Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 29 Dicembre 2006 20:33

Evangelizzare (il) postmoderno (Armando Matteo)

VIVIAMO IN UN’EPOCA NELLA QUALE NON È PIÙ OFFERTA ALL’UOMO OCCIDENTALE UNA TAVOLA CONDIVISA DI RIFERIMENTI E DI VALORI

Evangelizzare (il) postmoderno
di Armando Matteo


Bisogna abitare questo tempo come Gesù ha vissuto il tempo di Nazaret, luogo in cui è possibile “imparare” Dio, il suo nome e il suo stile. Il segno più evidente della “postmodernità” è il venir meno di una visione religiosa della vita. Della postmodernità occorre evangelizzare l’atteggiamento antimetafisico, il tratto antisacrificale e la dimensione antiideologica.

Sconvolge la dismisura esistente tra i trent’anni passati da Gesù nel più profondo anonimato a Nazaret e la brevità della sua missione pubblica. Di quel periodo gli evangelisti ci riportano solo brevi notizie, ma quello è stato il tempo di un fecondo apprendistato presso l’uomo del suo tempo, che ha consentito a Gesù di individuare, al momento opportuno, la giusta chiave d’accesso al cuore e alla mente dei suoi contemporanei. Gli ha permesso quella profonda compartecipazione alla storia dell’uomo della porta accanto, quella lucida presenza di spirito alla vita concreta, spicciola, così che mai le sue parole risuonarono astratte, distratte, indifferenti, semplici luoghi comuni, intellettualistiche o enigmatiche.

Basta, infatti, sfogliare qualche pagina dei vangeli per afferrare la straordinaria misura con la quale Gesù ha saputo scendere dentro i dettagli della vita quotidiana degli uomini e delle donne del suo tempo, con una concretezza e una precisione che hanno preservato il suo insegnamento, che resta la sua prima e fondamentale opera di evangelizzazione, da qualsivoglia deriva dottrinalistica e ideologica.

La scuola di Nazaret

La lunga sosta di Nazaret -  vera incarnazione nell’incarnazione - gli ha consentito di insegnare agli uomini a riconoscere la presenza di Dio nel cibo che non manca ai piccoli del corvo e nella bellezza non artificiale dei gigli dei campi. E soprattutto in quel di “più” con cui l’Abbà - Padre suo e Padre nostro - si prende cura della creatura umana, che arriva sino all’impensabile della conoscenza del numero dei capelli che portiamo in capo!

innestato nell’ambiente umano del suo tempo. discepolo anonimo dei suoi stessi discepoli futuri, diventa unparadigma fecondo per pensare in termini precisi il metodo e lo stile dell’evangelizzazione contemporanea.

Come Gesù, bisogna abitare questo tempo, cercando di definirne i contorni e i motivi profondi. Specificatamente. Si tratta di cogliere le linee congiunturali che segnano l’oggi della storia e misurare gli spazi di accoglienza che potrebbero riservare alla verità dei misteri cristiani. Si tratta insomma di imparare ad evangelizzare il postmoderno, evangelizzando postmodernamente, con uno stile di annuncio capace non solo di parlare del e al mondo (= destinatari) postmoderno, ma il mondo (= sintassi) postmoderno.

Ciò postula la decifrazione dei marcatori più forti della postmodernità e una loro intensa interrogazione. Solo sostando su di essi, si possono cogliere quegli spiragli capaci di indirizzare efficacemente l’opera di evangelizzazione.(1)

‘‘Non c’è più religione’’

Non è certamente semplice “dare nome” alla nostra epoca, nella quale siamo chiamati a ridire la bellezza e la pertinenza umana della parola del Vangelo, ma è un’operazione indispensabile.

Ci sembra opportuno partire da un’espressione molto comune, la cui analisi ci può aiutare a cogliere il volto del nostro tempo: “non c’è più religione”. Essa è frequentemente usata per nominare gli inediti contorni di un mondo che non risponde più ai comandi di una saggezza antica, informata essenzialmente all’immagine religiosa dell’esistenza offerta dal cristianesimo. Trattasi di bizzarri abbigliamenti, di nuove forme gergali, di improvvise interruzioni di scelte di vita una volta definite ‘”per sempre” (matrimonio o consacrazione religiosa), di scandali che coinvolgono persone sino allora al di sopra di ogni legittimo sospetto, il colto e il semplice trovano proprio nella locuzione citata - “non c’è più religione” - lo strumento più adeguato per manifestare il proprio disorientamento e disagio di fronte al tempo che vivono.

L’espressione, però, dice molto di più di quanto non si creda in prima istanza: coglie in semplicità e pertinenza la risultanza complessiva di quella svolta, mutamento, rivoluzione, che chiamiamo avvento della postmodernità. Con esso, infatti, accade il tempo in cui non è più possibile istituire una qualche forma di visione religiosa sulla propria vita e sul mondo. Siamo nell’epoca della fine della religione, nella quale non è più offerta al soggetto umano una tavola condivisa di riferimenti, di valori non negoziabili e gerarchicamente strutturati, con la quale valutare e ordinare l’esercizio della sua libertà e alla quale legare il proprio desiderio di una vita buona e felice.

Con le parole di F. Lenoir possiamo dire: «Ci troviamo chiaramente in presenza di una nuova fase della modernità, ancora più radicale di quella precedente, il che giustifica l’espressione “ultramodernità”. Nella precedente tappa si è verificata la separazione (formale o de facto) del potere religioso e di quello politico, nonché l’estromissione di ogni trascendenza della religione dallo spazio sociale globale. La fase ulteriore che stiamo vivendo oggi consiste nell’espulsione di ogni trascendenza, assoluto, carattere sacro o intangibile, che tenderebbe ancora a legittimare un’istituzione o una pratica sociale. Nel mondo tradizionale, il criterio dell’assoluto e dell’intangibile proviene dalla religione. Nella modernità, tuttora legata ai “grandi discorsi”, viene trasferito in un ordine sociale e naturale che mantiene un’impronta religiosa attraverso il carattere assoluto del loro fondamento estremo. Nell’ultramodernità non vi è più alcun assoluto. alcun ordine che si imponga a tutti» (2)

Ecco qui indicata la cifra con la quale possiamo nominare il nostro tempo: ci troviamo un tempo definitivamente post-religioso, un tempo nel quale vengono a cadere le condizioni di possibilità perché possa darsi qualcosa come una “religione”.(3)

La nostra è l’epoca della fine della religione. Questo rilievo sintetico intende segnalare quella destrutturazione cui è sottoposta la concezione classica dell’uomo, dei legami familiari, della società, dell’etica e della politica, e ovviamente del cristianesimo, che non rende più possibile un’organizzazione strutturata del cosmo interiore del soggetto in corrispondenza con l’ordine socio-culturale vigente e in vista della sempre difficile missione di dare un nome al proprio mestiere di vivere.

