Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Desmond Tutu.
Non c’è pace senza perdono
Il sesto gradino dell'umiltà si ha se il monaco si accontenta di tutto ciò che è più vile e spregevole e in tutto quello che gli viene comandato si considera come un operaio inetto e indegno (RB 7, 49).
Non si può sperare senza fondamento, "ma come può la speranza essere certa se rimane speranza? Allora il testimoniare questo, predicare questa agonia, questo a me interessa del teologo, cioè di colui che è appeso alla croce, non di colui che la spiega. Qui trovo una differenza con il mio ragionamento che mi spinge alla relazione con l'altro".
Quattro vie
per l'educazione alla pace
Nel momento confuso che stiamo vivendo, con il terrorismo che ha portato la paura nel quotidiano della gente e con il rischio di scelte politiche sempre più improntate alla chiusura e alla demonizzazione dell'altro/straniero, o ispirate al principio della guerra preventiva, quali possono essere le pedagogie di pace? Quali temi devono avere quelle pedagogie - anche senza intenderle come un indirizzo teorico in senso stretto ¡ che potrebbero contrastare il virus della potenza e del dominio? A nostro parere l'educazione alla pace può passare attraverso quattro vie privilegiate: la pedagogia interculturale, l'ecopedagogia (le pedagogie attente alla terra), la democrazia partecipativa (l'opera delle persone che si associano e si mettono in rete per fare azioni concrete di pace), l'impegno delle religioni.
1. La pedagogia interculturale
La scuola svolge la funzione primaria e insostituibile di dare cittadinanza all'uomo planetario che è già in cammino. (Franco Cambi)
Anzitutto la pedagogia interculturale: siamo consapevoli che la pace deve essere radicata nella cultura, e non può rimanere come un messaggio isolato e affidato ad un elite di pochi testimoni illuminati. La sfida è inserire la pace nell'ambito della cultura, nella convinzione che solo una cultura che sia capace di meticciarsi con le altre può essere la cultura del futuro.
Conosciamo benissimo cosa accade alle culture chiuse e autoreferenziali, perché abbiamo presente il destino della nostra cultura eurocentrica, che ha prodotto dei modi di pensare che sono serviti a giustificare gli imperialismi e le colonizzazioni. La filosofia del soggetto ha prodotto un uomo che ha "esportato la sua civiltà" tra indios, pellerossa, africani e asiatici, in cambio dello sfruttamento delle risorse altrui; la filosofia della tecnica ha portato l'uomo a imporsi sulla natura fino al punto di violarla, ma anche di mettere a repentaglio l'esistenza delle generazioni umane future. Pedagogia di pace é una pedagogia che sappia affrontare le ombre della nostra cultura (come la presunzione di superiorità e il razzismo), che sappia formare individui capaci di vivere nella complessità, "cittadini del mondo" grazie all'inclusione delle differenze, e non alla loro sottrazione: non tanto passando per la rinuncia all'identità nazionale (che spingerebbe alcuni al fondamentalismo), quanto cercando un'identità che sia plurale e non abbia paura dell'altro.
Perciò concordiamo pienamente con Franco Cambi quando scrive: "nell'interculturalità è posta una sfida alla e della pedagogia; sfida verso un nuovo modello di cultura, radicalmente diverso rispetto a quello tradizionale - occidentale o greco-cristiano-borghese -, capace di revisionare i fondamenti di quello e di proporne dei nuovi, attuando una macro-rottura all'interno dell'Occidente stesso, in quanto ne rimuove millenarie certezze e pone nuove frontiere (etiche, cognitive, antropologiche, prima che sociali e politiche) alla sua cultura, anzi frontiere del tutto nuove" (1). L'intercultura come sfida, come riscoperta e rilancio di valori positivi della cultura occidentale per superare l'etnocentrismo e le tentazioni di egemonia culturale. Questi valori sono il dialogo, il pluralismo, la convivialità delle differenze: immaginiamo una pedagogia interculturale che sia ermeneutica, capace di prestare attenzione al non-detto, al rimosso, all'emarginato capace di dialogare con quelli che la narrazione dominante pone a margine.
