunque considerata vedova. Il fidanzamento si poteva rompere solo con una lettera di ripudio; ma solo il marito poteva dare questa lettera alla moglie, se avesse trovato in lei "qualcosa di vergognoso".

La donna era passibile di morte in caso di adulterio; ma il concetto di adulterio non era paritario: per la donna adulterio era qualunque rapporto con un uomo diverso dal marito; per l'uomo adulterio era un rapporto con una donna ebrea sposata (quindi se l'uomo andava con una straniera o con una non sposata, non c'era problema). 'Per l'adultera nell'anno tra il fidanzamento e le nozze era prevista la lapidazione, l'adultera dopo le nozze poteva essere eliminata da qualcuno dei familiari nella confusione durante una festa di paese.

Sull'interpretazione dei motivi validi per un ripudio i "dottori della legge" erano divisi: alcuni si accontentavano di ragioni di poco conto, mentre per altri ci doveva essere una colpa grave contro il buon costume o un'infedeltà al marito. Poiché una coppia che non avesse avuto figli era considerata sventurata, il marito poteva ripudiare la moglie se non gli avesse dato figli entro 10 anni.

Con il ripudio il marito doveva versare alla donna da cui si separava una somma che era stata stabilita nel contratto di matrimonio.


Parto e purificazione.

La donna che partoriva era considerata impura (non era una questione di igiene ma di non idoneità a compiere atti religiosi)) per una settimana dopo la nascita di un figlio maschio e per due settimane per una figlia femmina. Perché quest'idea di impurità? Per il legame tra due idee affermate nella Bibbia, secondo cui nel sangue c'è la vita e qualsiasi contatto con la morte causa impurità rituale. La perdita di sangue durante il parto era vista come un momentaneo contatto con la morte (perdita di un po' di vita) sia per la madre che per il neonato; da ciò i giorni di impurità rituale, che per la nascita di una bambina aveva durata doppia perché, una volta diventata donna, avrebbe avuto ogni mese la perdita di sangue della mestruazione (cioè un contatto con la morte).

Dopo i 7 o 14 giorni di impurità la madre doveva attendere altri 33 o 66 giorni prima di fare un bagno rituale con il quale poteva entrare nel tempio di Gerusalemme, fare un'offerta e assistere a un sacrificio di animali come rito di purificazione.

Donna e sinagoga.

Il momento formativo per eccellenza per gli ebrei era quello del culto nella sinagoga, con la' preghiera e la lettura commentata della Bibbia. Perché si potesse celebrare il culto sinagogale era necessario che ci fossero almeno 10 ebrei maschi adulti. Le donne non erano obbligate a frequentare la sinagoga, ma di solito ci andavano (ma se il marito proibiva loro di andarci, l'obbligo di obbedire al marito veniva prima), anche se dovevano mettersi in un posto diverso da quello degli uomini, non avevano un ruolo attivo e non contavano ai fini del numero legale richiesto per la celebrazione (se per assurdo vi fossero stati 9 uomini e 100 donne, il numero legale sarebbe comunque mancato); un minore di 13 anni poteva contare come adulto per il numero legale se il padre dava il consenso, uno schiavo poteva contare per un libero se il padrone dava il consenso, un simpatizzante (proselito) poteva contare con il permesso dell'assemblea, ma la donna no; forse perché un bambino sarebbe diventato adulto, uno schiavo poteva essere liberato, un proselito poteva diventare ebreo, mentre la donna rimaneva tale per tutta la vita.

La parola negata.

Tra le molte "negazioni" a cui la donna era soggetta c'era anche quella relativa all'autorevolezza della sua parola. La testimonianza di una donna non aveva alcun valore giuridico. Secondo il diritto ebraico, perché una testimonianza fosse valida occorrevano due testimoni che dicessero la stessa cosa, ma dovevano essere due maschi.

La donna come serva.

Nella mentalità ebraica il ruolo della donna era equiparabile a quello di una serva. Nel Talmud (che aveva per gli ebrei valore di dottrina) si legge: "Ma non fu bene per il primo uomo che gli fosse presa una costola e in cambio gH fosse data una serva per servirlo?" Nella Bibbia stessa è presentata questa immagine servile della donna. Si prenda ad esempio il famoso elogio della donna virtuosa nel libro dei Proverbi (una sorta di saggezza popolare che assume valore religioso): la sua "virtù" consiste nello sgobbare giorno e notte; questo ritratto della perfetta donna di casa (Pr 31) in realtà è il ritratto di una schiava. Ed è sintomatico Dt 5, 12-15 (nella Torah, per gli ebrei la parte più sacra e normativa della Bibbia): nell'elenco di quanti sono tenuti al riposo del sabato (l'uomo, il figlio, la figlia, lo schiavo, la schiava, il bue, l'asino, il resto del bestiame, il forestiero ospitato) non c'è la moglie; perfino le bestie hanno diritto al riposo, ma la moglie no, deve lavorare.

Del resto la donna non era un essere libero e indipendente, ma proprietà dell'uomo di casa; secondo il Talmud, "la ragazza resta sotto il potere di suo padre finché non.entra sotto il dominio del marito attraverso il matrimonio".

Un quadro da valutare con prudenza.

Quanto detto fin qui deve però essere accompagnato da alcune considerazioni che inducono a una certa prudenza nella ricostruzione del quadro storico della condizione della donna ebrea nella Palestina dei tempi di Gesù:

1) La situazione prima descritta riguarda più le donne del popolo che non quelle benestanti: le donne delle classi superiori avevano sicuramente una libertà di parola e di movimento ben superiore a quella concessa alle donne del popolo;

2) la mentalità con cui nella cultura ebraica di allora era vista la condizione femminile possiamo ricostruirla essenzialmente attraverso rappresentazioni che ne davano gli uomini, ed è perciò anche probabile che certi giudizi e certe regole riguardanti le donne che troviamo in scritti di allora rappresentassero il comportamento femminile "ideale", cioè quello "desiderato" da certi uomini, e che la realtà non fosse tutta o sempre così. Comunque, pur con queste riserve, il quadro storico delineato è sostanzialmente verosimile.


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