Più concretamente: l’imporsi di un’ontologia del finito e l’abbandono della metafisica, l’affermarsi di una visione ‘‘vitalistica” dell’esistenza e il crollo dell’immaginario sacrificale, l’avvento di una mentalità profondamente democratica e pluralistica e la diminuita forza di credibilità delle istituzioni pubbliche (che tocca profondamente il valore dell’insegnamento magisteriale della chiesa, nel senso della sua fatica a innescare nei credenti comportamenti inerenti alle istruzioni offerte) sono i nomi delle cause che segnano la scomparsa della religione.(4)

oramai diffuso, si può e si deve parlare di definitivo tramonto della cristianità. (5).Con le parole trasparenti dei nostri vescovi, possiamo dire: «Da tempo la vita non è più circoscritta, fisicamente e idealmente, dalla parrocchia; è raro che si nasca, si viva e si muoia dentro gli stessi confini parrocchiali; solo per pochi il campanile che svetta sulle case è segno di un’interpretazione globale dell’esistenza. Non a caso si è parlato di fine della “civiltà parrocchiale”, del venir meno della parrocchia come centro della vita sociale e religiosa. Noi riteniamo che la parrocchia non è avviata al tramonto; ma è evidente l’esigenza di ridefinirla in rapporto ai mutamenti, se si vuole che non resti ai margini della vita della gente». (6)

Ecco il punto nodale: la difficoltà che il cristianesimo oggi soffre è esattamente quella di presentarsi come un’interpretazione globale dell’esistenza, cioè come una religione. Ciò non manca di manifestarsi negativamente nella vita delle persone,le quali, private di un orientamento globale di senso, spesso non restano solo ai margini della vita ecclesiale, ma ai margini della vita tout court.

Ha scritto lucidamente C. Magris: «In Italia, e anche in altri paesi, folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e grandi occasioni rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma le chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il matrimonio religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la cultura cristiana e cattolica, la conoscenza elementare dei fondamenti della religione e dei passi evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una mutilazione per tutti i credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e, insidioso garbuglio del vivere». (7)

Come, allora, poter annnunciare il liberante messaggio dell’amore di Dio all’uomo contemporaneo?

Evangelizzare il tratto antimetafisico della postmodernità

La presenza dell’uomo nel mondo è oggi guidata da una decisa opzione per la finitezza dell’esistenza. Non si crede più al mondo platonico delle idee, all’esistenza dl valori trascendenti e normanti l’esperienza della libertà, non si allarga più lo sguardo oltre la morte. Tutto ciò che è, è finito.

Ma cosa comporta questa svolta antimetafisica della cultura occidentale? Certamente ci sono i risvolti legati all’affermarsi di una cultura sensibile-sensuale, che promette a tutti l’immediato godimento della vita e l’illusione di non sprecare alcuna occasione, con i tanti esiti tragici di cui spesso siamo impotenti testimoni; ma non c’è solo questo. La svolta antimetafisica comporta, per esempio. anche una precisa rivalutazione del finito quale luogo degno dell’umano, luogo cioè abitabile dall’uomo. Non si deve più “disprezzare” il finito, il limitato, per onorare la vocazione trascendente (la sua ex-sistentia) dell’uomo. E cosa non dire poi del tema della corporeità, degli affetti e dei legami, e infine della sessualità, sottoposti qualche volta ad un trattamento non generoso da parte della tradizione platonico-cristiana?

Come può ora il cristianesimo intercettare questa affermazione così decisa dell’umana abitabilità del finito? Come può ancora parlare di Dio e di trascendenza in questo contesto?

La provocatorietà e l’irritazione connessa alla presa di coscienza della svolta antimetafisica devono spingere la teologia a riscoprire la grammatica trinitario-kenotica dell’evento dell’incarnazione. Non si tratta certamente di una scoperta dell’ultima ora: il cristianesimo è fondamentalmente segnato dalla logica del già e del non ancora. Si tratta piuttosto di cogliere il tempo presente come un invito a porgere l’annuncio del volto cristiano di Dio lasciandosi maggiormente istruire dalla scuola di Nazaret.

Il Dio che noi annunciamo, infatti, dichiara per primo non solo l’umana abitabilità del finito, ma anche e più sorprendentemente la divina abitabilità del finito. Nell’evento dell’incarnazione ne va della verità cristiana: è quello il luogo in cui imparare Dio, il suo nome e soprattutto il suo stile. Dio è, per i cristiani, secondo Gesù! Il cristianesimo è esperienza di Dio secondo Gesù: credere è assumere lo stesso sguardo di Gesù relativamente a Dio, all’uomo e al mondo. Gesù mostra a noi il volto del Dio-Trinità, dal cui abbraccio infinito prende origine la tenerissima cura con la quale Dio accompagna la faticosa avventura della singolare esistenza di ognuno di noi.

Di più: Gesù è il volto di Dio che sa abitare il finito e che non si presenta sulla scena della storia umana con i segni di una gloria cui nessuno saprebbe resistergli. Egli rivela ed è, e rivela perché è, un Dio cui l’uomo può sfuggire. Dio sa abitare la distanza che la libertà dell’uomo impone: Dio non è irresistibile. Si offre alle nostre mani. Accetta la logica del finito: la logica della libertà, sino in fondo, sino alla croce. Ma, nello stesso tempo, svela che ciò che è finito è più che finito. Proprio nell’evento dell’incarnazione, infatti, Gesù rivela anche l’ampiezza (il di più) della nostra libertà: possiamo accogliere o rifiutare Dio stesso. Ed è sulla formidabile pertinenza umana della prima opzione che il cristianesimo è chiamato a giocare la sua partita,

Evangelizzare il tratto antisacrale della postmodernità

Nel tempo passato, segnato da numerose situazioni di miseria e di bisogni non sempre soddisfatti, l’esercizio della libertà era molto compresso e compromesso. Basterebbe pensare al limitato raggio di azione nella scelta dell’uomo o della donna da sposare, del tipo di mestiere da esercitare o anche semplicemente del luogo dove abitare. Per questo si veniva iniziati al mistero della vita attraverso la sofferta indicazione che l’esistenza è fatta di sacrifici. Questa elementare catechesi era già una forma di iniziazione al grande catechismo ecclesiale del sacrificio di Cristo per meritare la salvezza dell’uomo. La postmodernità è invece caratterizzata da una decisa sospensione del valore positivo del sacrificio: la vita è fatta di occasioni e di possibilità.

Oggi nessuno accetta come verità elementare la necessità del sacrificio quale condizione di una vita buona e degna dell’uomo. Anzi tutti si sentono sempre vittime, perseguitati, privati di qualcosa che doveva essere loro concesso, per cui il senso di tolleranza nei confronti della violenza, che comporta il solo evocare l’idea di un sacrificio, è bassissimo.