Una pedagogia di pace prevede quel dialogo tra culture che recepisce le aperture più illuminate della filosofia contemporanea, come le teorie di Lévinas e Derrida, che tematizzano il carattere incondizionato dell'ospitalità e cercano di superare un'aporia del pensiero occidentale, la chiusura di fronte allo straniero, e che rilanciano le categorie dell'alterità e della differenza.
NOTA
(1) F. CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001, p. 15
2. Ecopedagogie
L'uomo non è il padrone della creazione. (...) Bisogna passare all'ecosofia, cioè alla saggezza stessa della terra di cui l'uomo prenderebbe coscienza e si farebbe portavoce. (R. Panikkar)
La sensibilità verso la terra sta lentamente cambiando, anche se purtroppo talvolta cambia più per la consapevolezza dei pericoli che si corrono (1'euristica della paura di Jonas) che per una maturazione sempre consapevole e diffusa. Una pedagogia della pace deve prevedere l'educazione ambientale e l'alfabetizzazione ecologica: per non ripeterci rimandiamo alle considerazioni espresse su questa rivista da Luigina Mortari (numero di gennaio) e da Carlo Baronoelli (febbraio), e agli articoli che sono stati dedicati alla "Carta della Terra".
Aggiungiamo un riferimento all'ecopedagogia. Come detto, il punto critico a cui sembra essere arrivato l'uomo nel suo rapporto con l'ambiente obbliga a cambiare necessariamente la nostra mentalità. É necessario guardare al futuro, a una diversa presenza dell'uomo sul pianeta, proiettarsi in una dimensione inedita di cittadinanza planetaria. L'ecopedagogia è la riflessione, oggi necessaria, su una teoria e una prassi educativa che tengano conto che l'uomo ha il diritto/dovere non di essere il dominatore della Terra, ma soprattutto il principale custode delle sue risorse, delle sue bellezze e delle diverse forme di vita.
Secondo i teorici dell'ecopedagogia, Francisco Gutiérrez e R. Cruz Prado, la chiave di volta di un futuro possibile deve essere una nuova forma di razionalità, che sia all'insegna di una relazionalità flessibile, intuitiva e processuale, in grado di recepire tutte le istanze della vita sulla Terra, in qualunque forma esse si manifestino. La quotidianità è il luogo e il tempo privilegiato dello sviluppo sostenibile. L'ecopedagogia si propone pertanto come una nuova scienza che trascende i modi occidentali di concepire l'universo e coincide sorprendentemente con il pensiero e la visione del mondo delle culture tradizionali di tutte le latitudini.
Le pedagogie della pace devono porsi il problema di educare le giovani generazioni ad abitare la terra, prendendosene cura e valorizzandone i beni.
3. La democrazia partecipativa
Dobbiamo sentirci solidali, corresponsabili: una solidarietà che si impara nelle piccole fraternità per allargarsi sempre di più. (R. Goldie)
É uno dei dati sociali più importanti di questi ultimi anni, legato ad una teoria di cambiamento che si incontra con la vita pratica: si tratta della crescente voglia di partecipare espressa dalla gente comune, che si esprime non solo attraverso le consuete modalità "politiche" (ad esempio le manifestazioni) ma anche attraverso gesti quotidiani che denotano un cambiamento di coscienza.
Già da tempo si è rilevato l'impatto positivo della diffusione di buone pratiche come la spesa nei negozi del commercio equo e solidale o l'aprire un conto corrente allo sportello della Banca Etica: l'elemento che vorremmo qui evidenziare è il fenomeno della creazione di reti di collaborazione solidale a livello locale, regionale e mondiale. Si tratta del tentativo di costruire un'alternativa democratica e non capitalista all'invadente globalizzazione, cercando una crescita economica che sia sostenibile sia dal punto di vista ecologico che da quello etico-sociale.