Questo tratto della mentalità contemporanea provoca una forte tensione quando si discute di evangelizzazione. Sembrerebbe quasi che sia impedita qualsiasi parola circa il mistero della croce di Cristo, qualsiasi accenno al lato agonico dell’esistenza, qualsivoglia riferimento al tema evangelico del “perdere la vita”. Come interagire con tutto ciò?

Intanto la teologia, oggi, ci invita a non assolutizzare la lettura sacrificale della croce di Cristo. È il Crocifisso che rende preziosa la croce. Al cuore dell’evangelo si trova infatti il dono della vita da parte di Gesù come ultima insuperabile testimonianza che solo l’amore di e per Dio salva l’uomo - ieri come oggi.

La concezione corrente (“vitalistica”) dell’esistenza, difatti, non è priva di contraccolpi per il soggetto postmoderno: la maggiore disponibilità economica, l’aumento della qualità e della quantità dell’offerta sanitaria, la logica del politicamente corretto hanno fatto esplodere l’ambito della libertà umana, ma resta il problema della sua configurazione. Come essere all’altezza della propria libertà? Come scioglierla dalla dipendenza di una rincorsa ossessiva dietro ogni occasione e dalla frustrazione continua di non aver afferrato quella migliore? Come liberare, infine, la libertà dalla deriva verso la depressività e dalla ricerca ansiosa di “cirenei” cui affidare questo peso: psicoterapeuti, guru, scrittori famosi e fumosi, leader carismatici di ogni tipo?

La fede cristiana promette esattamente una configurazione della libertà del soggetto umano che gli faccia conquistare il mondo senza perdere la propria anima. Afferma, infatti, che solo nella misura in cui facciamo nostra la fede in e di Gesù, accogliendo e ricambiando l’amore di Dio, evitiamo l’illusione di cercare negli altri, ma invano, quel riconoscimento del nostro essere amabili che solo l’Abbà di Gesù invece concede. Ecco perché solo Dio deve essere amato con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza. L’amore di e per Dio è la garanzia per un esercizio riuscito della libertà umana. Sorretti da questo amore, possiamo generosamente amare il prossimo.

Evangelizzare il tratto antiideologico della postmodernità

Un ultimo consistente tratto della postmodernità è dato dal crollo delle ideologie e dei partiti unici, che non concedevano spazio al nemico, al diverso, all’altro. E’ la vittoria della democrazia come sistema socio-culturale della convivenza non violenta dei diversi. E questa è una conquista che nessuno oggi si sognerebbe di mettere in discussione. Con essa accade una riabilitazione della libertà, del libero acconsentire da parte del soggetto a ciò che gli si offre come vero. mentre perde credibilità il profilo di una verità che si imporrebbe a tutti costi.

Da qui sorge quel tratto antiistituzionale tipico del nostro tempo che, mettendo in crisi i luoghi pubblici di mediazione, invita i singoli ad accedere autonomamente alla questione del senso. Ciò rende ragione della difficoltà di molti di riconoscere e di accettare la singolare mediazione ecclesiale-cristologica della verità. La chiesa viene normalmente allineata alle altre istituzioni umane e viene decifrata quale corpus di strutture, di regole, di funzioni e di funzionari. Tramite i media poi passa l’immagine di una chiesa quale istituzione assoluta- dai tratti quasi astorici - in grado di decifrare a priori la soluzione (non condivisibile ovviamente) di ogni problema, e quindi I ‘immagine di un’entità remota, distante, fredda, lontana dalla pratiche contemporanee di confronto e dialogo democratico.

E’ una situazione che richiede la massima accortezza e attenzione. La lezione che l’ascolto di questo tratto della mentalità postmoderna impone alla teologia è severa e parte dalla comprensione che la chiesa oggi si trova a vivere un’esperienza di debolezza, che va assunta con coraggio. Non si tratta semplicemente di riflettere sulla crisi numerica, bisogna invece riconoscere che qualche volta la chiesa stessa indulge in una posizione di rappresentanza e di istanza totale, correndo il rischio di giocare il ruolo di un “oggetto fittizio”, che ricorda il mondo moderno dell‘epoca della religione, carino e simpatico anche da visitare, ma scollegato dalla vita degli uomini e delle donne. Cosa fare dunque?

Serve il coraggio per la ,minorità: «Del resto non è in qualche modo la chiesa destinata a essere normalmente, nel suo cammino verso il Regno, in una condizione di minorità, chiamata ad andare sempre oltre il presente, a crescere non solo nel cuore degli uomini, ma pure nell ‘intelligenza di sé e del suo mistero. e nell’apertura alla novità di un Dio sempre più grande (“Deus semper maior”)?».(8)

Ci piace concludere con le parole davvero ispirate dal Card. Martini: “il riconoscere con serenità di essere piccolo gregge, di essere seme e lievito nella città, implica un ethos preciso. Un ethos di umiltà, di mitezza, di misericordia, di perdono, di riconoscimento delle proprie colpe anzitutto all’interno della chiesa (…). Una chiesa che è conscia della sua “minorità” ha più vivo il senso della testimonianza, coglie meglio le differenze in sé e attorno a sé, è più aperta al dialogo ecumenico e interreligioso, vive con più scioltezza la sinodalità e la collaborazione tra le chiese locali, instaura un rapporto più autentico con la chiesa universale in stretta comunione con il vescovo di Roma. Questo ethos interno ha anche un influsso sul modo con cui la chiesa si rende presente nel quadro sociale e politico di una nazione e sul modo con cui i singoli cristiani operano, a nome proprio e con propria responsabilità, nel campo politico? Certamente sì e vorrei richiamare qui alcune conseguenze. Esso 1) esclude una riduzione dell’impegno dei cristiani nel campo sociale e caritativo; 2) induce a un ‘‘pensare politicamente” che sia veramente tale, rifuggendo dalle soluzioni puramente settoriali; 3) contribuisce a creare un tessuto comune di valori; 4)promuove le regole del consenso dei cittadini. Il percorso di un cristiano cresciuto in una chiesa “piccolo gregge”. che ha colto la sua missione di essere seme e lievito, è dunque complesso ed esigente»(9)

(da Settimana, Ottobre 2006)

Note:

(1) Le considerazioni qui sviluppate sonopensate soprattutto per il contesto culturale occidentale. (2) Lenoir F., Le metamorfosi di Dio. La spiritualità occidentale, Garzanti,Milano 2005 (ed. or. 2003),. 182-183. Contrariamente al pensatore francese, preferiamo il termine “postmodernità”.

(3) Con Werbick anche noi intendiamo con il termine “religione” «un’opzione di base di tipo orientativo, permeata talvolta da un notevole grado d’insicurezza e connessa a numerosi iinterrogativi, volta a collocare l’esistenza dell’uomo in una prospettiva semplicemente identica a quella da cui ci si può aspettare che abbiano un senso il mondo, il cosmo. la vita in genere in tutte le sue fasi evolutive» (“Il futuro della religione in Europa” Regno-attualità 50 (15 settembre. 2005] 558.)