L'obiettivo è ambizioso: convincersi che un altro mondo è possibile a condizione che i consumatori passino ad un consumo solidale, cioè scelgano i prodotti delle reti di collaborazione solidale anche se, in qualche caso, dovessero costare più di quelli della rete capitalista. Consumo solidale significa essere sempre consapevoli che le nostre scelte commerciali possono conservare o danneggiare gli ecosistemi, condizionare occupazione e disoccupazione, mantenere o ostacolare lo sfruttamento dei lavoratori.
Ci sembra significativo citare il caso italiano della Rete di Lilliput, un'associazione di gruppi e cittadini impegnati nel volontariato, nel mondo della cultura, nella cooperazione Nord/Sud, nel commercio e nella finanza etica, nel sindacato, nei centri sociali, nella difesa dell'ambiente, nel mondo religioso, nel campo della solidarietà, della pace e della nonviolenza che, di contro alle leggi imperanti del mercato/profitto e alla perdita di credibilità delle istituzioni democratiche, hanno unito in un'unica voce le loro molteplici forme di resistenza contro le scelte economiche che concentrano il potere nelle mani di pochi e che trascurano la vita in nome del profitto e del consumismo.
Adottare una strategia lillipuziana significa che è possibile per tutti i cittadini dare il proprio contributo al cambiamento delle istituzioni sociali. Per questo diventa necessario costruire le reti locali. La strategia lillipuziana può diventare uno dei modi per unire i luoghi e le forze, per mettere in rete i gruppi, laici e cattolici, e quindi per globalizzare la solidarietà.
Del resto, l'aumento della complessità sociale richiede un aumento del livello di coordinamento dei soggetti e delle risorse. Come tutti sanno, il nome di "Rete di Lilliput" richiama la favola I viaggi di Gulliver (1725) dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift, e in particolare la situazione in cui i minuscoli "lillipuziani", alti appena pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante (metafora della globalizzazione), legandolo nel sonno con centinaia di fili. Gulliver avrebbe potuto schiacciare qualsiasi "lillipuziano" sotto il suo stivale, ma la fitta rete di fili lo immobilizza e lo rende impotente.
4. Religioni per la pace
Non ci sarà pace nel mondo finché non ci sarà pace tra le religioni. (Hans Küng)
Anche senza entrare nell'analisi della complessa situazione geo-politica attuale dal punto di vista dei rapporti con il mondo islamico, purtroppo non possiamo ancora consolarci pensando che le Crociate e le guerre di religione appartengano ad una pagina che è stata definitivamente voltata. Come ricorda Gianni Novelli: "non è religioso, ma ha una forte connotazione confessionale, il sanguinoso conflitto nord-irlandese tra cattolici e protestanti. Le guerre balcaniche hanno registrato un aspro antagonismo tra cattolici (croati) ortodossi (serbi) e musulmani (maggioranza bosniaca). Nelle repubbliche baltiche e in molte parti dell'ex-Unione Sovietica la lotta tra cristiani ortodossi e uniati (1egati a Roma) è sempre aperta. In Asia (pensiamo all'Iran o all'Afghanistan) e in Africa (pensiamo al Sudan ma pure al Rwanda) le lotte politiche e pure le stragi assumono connotazioni religiose intrecciandosi con le ragioni etnico-tribali. Sovente queste tristi pagine di storia non sono sottoscritte dalle gerarchie delle diverse parti religiose che non hanno altra responsabilità se non quella del silenzio e della mancata educazione alla pace dei loro fedeli" (2). Si può dire, in generale, che le voci dei pastori che richiamano le vocazioni pacifiche delle religioni restano inascoltate laddove gli interessi della politica e del potere sono preponderanti. Eppure il compito di essere educatori di pace deve essere proprio delle religioni, che devono essere sufficientemente chiare da non farsi strumentalizzare e da essere tenute fuori dai conflitti religiosi (non dimentichiamo che nei messaggi lanciati all'Occidente da Bin Laden si parla ancora di "crociati").
Serve un impegno convinto all'interno delle comunità religiose, da parte dei pastori e da parte dei laici, perché vivano la loro dimensione religiosa sempre accompagnandola con un messaggio di pace per tutti. In coerenza con quanto recita il Messale Romano nella Messa per la pace e la giustizia: "Dio della pace, non ti può comprendere chi semina la discordia, non ti può accogliere chi ama la violenza: dona a chi edifica la pace di perseverare nel suo proposito, e a chi la ostacola di essere sanato dall'odio che lo tormenta".
NOTA
(2) L. Bettazzi, Ecumenismo e pace: le Chiese e la pace, in V. Savoldi (a cura), Mai più guerra. Per una teologia della pace, La Meridiana, Molfetta 1998, pp. 252-253.
BIBLIOGRAFIA
Cambi F., Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001.
Derrida J. (con A. Dufourmantelle), L'ospitalità, Baldini e Castoldi, 2002,
Elamè E., Intercultura, ambiente, sviluppo sostenibile, Emi, Bologna 2002,
Gallie W.B., Filosofie di pace e guerra, Il Mulino, Bologna 1993.
Gutierrez F-Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, Emi, Bologna 2000.
Lévinas E., Umanesimo dell'altro uomo, IL Nuovo Melangolo, Genova 1998.
Mance E. A., La rivoluzione delle reti. L'economia solidale per un'altra globalizzazione, Emi, Bologna 2003.
Salvoldi V. (a cura), Mai più la guerra. Per una teologia della pace, La Meridiana, Molfetta 1998.
Ucodep (a cura), Pace, Emi, Bologna 2004.
Ucodep (a cura), Diritti umani, Emi, Bologna 2004.
Ucodep (a cura), Sviluppo, Emi, Bologna 2004.
Ucodep (a cura), Intercultura, Emi, Bologna 2004.
(da Cem Mondialità, maggio 2004)
Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti
Ventottesima parte
In primo luogo faccio ora riferimento ad alcuni brani del volume "Parole di un Fondatore", che riporta discorsi, riflessioni, esortazioni del P. Colin, citandoli sinteticamente.
Nei paragrafi 42, 3; 117, 3; 119, 9 il P. Colin ci dice che:
"la Chiesa nascente è il modello della società di Maria che non ha altri modelli che quella".
Nel paragrafo 115, 5: "la Società di Maria ne deve rappresentare i primi tempi".
Nel 120, 1 afferma che la Società deve irrigare una nuova Chiesa.
Nel 150 che deve imitare la Chiesa nascente.
Vorrei ora puntualizzare in modo più approfondito, secondo la Tradizione (dei Padri) e secondo il pensare di Colin, le parole apostolato ed apostolico, sulle quali avremo modo di tornare quando esporremo la spiritualità della missione Marista.
Ciò che diciamo ora di apostolato ed apostolico è un approfondimento di quanto esposto brevemente nella parte XXIV.
Nelle costituzioni della Società di Maria del 1872 al numero 8 il fondatore ci dice: "nei vari ministeri a cui devono attendere (i religiosi) si comportino con tale modestia, dimenticanza di sé ed abnegazione da risultare veramente sconosciuti e come nascosti in questo mondo".
La missione così concepita nasce e matura in uno stile di vita determinato dall’esempio di Cristo unico modello degli apostoli.
Leggiamo in proposito quanto dicono le Costituzioni del 1872 al n. 244.
Poiché fa parte dello scopo della Società andare di luogo in luogo a diffondere la parola di Dio e catechizzare gli incolti, al fine di adempiere un così santo imitare sempre Nostro Signore Gesù Cristo, il quale, prima di insegnare in pubblico, volle restare quaranta giorni nel deserto; dopo andò per le città e i villaggi della Giudea predicando ovunque che il regno di Dio era vicino e invitando i peccatori a penitenza.