(4) Per una descrizione più dettagliata della postmodernità, ct. “Postmodernità e futuro del cristianesimo”, in Sett. N. 42/05, 8-9.

(5) Altamente istruttivo sulla questione è C. Torcivia, La chiesa oltre la cristianità, EDB. Bologna 2005.

(6) Conferenza episcopale italiana. Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30 maggio 2004), n. 2

(7) Magris C.,” Quando scompare il senso religioso”, in Corriere della Sera, 12.6.2004,1. Il fenomeno, pur vistoso, del contemporaneo risveglio del religioso - trova la sua ragion d’essere sia nell’eccessivo peso che l’esercizio della libertà comporta, sganciato da riferimenti valoriali sovraindividuali, sia nel bisogno di fuga dall’attuale cultura ipertecnologica avvertita come oppressiva.

(8) Martini C. M., Il seme, il lievito e il piccolo gregge. Discorso per la vigilia di S. Ambrogio, 5 dicembre 1998 (il testo è rinvenibile sul sito: www.chiesadimilano.it)

(9) lvi.

Quello che il pensiero occidentale non riesce a dire è che si possa amare Dio senza per questo dover necessariamente pensare che ci debba essere uno scopo per questo amore. Si è sempre avuta la tendenza ad aggiungerci qualcosa, fosse anche la salvezza dalla dannazione eterna.

Mercoledì, 20 Dicembre 2006 02:17

Tempo moderno (Franco Gioannetti)

Tempo moderno

di Franco Gioannetti

Nel sec. XVIII nuova visione illuministica dell’autonomia dell’uomo e dell’umano secolarizza la cultura anche religiosa: l’impegno mistico diminuisce: abbiamo solo poche figure: M. Maddalena Martinengo (+ 1737), Veronica Giuliani e la terziaria francescana Maria Francesca delle Cinque Piaghe (+ 1791).

Spiritualità Marista

di Padre Franco Gioannetti


Quarantesima parte

La comunione (2)

Tra questi elementi, meriterebbero un’attenzione speciale il carattere “familiare” della Società e di ogni singola comunità: di qui il particolare rilievo che assume l’esercizio della paternità spirituale del superiore sui compiti strettamente amministrativi; il tema della “amicizia” che gli esegeti ci dicono presente nell’ideale di “koinonia” della Chiesa apostolica (Cfr. J. Dupont, La comunità dei beni nei primi tempi della Chiesa, in Studi sugli Atti degli apostoli, trad. it., Roma 1971, pp. 861-889.); la funzione dell’autorità come “servizio di unità”.

Il P. Colin si distacca dalla concezione corrente dell’obbedienza, per vedere in essa la fonte della koinonia fraterna:

“Quae virus (= oboedientia) facit abitare fratres in unum”. (Constit.,cap. III, art. II, n. 123, p. 43.)

Con la citazione esplicita di Sal. 133, 1 il P. Colin ha davanti l’ideale agostiniano di vita religiosa. ( Antiquiores textus, VI, p. 143.)

Per realizzare una comunione profonda di ideale e di intenti è prevista l’apertura d’animo e di dialogo confidenziale con i superiori (Constit., cap. V, art. III, pp. 71 ss.).

Altra caratteristica delle Constit. mariste è che lo zelo per il progresso spirituale e la responsabilità delle persone non devono essere esercitati solo dai superiori nei confronti dei sudditi: anche il corpo della fraternità deve prendersi cura dei superiori, e in particolare del Generale:

“Non solum est Superiorem Generalem de omnibus esse sollicitum, ... sed etiam, tam ad majorem membrorum cum suo capite unionem et caritatem, quam ad optimam Societatis gubernationem, necesse est Societatem, ex sua parte, de suo Superiore tamquam patre esse sollicitam” (Ibid., cap. VIII, art. IV, n. 337, p. 119).

Al P. Colin stava molto a cuore che al Congregazione vivesse in intima comunione con i pastori della Chiesa locale (vescovi, parroci). Egli pensava chela comunione con la gerarchia ecclesiastica dovesse essere un tratto distintivo della Società.

Mercoledì, 20 Dicembre 2006 01:27

Chiese e sfida della pace (Brunetto Salvarani)

IX ASSEMBLEA DEL CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE
Chiese e sfida della pace
di Brunetto Salvarani

Tema dell’assemblea: “Dio, nella tua grazia, trasforma il mondo”. I delegati si sono pronunciati su molti temi di grande attualità: la guerra, il terrorismo e l’antiterrorismo, i diritti dell’uomo, il disarmo nucleare, la riforma dell’ONU, il rispetto reciproco tra le religioni, il dialogo. Lo strano silenzio dei mass media italiani.

E’ lunga la distanza che separa lo Zimbabwe, nell’Africa meridionale, dall’America Latina e il Brasile. Molti fili, però, nonostante l’Oceano Atlantico che le divide, collegano Harare a Porto Alegre, sedi delle ultime due assemblee generali del Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) - l’VIlI e la IX - che quasi un anno fa si sono passate il testimone, a sette anni di distanza. Ora, a quasi sei decenni dalla sua fondazione avvenuta ad Amsterdam nel 1948, il CEC rappresenta una comunione di oltre 340 chiese anglicane, ortodosse e protestanti site in più di cento paesi, in rappresentanza di circa 550 milioni di cristiani. E simboleggia soprattutto la speranza tangibile di un processo unitario tanto difficile quanto necessario, nella direzione prospettata da Gesù stesso nel suo ultimo grande discorso ai discepoli nel quarto vangelo: quei discepoli invitati ad essere, nonostante tutto, una sola cosa, affinché il mondo creda.

DELOCALIZZAZIONE DEI CRISTIANI

Non è stata casuale, va sottolineato subito, la scelta di privilegiare nuovamente l’emisfero australe, quale sede per gli eventi del CEC. Sempre più evidente, infatti, appare oggi la delocalizzazione del cristianesimo, che ormai non è più eurocentrico ma sta veleggiando a rapide falcate verso il sud del pianeta, .portandosi dietro una serie di conseguenze su cui di solito non si riflette abbastanza. A proposito di tale cambio di rotta è di prassi rimandare ad un libro dello storico delle religioni Philip Jenkins, La terza chiesa (Fazi 2004), secondo cui staremmo attraversando un momento di trasformazione profonda nella storia delle religioni, un cambiamento silenzioso che il cristianesimo ha conosciuto già nel secolo scorso, col suo centro di gravità spostatosi decisamente -appunto - verso il meridione (Africa, America Latina, Asia). Si tratterebbe,. in realtà, di una tendenza destinata a farsi più visibile, e di molto, nei prossimi decenni: col cristianesimo che dovrebbe godere di un autentico boom mondiale, anche se la grande maggioranza delle comunità non sarà bianca, né europea, né euroamericana. Anzi, sulla base delle proiezioni statistiche attualmente disponibili, nel 2050 solo un quinto dei tre miliardi di cristiani (delle diverse confessioni, peraltro sempre più omologate) sarà costituito da bianchi non-ispanici: eppure, attualmente, le chiese del sud permangono pressoché invisibili agli osservatori del nord, mentre lo stesso Samuel P. Huntington, nel suo best-seller Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, che ha appunto fondato nella vulgata corrente la teoria dello “scontro fra le civiltà”, si riferisce comunemente al cristianesimo occidentale come se non potessero essercene altri. Al contrario, il fatto di considerare il cristianesimo come una realtà globale potrebbe aiutarci a leggerlo in una prospettiva radicalmente nuova, che ci lascerà stupiti anche se risulterà, verosimilmente, piuttosto scomoda: si potrebbe anzi dire che sarà come se si stesse vedendo di nuovo il cristianesimo per la prima volta.