Nei testi liturgici del Natale si intrecciano molti motivi di varia natura e ricchi di diverse prospettive: non solo si compie, in modo inaudito e per tanti aspetti paradossale, l'attesa messianica vissuta durante l'Avvento, e nemmeno soltanto si celebra l'incarnazione del Dio con noi, o la visita del Verbo nell'anima;
Le difficoltà maggiori si riscontrano nell'uso dei titoli attribuiti a Maria. La sensibilità teologica del protestantesimo ha letto nella letteratura cattolica eccessivi "abusi" che hanno stimolato la devozione popolare in base a "parallelismi" troppo marcati tra cristologia e mariologia.
Come è possibile insegnare che Dio è amore quando si è capaci di parlare soltanto di catastrofe e di morte? Si può amare Dio perché sperimentato come Dio e non per timore o per paura.
La necessità dell’unico padre
Valorizzazione della storia di Abramo
Immagini di un antenato
di Sophie Laurant
Abramo occupa, tra i personaggi della Bibbia ebraica, un ruolo privilegiato. Insieme a Mosè è, in un certo senso, il "fondatore" del giudaismo, ma al contrario di Mosè, Abramo è diventato l'antenato comune delle tre religioni monoteiste: giudaismo, cristianesimo, islam. Questo patriarca sembra godere di un'incontestabile forza di integrazione, dato che possono riconoscersi in lui correnti teologiche diverse. Esistono dunque più letture possibili della figura di questo antenato. ll fondamento di tutte queste letture, cioè il ciclo di Abramo, che si trova nel libro della Genesi (Gn 11,27-25,18), contiene già una diversità di vedute e di rappresentazioni del patriarca.
L'avventura di Abramo, che all’inizio si chiama Abram (fino a Genesi 17), inizia con il racconto della migrazione della famiglia del patriarca che si sposta dalla Mesopotamia alla Siria (Carran). Al momento della menzione di Sara (Gn 11,30), moglie del patriarca, è citata la sua sterilità. Ogni avvenire sembra già allora compromesso per la coppia. Tuttavia in Genesi 12,1-9, Dio promette ad Abramo una numerosa discendenza. Egli appare dall’inizio come il credente esemplare. Non pone alcuna domanda quando Dio gli ordina di lasciare il suo paese: obbedisce, e si mette in cammino verso una terra sconosciuta. Appena arrivato in Canaan, il patriarca ci è presentato come un’altra persona (12,10-20). A seguito di una carestia, egli si affretta a lasciare la terra promessa per l’Egitto. Là non esita a far passare Sara, la moglie, per sua sorella e si arricchisce grazie a lei. Gli interventi di Dio e del faraone ristabiliscono l’ordine turbato dalle azioni di Abramo. Dopo l’immagine di un patriarca ingannatore, si ritrova in Genesi 13 un Abramo conciliatore e uomo di pace. Il conflitto territoriale che lo oppone a Lot, il nipote, è regolato con una divisione in zone di occupazione. Al contrario, il racconto seguente (Gn 14) ci pone di fronte, in modo inatteso, un Abramo guerriero che interviene in un conflitto internazionale dalle dimensioni apocalittiche. L’Abramo di Genesi 15 esprime, eccome, i suoi dubbi circa la promessa divina; in seguito è informato da Dio sugli eventi futuri, finisce col credere ed entra nell'alleanza. In compenso, in Genesi 16, il patriarca gioca un ruolo passivo e si trova un po’ superato dagli eventi. Accetta la proposta di Sara che, a causa della sua sterilità, vuole farsi sostituire dalla schiava Agar. Quando la schiava è incinta, Abramo è incapace di governare il conflitto che sorge tra le due donne. Agar fugge, ed è un messaggero divino che interviene in favore di lei e di suo figlio Ismaele. In Genesi 17 il patriarca beneficia di nuovo di un’alleanza divina. Al contrario di quella di Genesi 15, questa comporta un