Ecco dunque il variopinto scenario cristiano che si era dato appuntamento a Porto Alegre per il IX raduno del CEC, sotto il titolo Dio, nella tua grazia, trasforma il mondo, dal 14 al 23 febbraio. Un titolo denso, formulato in forma d’invocazione per aiutare a non dimenticare, in ogni momento, che solo il Signore può rinnovare e dare compimento al mondo, secondo la logica del suo Regno, della misericordia, dell’amore gratuito. Oltre quattromila partecipanti stipati nell’enorme università cattolica, fra delegati ufficiali (700), iscritti ai multirão (veri e propri gruppi di discussione e di scambio), ospiti, staff e steward, erano confluiti nella capitale del Rio Grande do Sul, 1.400.000 abitanti e una consolidata fama di buon governo e di sperimentazioni sociali che l’hanno condotta - negli ultimi anni - a ospitare a più riprese alcuni dei principali eventi del Forum sociale mondiale.

Le persone, convenute da ogni parte del globo, provenivano da vissuti di fede cristiana diversissimi, talora con serie difficoltà e rischi di persecuzioni. Un aspetto di novità, fra i parecchi registrati nell’occasione, è stata la presenza di una delegazione della chiesa cattolica, che pure non fa parte ufficialmente del CEC, composta di diciotto membri e guidata dal cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani. Kasper ha letto, durante la seduta inaugurale dell’Assemblea, un messaggio di Benedetto XVI che, fra l’altro, recitava: «memori della comune fede battesimale nel Dio uno e trino, la chiesa cattolica e il CEC cercano modi per cooperare sempre più efficacemente nel compito di testimoniare l’amore divino di Dio». Dopo aver ricordato i quarant’anni di collaborazione fruttuosa che legano la chiesa cattolica al CEC, papa Ratzinger concludeva assicurando la sua vicinanza spirituale e riaffermando l’intenzione a continuare una solida partnership col CEC nel suo importante contributo al movimento ecumenico. Un messaggio che lascia ben sperare i più ottimisti, che da tempo si augurano arrivi il giorno di una presenza cattolica a pieno titolo nel CEC...

CULTURA NUOVA E CONCETTI INEDITI

Molte le aspettative che l’Assemblea (che veniva dopo una lunga fase di conflittualità interna, in particolare fra le componenti protestante ed ortodossa) aveva alimentato, in una fase storica contrassegnata da un robusto - pur se controverso - protagonismo delle compagini religiose sulla scena planetaria, dopo diverse stagioni di oscuramento e di scarso rilievo pubblico. E il programma dei lavori, estremamente fitto, rappresentava un segnale evidente in quella direzione: in evidenza, soprattutto, il ruolo delle chiese di fronte alla sfida della pace, tra il perdurante conflitto in Iraq e la guerra al terrorismo; al cammino di solidarietà col continente africano; alle questioni sociali ed etiche che vedono le chiese stesse ancora su posizioni differenti; alla partecipazione, necessaria quanto problematica. delle giovani generazioni. «Spero - aveva confidato al riguardo il pastore Samuel Kobia, neosegretario generale del CEC - che questa Assemblea, la prima del XXI secolo, segni l’inizio di un’era nuova nella ricerca dell’unità dei cristiani e dia al movimento ecumenico moderno la visione di una cultura nuova e concetti inediti».

La discussione, in effetti, non è certo mancata, e tanti sono stati gli interventi, talvolta di assoluto rilievo. Fra gli altri, quello - decisamente appassionato - dell’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, Nobel per la pace, che ha ricordato quanto abbiano contribuito le chiese aderenti al CEC alla sconfitta dell’apartheid in Sud Africa: «Oggi - ha concluso - le chiese sono chiamate a testimoniare il messaggio di liberazione di Gesù Cristo in un mondo che conosce nuovi conflitti, nuove prepotenze e nuove povertà: per questo l’unità dei cristiani non è un optional!».

Mentre il rev. Leonid Kishkovsky, della chiesa ortodossa USA, portavoce di una delegazione di personalità del suo paese che ha reso noto un documento in cui «confessa il proprio peccato per non essere riuscita a levare alta una voce profetica e insistente tale da indurre i nostri leader ad abbandonare il sentiero della guerra preventiva», ha detto: «Vogliamo si sappia che c’è una battaglia morale in corso e, in realtà, la maggioranza degli americani non appoggia la guerra».

Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury e primate della chiesa anglicana, è dal canto suo intervenuto sul tema delle persecuzioni dei cristiani in varie aree dell’Africa e dell’Asia, ovviamente deplorandole, ma invitando anche le chiese cristiane a rinunciare tanto al trionfalismo secondo cui «esse sole possiedono la verità» quanto al relativismo per cui «ogni fede è come le altre».

Moltissimi, poi, gli intervenuti a proposito dell’urgenza assoluta di investire di più sul dialogo interreligioso, che si annuncia sin d’ora come una delle priorità di lavoro del CEC per i prossimi tempi. Mentre non è mancata la denuncia delle pesanti divisioni tuttora perduranti: come la mattina del terz’ultimo giorno, quando, come segno nella preghiera mattutina, insieme alla Bibbia è stato portato in processione un grande calice di cristallo vuoto, in seguito ricoperto con un velo di tessuto leggero che ne impediva la vista. Sacramento doloroso dell’impossibilità di partecipare assieme all’eucaristia, contraddizione tanto più lampante situandosi nel momento più rivelativo della chiesa che è appunto la celebrazione eucaristica.

LA SPIRITUALITÀ E I GIOVANI

Due prospettive innovative, in particolare, hanno caratterizzato l’appuntamento di Porto Alegre rispetto ai precedenti. La prima ha riguardato una voluta attenzione alla spiritualità («vogliamo che sia un’assemblea orante», si è raccomandato da subito il presidente Aram I), in linea del resto con gli ultimi grandi appuntamenti ecumenici, da Graz ‘97, seconda Assemblea congiunta CCEE-KEK, a Strasburgo 2001, proclamazione della Charta Oecumenica.Tale scelta ha portato a curare in modo particolare i momenti di preghiera comune, mattina e sera e i gruppi biblici di dialogo fra i delegati.