segno, cioè la circoncisione. Il racconto della visita dei tre uomini misteriosi (Gn 18) mostra l’esemplare ospitalità di Abramo. Dopo questo episodio, che si conclude con l’annuncio della nascita di Isacco, Abramo assume il ruolo di mediatore per convincere Dio a non distruggere la città di Sodoma. La città tuttavia viene distrutta, mentre Lot, che vi si era insediato e che si è mostrato ospitale come suo zio Abramo, è salvato insieme con le figlie e diventa, in maniera poco ortodossa, l’antenato dei Moabiti e degli Ammoniti (Gn 19). In seguito troviamo di nuovo il patriarca fraudolento che, soggiornando presso il re di Gerar, fa nuovamente passare Sara per sua sorella (Gn 20). Malgrado ciò, in questo stesso racconto, egli è chiamato "profeta" ed è incaricato, come più tardi Giona, di intercedere per i pagani. Alla fine, subito dopo il soggiorno di Sara nell’harem di Abimelek, nasce Isacco, il figlio della promessa (Gn 21); ma Dio presto domanda ad Abramo di sacrificare questo figlio. Nel racconto di Genesi 22, che è certo il più sconvolgente dell’intero ciclo, Abramo si comporta esattamente come in occasione della sua vocazione (12,1-9). Di nuovo, egli obbedisce senza fare domande. In Genesi 12 Dio gli aveva domandato di rinunciare al suo passato, adesso egli è pronto a rinunciare al suo avvenire. La conclusione di questa prova (sostituzione di Isacco con un ariete, riaffermazione della promessa) segna in qualche modo la fine delle gesta di Abramo.
I capitoli seguenti preparano la morte del patriarca. In Genesi 23, è detto che egli compra una tomba presso Ebron; e in Genesi 24, che egli fa cercare una sposa per Isacco in Mesopotamia, rifiutando i matrimoni con le "figlie dei Cananei". Nel capitolo seguente (Gn 25) Abramo, dopo la morte di Sara, prenderà un’altra donna del paese diventando, grazie a lei, l’antenato di un certo numero di tribù. Il narratore ci informa a questo punto della morte del patriarca, la cui sepoltura dà occasione a Isacco e Ismaele di ritrovarsi.
Il racconto della Genesi mostra dunque una varietà di ritratti del patriarca. Questa diversità si spiega con l’intervento di più autori e redattori nell’elaborazione del ciclo di Abramo.
La costruzione delle gesta di Abramo
Nell’attuale situazione delle ricerche sul Pentateuco, è impossibile proporre una teoria condivisa sulla formazione di Genesi 12-25. Tuttavia si può affermare che l’epoca dell’esilio babilonese (597-539 a.C.) è un momento decisivo per la redazione scritta delle tradizioni su Abramo. Il libro di Ezechiele contiene, in 33,24, la citazione di una rivendicazione della popolazione non deportata: "Abramo era uno solo ed ebbe in possesso il paese e noi siamo molti: a noi dunque è stato dato in possesso il paese". Con questo argomento, la gente rimasta in Palestina (contadini e popolino) giustificano il loro diritto al possesso del paese contro gli esiliati che, invece, si considerano il "vero Israele". Ez 33,24 fornisce indicazioni preziose per comprendere la formazione del ciclo di Abramo. Si vede in primo luogo che il patriarca è un personaggio conosciuto. Questo significa che non può essere stato inventato soltanto all’epoca dell’esilio. In apparenza, egli rappresenta l’antenato e la figura di riferimento della popolazione non esiliata. La prima storia di Abramo è stata, probabilmente, redatta nel VI secolo a.C. per legittimare le rivendicazioni riportate in Ez 33,24, ma racconti orali (e forse anche scritti) su Abramo e Sara esistevano certamente all’epoca della monarchia ebraica, in particolare presso il santuario di Ebron, dato che il patriarca si insedia in questa città e vi compera la tomba di famiglia.
La prima edizione del ciclo di Abramo (contenente grosso modo 12,10-20; 13; 16; 21,1-7) dà speranza alla popolazione rurale della Giudea, esortandola, attraverso l’esempio del suo antenato, a intrattenere buone relazioni con i popoli vicini (Gn 13 e 16), a non abbandonare il paese (12,10-20), promettendole un avvenire più sere-no a dispetto della situazione precaria che sta vivendo. Quando una parte degli esiliati ritorna in Giudea, a partire dal 530, costoro, attraverso talune aggiunte redazionali, rivisitano e adattano la figura di Abramo alle esigenze dei rimpatriati. Nella nuova introduzione che contiene il racconto della vocazione (12,1-9), Abramo prefigura il destino degli antichi esiliati che, come il patriarca, sono chiamati a lasciare Babilonia per la terra promessa. Gli stessi redattori inseriscono il racconto della legatura di Isacco in Genesi 22. La prova che Abramo subisce riflette il problema teologico, caratteristico dell’epoca persiana, di un Dio divenuto incomprensibile (lo stesso problema è trattato nel libro di Giobbe). Tuttavia questo racconto invita alla fiducia in Dio malgrado le apparenze; la discendenza di Abramo non sarà sacrificata, al contrario: essa è promessa ad un avvenire glorioso.
Redattori provenienti dall’ambiente sacerdotale procedono in seguito a varie riletture, in particolare aggiungendo il cap. 17, nel quale il riferimento ad Abramo serve a fondare il rito della circoncisione che diventa, a partire dall’epoca dell’esilio, il simbolo dell’alleanza tra Dio e la discendenza di Abramo.
Il racconto di Genesi 15 è probabilmente concepito dall’ultimo redattore della storia di Abramo, allo scopo di legarla alla storia dell’Esodo (15,13-16). In questo testo, Abramo diventa il precursore di Mosè, e Dio gli si presenta con queste parole: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei" (v. 7), espressione che richiama l’incipit del Decalogo: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto". Le diverse figure di Abramo che risultano dal processo di formazione della sua storia spiegano in certo modo perché diverse correnti religiose possano riconoscersi in lui. Taluni si trovano tuttavia disorientati di fronte ad una tale diversità e si mettono a cercare il "vero" Abramo.
Il problema della storicità di Abramo
Abramo condivide il destino di molti antenati storici: quello di essere difficilmente afferrabile dallo storico. Se si interpreta la cronologia dei primi libri della Bibbia come una successione di periodi storici, si arriva spesso alla conclusione che bisogna collocare l’Abramo storico nella prima metà del II millennio a.C. Si è pensato di poter provare la storicità di Abramo invocando ondate migratorie aramaiche in quest’epoca. Sono stati anche utilizzati gli archivi della città di Nuzi, ad est del Tigri, per fondare la storicità dei racconti su Abramo; dato che, in certe tavolette, si trova l’appellativo "sorella" per designare la sposa, si pensava di aver trovato una situazione storica similare per il racconto di Gn 12,10-20. Inoltre il nome Abramo è largamente attestato nel II millennio. L'idea di un Abramo vissuto attorno al 1700 a.C. è stata oggi abbandonata dalla maggior parte degli specialisti.
Se si leggono con attenzione i racconti su Abramo, si constata subito che essi non menzionano alcun evento del II millennio; essi hanno piuttosto qualche cosa di atemporale. Così, in Genesi 12, il Faraone non ha un nome proprio, ma simboleggia semplicemente la potenza egizia con la quale Israele ha dovuto confrontarsi per tutto il corso della sua storia. E se i racconti su Abramo risalgono veramente al II millennio, bisognerebbe spiegare attraverso quale canale le sue imprese sarebbero state veicolate per oltre mille anni prima di essere messe per iscritto. Neppure lo studio dei nomi propri ci aiuta, perché il nome del patriarca è altrettanto popolare sia nel II che nel I millennio a.C.; e la teoria di una grande migrazione nel II millennio appare oggi poco probabile. I rari nomi propri in Gn 11,27-25 e 18 evocano piuttosto il contesto dei secoli VII e VI a.C., come ad esempio il nome proprio "Ur Casdim" che non è attestato al di fuori della Bibbia prima del VII secolo; il nome Ismaele è da associare alla confederazione "Sumu’il", attestata nei testi assiri della stessa epoca. Bisogna anche notare che la proposta di Sara in Gn 16 corrisponde chiaramente alle pratiche previste nel contratto di matrimonio neoassiro.