Nella testimonianza di Serena Noceti, ecclesiologa fiorentina presente in loco, significativa appare una sottolineatura sulle liturgie: «i canti-danzati con tamburi, copti ed etiopici, che contrassegnavano la preghiera del mattino ci hanno condotto alla stessa dignità di identità, con la ricchezza di una tradizione secolare che arrivava a noi in terra brasiliana. L’Assemblea era come un mondo concentrato, dove le meraviglie di culture secolari, che vengono da luoghi diversi e lontani tra loro, e di espressioni maturate nell’oggi di questa storia s’incontravano e si concentravano tutte in quel km quadrato. E soprattutto nella preghiera non c’era senso di folklore né di raccolta forzata di elementi diversi».

La seconda prospettiva è stata l’opzione di privilegiare i più giovani, per garantire futuro e novità al cammino ecumenico. Così, i giovani avevano la precedenza sugli adulti in parecchie attività (ad esempio, se c’era poco tempo per il dibattito, prima avevano la parola gli under 30 e solo dopo, eventualmente, gli altri; i giovani anche se non delegati potevano partecipare a ogni attività, e così via); svariate chiese hanno inviato delegati giovani; c’erano diversi gruppi di approfondimento e una ecumenical conversation sul tema; erano previsti due o tre giovani in tutte le commissioni (da quella sulle finanze a quella per le nomine, fino a quella sul programma futuro del CEC).

UN PUNTO DI PARTENZA

Alla trasformazione auspicata da parte di Dio è stato dedicato anche il messaggio conclusivo dell’Assemblea. approvato il 23 febbraio, con cui si invitano le chiese e il mondo a unirsi - appunto - nella preghiera per la trasformazione. Il documento, che si chiude con una lunga invocazione, mette al centro il cambiamento dei cuori attraverso la fede, facendo peraltro riferimento ai tanti interrogativi posti dal tempo odierno: «i rapporti e le decisioni dell’Assemblea - vi si legge - lanciano alle chiese e al mondo delle sfide specifiche, invitando ad agire su temi quali l’unità dei cristiani, l’appello a rinnovare il nostro impegno a metà strada del Decennio per sconfiggere la violenza (2001-2010), il discernimento delle voci profetiche e degli strumenti programmatici tesi a realizzare una giustizia economica globale, l’impegno nel dialogo interreligioso, la piena partecipazione inter-generazionale di tutti, uomini e donne». Il nuovo comitato centrale del CEC registra la presenza di 63 donne (su 150 membri in totale), e 22 under 30; sono stati eletti anche otto nuovi presidenti, uno per ogni area geografica, il cui ruolo sarà di promuovere l’ecumenismo e dare seguito al lavoro di qui effettuato nelle proprie regioni.

Tutto bene, dunque? A giudicare dallo scarsissimo rilievo di cui ha goduto l’avvenimento sui mass media italiani, varrebbe la pena di chiedersi il motivo di tale disinteresse verso temi e problemi su cui verosimilmente si giocherà buona parte del nostro futuro... Sarà possibile affermare che è andata bene, in ogni caso, solo se Porto Alegre rappresenterà un punto di partenza, e non di arrivo, per un pianeta ansimante che ha un forte bisogno di vedere realizzati progetti di pace, accoglienza, giustizia, da parte delle comunità cristiane. Di solidarietà per una sofferenza così diffusa da apparire, non di rado, invincibile. Di apertura alle ragioni dell’altro, alle sue perplessità, alle sue sensibilità diverse quanto legittime. Il cammino è lungo, difficile, faticoso: ma non impossibile se sapremo far spazio a quel Dio che, nella sua grazia, è capace di trasformare il mondo.

(da Testimoni, 2006)

Ma c'è una risposta
al mistero del soffrire?
di Giannino Piana



Al male fisico si accompagna spesso - oggi soprattutto - il male morale: l’esperienza della solitudine, dell’abbandono, della mancanza di significato. Anche per questa situazione-limite la Scrittura ha una proposta di consolazione: è paradossalmente la croce che aiuta a riscoprire la speranza.


Dinanzi al “mistero” della sofferenza umana l’atteggiamento che sulle prime appare più corretto è quello del silenzio. E’ infatti estremamente difficile parlare di un’esperienza che è, di sua natura, incomunicabile e che si presenta con caratteri di estrema complessità. Diverse sono le forme sotto le quali essa si manifesta - da quella fisica e psicologica fino a quella sociale e morale -e diversi i gradi di intensità che possono caratterizzarla. Molto spesso, poi, ulteriori complicazioni nascono dal naturale assommarsi di fattori apparentemente lontani e non immediatamente omologabili. Così la malattia ingenera - specialmente nella nostra società, caratterizzata dal sistema della ospedalizzazione - uno stato di isolamento e di emarginazione, persino di ghettizzazione, che è causa di profonde frustrazioni psicologiche. Al dolore fisico si accompagna la sensazione di inutilità e di abbandono, di incomunicabilità e di solitudine: sensazione che produce sentimenti di impotenza e di disperazione.

Nell’A.T. la spiegazione è anzitutto ricercata nel mistero del peccato di origine. Malattia, dolore e morte sono la conseguenza della rottura del rapporto dell’uomo con Dio: rottura che ha provocato l’insorgenza di profonde conflittualità nelle relazioni umane e nella stessa relazione con il cosmo. Il male esistente nel mondo, sia a livello individuale che collettivo, viene in tal modo ricondotto alla libera scelta dell’uomo, al desiderio di onnipotenza, che ha, di fatto, ingenerato uno status di radicale alienazione. I libri sapienziali costituiscono il momento più alto di elaborazione di questa teologia. In essi ordine fisico e ordine morale sono ricondotti alla stessa sorgente: la sapienza da cui tutto proviene. L’infrazione dell’ordine morale produce, di conseguenza, profondi squilibri nell’ordine fisico, quali carenze di beni materiali, malattia e morte. La crisi di questa interpretazione coincide con l’emergere della tematica del giusto sofferente, di cui il libro di Giobbe rappresenta il caso emblematico. Si fa così strada la convinzione dell’irriducibilità del male al peccato personale e l’esigenza di guardare con occhi diversi il mistero della sofferenza. L’atteggiamento del N.T. è più articolato. La liberazione portata da Gesù è insieme liberazione dal peccato e dal male. I miracoli sono anzitutto volti a sanare gravi malattie fisiche ma l’obiettivo ultimo verso cui tendono è la crescita della fede e il cambiamento della vita. Il nesso peccato-sofferenza appare meno rigido e meno personalizzato: la menomazione fisica, lungi dall’essere considerata come il frutto di una condizione di peccato, si trasforma in occasione per la manifestazione delle opere di Dio: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ora è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9,3).

Lotta e accettazione

Il mistero della sofferenza umana riceve, tuttavia, la sua pienezza di senso nel contesto del mistero della croce. Anche Gesù reagisce di fronte all’assurdità del dolore, accettandolo soltanto per un atto di obbedienza incondizionata alla volontà del Padre: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! » (Mt 26,39). La morte rimane anche per lui un’esperienza di radicale solitudine, nella quale egli tocca l’abisso del silenzio di Dio: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mt 27,46). Sofferenza e morte rimangono realtà tragiche e umanamente incomprensibili anche per chi si sforza di leggerle nel quadro del progetto divino. Ma la croce, nella sua paradossalità, riscatta anche la negatività dell’esperienza umana. L’atto del supremo fallimento si trasforma in momento di apertura alla vera vita. La speranza cristiana fiorisce ai piedi della croce, in quanto in essa si manifesta l’amore di Dio, il suo totale essere-per-gli-altri. La legge del morire, che è la dura legge della vita, diventa programma di esistenza per il credente: «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà » (Mt 10.39). La sofferenza comporta dunque da parte dell’uomo l’assunzione di un atteggiamento dialettico di lotta e di accettazione. Essa deve essere, in primo luogo, combattuta come male che aliena l’uomo ma deve, nello stesso tempo, venire colta nel suo valore redentivo e inserita nel contesto della logica della croce. Lo scacco e la perdita di sé nel segno dell’amore gratuito e totale è, infatti, sorgente di vita nuova per chi crede nella promessa del regno.

Dinanzi alla tragedia di chi soffre, la parola deve lasciare il posto alla condivisione discreta e all’umile partecipazione. Ciascuno è, infatti, solo nel dolore e vive un’esperienza mai totalmente comunicabile. Il che lascia, tuttavia, intatta la possibilità che l’amicizia e l’amore vengano avvertiti come valori, che danno sapore all’esistenza e restituiscono il coraggio di guardare avanti. Tutto dipende dal modo con cui vengono offerti, dalla capacità cioè che si ha di manifestare con semplicità la propria vicinanza, senza la presunzione di identificarsi con l’altro e tanto meno di voler giustificare l’ingiustificabile.

Ma questo sarebbe insufficiente se non si accompagnasse ad uno sforzo generoso di debellare la malattia e il dolore, mettendo in atto le diverse potenzialità che la scienza e la tecnologia garantiscono e stimolando la ricerca a trovare nuove strade. Né va trascurato l’annoso problema delle strutture sanitarie, che devono essere sempre più concepite e realizzate come strutture di servizio alla crescita umana.

Un capitolo ancora più importante è, infine, quello della creazione di una cultura che restituisca a colui che soffre il senso dell’utilità della propria testimonianza. Si tratta di superare al riguardo la logica, purtroppo ancora largamente dominante nella nostra società, che privilegia criteri di efficienza e di produttività nella valutazione del significato della vita ed emargina, di conseguenza, chi non rientra in questi parametri di giudizio.

Solo a queste condizioni l’annuncio del mistero della croce, che è il cuore del messaggio evangelico, può ridiventare credibile e risuscitare nell’uomo una speranza, che va oltre ogni attesa umana.

La vita eterna è un perenne cominciare nell’amore, è l’esperienza di un Dio che è inesauribilmente Colui che inizia ad amare...

Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:45

Ietro e la nube divina (Giovanni Giavini)

Una rilettura di un personaggio biblico anomalo
Ietro e la nube divina
di Giovanni Giavini


Dietro alcune immagini bibliche, quali la gloria o la nube, ci possono essere persone concrete che rendono visibile la presenza e l’opera di Dio nel mondo. Un’ipotesi sul suocero di Mosè.

Domanda provocatoria: la nube della presenza di Dio nel cammino dal Sinai alla Terra promessa non era altro che il suocero di Mosè e un suo figlio? Donde mi sorge una domanda che può sembrare addirittura eretica e blasfema? Occorre qualche premessa. Gente come i Testimoni di Geova dicono: «Sta scritto così, quindi è vero così e non si discute». Un minimo di dimestichezza con la Bibbia e con la “Dei verbum” del Vaticano II permette, anzi obbliga, a non essere così semplicisti. E’ necessario infatti tener conto, almeno, dei generi letterari e del cammino redazionale che sta dietro una frase, una pagina, un libro.

Il libro, dell’Esodo, ad esempio, ha alle sue spalle una lunga storia redazionale (forse di 800 anni!), parte da alcuni fatti antichi, riletti in seguito sotto diversi punti di vista e con diversi generi letterari: narrazione storica, tradizioni tribali, varie raccolte di leggi, pagine di chiaro intento epico-celebrativo o/e didattico-catechistico per ebrei bisognosi di nutrimento per la loro fede e per la loro vita. Questo intento vale specialmente per tutta la mirabile struttura del libro, incentrata sull’alleanza al Sinai (cc. 19-24).

Da Ietro alla nube della presenza

A leggere le pagine dell’Esodo sulle piaghe d’Egitto e sul passaggio del Mar dei Giunchi (o Rosso) si dovrebbe dire che l’Egitto era scomparso completamente, tutto annegato nell’acqua! Verità storica o rilettura e amplificazione epica? E il passaggio del mare? Avvenne quasi come lode- scrisse Cècil de Mille nel suo famoso film (un po’ hollywoodiano) “I dieci comandamenti” e in tanta iconografia fantasmagorica? Leggi il salmo 77(76),14-21 e t’accorgi che quella sorprendente e inaspettata liberazione da morte fu favorita da un tenebroso temporale, nubi basse, vento, fuoco di fulmini, pioggia con susseguente pantano micidiale per i carri del divino faraone, terremoto e susseguente maremoto con riemersione di un guado; e il salmo dice che Dio non si vide, benché presente e operante!

Rileggi il racconto di Es 14 sul passaggio in mezzo al mare e scorgi la somiglianza con il Salmo, benché il tono e il genere letterario del racconto, alquanto complesso e non ben coerente in se stesso, siano un po’ diversi; idem rileggendo il cantico, assai poetico e mirabilmente fantasioso di Mosè nel c. 15 (ma nelle quinte stava la... fantasia di Myriam e di un coro di donne esultanti).

Mi piace ricordare anche che le prime persone a scardinare le mire del prepotente faraone non furono né Dio né angeli (almeno direttamente) ma alcune donne: le levatrici, la sorella e la madre di Mosè, la figlia stessa del re, che va a fare un bagno e salva quel bambino; che poi lei fa istruire a corte (cf. At 7,22) e rende edotto con lo studio della storia, della geografia, dell’astronomia, della lingua e della religione egizia (Amenophis IV non aveva già tentato una riforma monoteistica poi fallita? E non c’erano già leggi e scritti sapienziali? E il culto faraonico dei morti? E le immagini in onore di dei e dee e del divino faraone, con la celebrazione epica delle loro imprese?).