È dunque pressoché impossibile ricostruire un Abramo storico che sarebbe vissuto nel II millennio. Non si può però escludere la possibilità di un personaggio storico che sarebbe:all’origine delle tradizioni su Abramo. Su una stele di vittoria del faraone Sesonq, datata circa 926, si trova forse (ma la lettura resta difficile) la menzione di un"campo di Abramo" localizzato nel Neghev, non lontano da Ebron. Si potrebbe dunque stabilire un legame con l’Abramo della Genesi. Non dimentichiamo però la frequenza del nome Abramo in quest’epoca.
L’importanza della figura di Abramo non dipende affatto dalla questione della sua storicità. Le storie che lo riguardano hanno fornito a generazioni di credenti delle tre religioni monoteiste modelli di identificazione, e anche messaggi di speranza e di avvenire nonostante le prove.
Dietro le immagini si delinea il monoteismo
Le rappresentazioni di divinità dell'antico Israele, rivelate dall'archeologia, permettono di scrivere la storia della formazione del monoteismo. Othmar Keel e Christopher Uehlinger (1), professori presso l’Istituto biblico dell’Università di Friburgo (Svizzera), hanno ripreso trent’anni di ricerche archeologiche ed epigrafiche per tracciare un "paesaggio" religioso della Terra santa, dal 2000 a.C, (età del Bronzo medio) sino all‘epoca persiana (IV secolo a.C.). Il loro esauriente recupero di iscrizioni, sigilli, statue, luoghi di culto, fa emergere un universo politeista complesso e variegato, nel quale gli influssi egizi e mesopotamici si sovrappongono, ponendosi in relazione su tempi lunghi che coincidono solo parzialmente con i periodi di occupazione straniera della Palestina. Una prova in più dell’importanza degli scambi e dei reciproci influssi culturali, movimenti di fondo che lo storico non può ricondurre a coincidere con eventi politici. In un lento contesto storico emerge dunque poco a poco JHWH, l’aniconico, attestato come Dio unico degli Ebrei soltanto intorno ai VI secolo a.C. Per 1unghi secoli sono rimasti arcanto a lui dee, "signori degli animali", figure maschili guerriere (sorta di dei secondari). Essi erano espressioni in subordine della benedizione divina, simboli cultuali. Al ritorno dall’esilio si impone tuttavia un rigoroso monoteismo. Non c’è più spazio in Giuda "per una dea accanto a JHWH". Gli autori forniscono così una coerente conclusione della polemica suscitata nei 1975 dalla scoperta di un’iscrizione che evocava JHWH e "la sua Aserah". Il che non ha impedito la continua esistenza di templi consacrati ad una dea dominante nelle regioni vicine. L‘opera di Othmar Keel e di Christopher Uehlinger, profonda e rigorosa, è importante e, sotto molti aspetti, fondamentale. Il sottotitolo, Le fonti iconografiche della storia della religione di Israele, è più esplicito dello stesso titolo Dei, dee e figure divine. Per quanto riguarda le sintesi precedenti, i due autori rivendicano un aspetto troppo spesso trascurato: quello che consiste nel far parlare le immagini. "Molti biblisti, essi scrivono nelle conclusioni, si muovono nella Palestina antica come ciechi che abbiano a stento appreso l’idioma di questo universo. [...] Purtroppo, gli aniconici sono in genere meno consapevoli della loro ignoranza di quanto non lo siano gli analfabeti, perché, sulla base del loro carattere meno arbitrario e artificiale, le immagini rararnente provocano, corne invece fanno la scrittura e la lingua, un'impressione di totale estraneità". Agli specialisti di testi biblici Othmar Keel e Christopher Uehlinger propongono di aprire gli occhi.
(1) O.Keel - C. Uelingher, Dieux, déesses et figures divines, Cerf, Parigi 2001.