Di che cosa e di chi Dio si serve per compiere i suoi disegni? Per caso non s’è servito anche di Ietro? Oltre tutto costui era un sacerdote nel territorio (imprecisabile) di Madian: sacerdote di quale dio? Di un dio di quella regione - come qualche archeologo ritiene -identificato poi con YHWH? Era anche un saggio?

letro il saggio

Certamente così è presentato nell’Esodo questo straniero, chiamato a volte Ietro a volte Reuel. Già egli dimostra saggezza nel disporre il matrimonio della figlia Zippora (o Seffora) con quel bravo e generoso fuoruscito dall’Egitto, diventandone appunto suocero e servendosene per il gregge (Es 2,16ss); saggiamente riconosce la vocazione di Mosè da parte di Dio e lo rimanda in Egitto in pace, sia pure con moglie e figli, da cui però Mosè si distaccherà (4,18ss); sapientemente riconosce, sulla base della storia e sulla fede del genero che, il vero Dio era con Mosè e con Israele,. e Ietro entra in alleanza con loro mediante un bel banchetto (Es 18,1-12); da saggio esperto di vita sociale consiglierà al genero di organizzare la giustizia e l’amministrazione del popolo sulla base di buon senso e di “leggi e decreti di Dio” (18,13-26; leggi e decreti dunque già prima della rivelazione della legge al Sinai, di cui ai cc. 19-24).

Poi Ietro-Reuel viene congedato da Mosè (18,27): davvero? O è una notizia redazionale per dire che da allora la guida di Israele sarà solo (o principalmente) YHWH? Certamente Ietro, da esperto di quei luoghi, avrà parlato dei sentieri, delle oasi, delle sorgenti d’acqua, della manna e delle quaglie, dai nemici da evitare o da combattere… rinfrescando e arricchendo la memoria di quel giovane già istruito alla corte del faraone. E forse, pur congedandosi, quel simpatico vecchio ha lasciato con Mosè un proprio figlio esperto anche lui di quei luoghi?

Con il c. 19 Ietro scompare e riprende il posto di guida la nube infuocata e luminosa della “gloria” di Dio, cioè della sua presenza, che “copre con la sua ombra” la tenda-tabernacolo (40,36-38 letto con la traduzione greca dei famosi “Settanta”: questa gloria segna le tappe per il popolo e lo conduce mirabilmente - almeno sembrerebbe a prima lettura - per le piste, le oasi, le sorgenti e tra le popolazioni già residenti in quei luoghi e a volte nemiche dei nuovi arrivati (la storia si ripete oggi!).

Ma ecco la sorpresa: al c. 10,29-32 del libro dei Numeri leggiamo che Mosè supplica con insistenza e grandi promesse Obab, figlio di Reuel suo suocero, perché non lo abbandoni: «Non ci lasciare, poiché tu conosci i luoghi dove ci accamperemo nel deserto e sarai per noi come gli occhi»! Ma come? Non avevano gli occhi della nube della gloria di YEWH che li guidava costantemente?

La gloria di Dio... e noi

Di qui l’ipotesi che mi spunta nella mente e sulla penna: la famosa nube infuocata e luminosa era certamente simbolo della presenza provvidente ma inafferrabile di Dio per il suo popolo in cammino, inafferrabile appunto come la nebbia e il fuoco, cui spesso si aggiungeva il vento; assieme essi provocano l’uragano, realtà tremenda, turbinosa, sfuggente, ma spesso anche benefica! Quella nube allora - ed ecco l’ipotesi, solo una mia ipotesi -, non era altro che un simbolo letterario, didattico, catechistico di quella presenza e dei vari suoi segni. Tra quei segni si possono e si devono collocare anche le levatrici e la figlia del faraone, gli scribi maestri del bimbo adottato, Mosè stesso e il fratello Aronne, altri-personaggi ed eventi provvidenziali come il passaggio nel mare; ma in particolare proprio Ietro-Reuel e il figlio Obab.

Niente proibisce di pensare anche a qualche evento straordinario di presenza divina (ovvero a qualche “teofania” vera e propria benché sempre da precisare); ma normalmente Dio agì mediante cause seconde, benché i generi letterari cui ricorsero gli antichi narratori e più ancora i più recenti redattori preferirono mettere in diretto risalto la gloria del Dio di Israele, Le cause seconde finirono travolte dall’uragano - letterario, simbolico - della gloria di YHWH, ma non del tutto: qualche segno della loro presenza, secondaria ma pur preziosa, rimase anche nei testi sacri (sopra descritti).

Con quella sottolineatura della gloria divina gli agiografi volevano certamente celebrare - anche epicamente, quindi con un po’ di trionfalismo - il rapporto speciale di elezione e alleanza tra il vero Dio e Israele; volevano anche rimarcare le novità della fede ebraica rispetto a quella egiziana e alle altre, dalle quali essa pure attinse elementi (basti pensare alle somiglianze con la riforma di Amenophis IV, con certe leggi egiziane o dell’antica Mesopotamia, con canti d’amore o con pagine sapienziali o di preghiera di quelle culture, ecc.; ma anche alle novità rispetto al concetto concreto di Dio, al rifiuto dell’idea faraonica del re, allo stretto legame tra culto e vita sociale, all’assenza del culto dei morti, alla relativizzazione del tempio a favore di quello del cuore di ognuno, ecc.).

Nello stesso tempo gli agiografi ebrei istruivano e lanciavano messaggi molto forti alla loro gente spesso priva di memoria, e la tenevano aperta e vigilante nell’attesa della nuova “gloria” di Dio, della sua futura presenza: quella che avrebbe coperto con la sua gloria” il grembo di una povera vergine di Nazaret, e più ancora quella che avrebbe posto ‘la sua tenda” in una “carne” fragile e crocifissa come quella dell’ebreo Figlio unigenito di Dio (cf. Lc 1,35; Gv 1,14).

Salvando sempre le debite analogie, genitori, insegnanti (di religione innanzitutto), pastori d’anime, educatori di ogni genere non appaiono anch’essi come un segno portatore della gloria di Dio? Come il vecchio e simpatico saggio suocero di Mosè o come suo figlio Obab: guide per un cammino.

(da Settimana, settembre 2006)

Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:33

Lasciarsi trovare dal Padre (Henri J.M. Nouwen)

Non sarebbe bello, non sarebbe meraviglioso “aumentare”
la gioia del Padre lasciandomi trovare e riportare a casa da Lui?

Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:27

Senza preghiera la fede muore (a cura di A. D.)

Spesso anche nella Chiesa si è posto l’accento sulle cose da fare anziché sulla persona di Cristo, trasformando la fede in etica anziché in mistica.

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