A partire dalla presidenza di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher in Gran Bretagna, si è andata imponendo una versione estrema del capitalismo - nota come neoliberismo - che poi, con la caduta del Muro di Berlino, ha assunto un incontrastato dominio in tutto il mondo, con i danni umani, sociali e ambientali che sono sotto gli occhi di tutti ed in continuo crescendo. Come mai il magistero sociale della Chiesa non vi ha opposto una resistenza strenua come quella attuata, per esempio, in difesa della vita in embrione?
Non credo che la visione di Reagan e della Thatcher andasse oltre quella della propria nazione: si trattava per loro - io credo - di rifiutare la concezione del welfare state. Ciò implicava cose diverse. Negli USA si doveva mettere da parte definitivamente la tendenza sorta col New Deal, e sostenuta in varie forme e intensità dai democratici e dalla successione dei presidenti Truman, Kennedy, Johnson, Carter. Sul piano tecnico vi fu il rifiuto della dottrina post-keynesiana; ma io credo che questo derivasse dalla battaglia del mondo finanziario per ritrovare un pieno controllo di tutta l'attività politica. Occorreva in special modo superare la bruciante sconfitta e il fallimento clamoroso del 'militare', rovinoso soprattutto per le grandi corporations coinvolte nella progettazione e produzione di sistemi di arma. In Europa invece sul piano della scienza economica nessuno, o ben pochi, hanno sostenuto il neoliberismo, specialmente nel mondo accademico anglosassone. Ma anche in Italia: basti pensare ai nomi di Vito (dell'Università cattolica), lo stesso Fanfani, Napoleoni, Sraffa e tanti altri (e sul piano pratico-politico Mattei, La Pira, Moro, e oggi quasi tutte le associazioni cattoliche come Caritas, Acli, Scouts, Pax Cliristi, Abele, Istituti missionari etc.).
In Europa vi è sempre stata dal XIX secolo una forte tradizione di Stato sociale, con matrici diverse ma convergenti: una tradizione cattolica, socialista utopistica, socialcomunista, tradeunionista, che è emersa chiaramente nelle Costituzioni europee del dopo-guerra e in modo speciale in quella italiana (i diritti di libertà collegati con gli inderogabili doveri di solidarietà). Berlusconi ha dichiarato la sua battaglia contro il comunismo e ha definito la nostra Costituzione 'troppo sovietica'. In realtà non vi è nessun comunismo da sconfiggere, ma solo uno Stato sociale da demonizzare. Lo scopo vero è sia il proprio interesse personale, sia il modello USA da imporre: di qui l'estrema importanza del controllo quasi totale dei media (e della pubblicità che li sostiene).
Ma in tempo di inarrestabile globalizzazione di tutte le fondamentali strutture economiche il neoliberismo ha ormai chiaramente mostrato la propria incapacità di essere strumento di autoregolazione della vita economica della famiglia umana (nè il liberismo ha mai preteso di esserlo). Sono ben pochi gli economisti che lo sostengano ancora, sia in Europa che in USA: per un povero Michael Novak, esponente conservatore cattolico americano molto amato da CL e molto citato da 'Avvenire', è necessario aggrapparsi a teorie ormai vecchie (von Hayek, per esempio) e inapplicabili alla realtà economico-finanziaria globale emersa negli ultimi 20 anni. Oggi gran parte degli studiosi di economia americani e europei hanno compreso tale inapplicabilità: si pensi a nomi come Galbraith, Sen, Tobin, Robinson, Zamagni, Soms e tanti altri.
Parlare di Magistero sociale è difficile. Le encicliche sociali sono tutte, per principio, 'datate' (cioè rispondono a un problema emergente). Sono troppo lunghe e diluite, così che si trovano spunti molto belli mescolati a ripetizioni inutili di testi passati: soffrono in genere di autoreferenzialità, e questo forse spiega l’incapacità di affrontare drammi sociali nuovi con la necessaria energia. Molto più energici e lucidi sono alcuni discorsi pontifici, specialmente quelli più recenti: penso a quelli sulla guerra e al bellissimo recente discorso al Corpo Diplomatico. Ma essi difficilmente sono classificabili come magistero in senso stretto. Vi sono poi dichiarazioni e note varie delle Congregazioni, che hanno un valore non precisamente magisteriale, e che sono in genere inadeguate. A mio modo di vedere - ma posso sbagliarmi - mancano al Magistero sociale e alle sue forme derivate tre cose essenziali:
- un profondo radicamento evangelico e teologico: la teologia grandiosa della Gaudium et spes è praticamente ignorata. "Genus humanum eiusque historia" deve essere la preoccupazione fondamentale della Chiesa di fronte al mondo.
- una profonda conoscenza e comprensione, sul piano teorico come su quello geopolitico, di quello che sta succedendo nel mondo. Il Concilio (GS 46) intende studiare i più gravi problemi del nostro tempo "sub luce Evangelii atque humanae experientiae". La Parola che non passa deve essere annunciata in una realtà storica che passa, e passa oggi con velocità straordinaria, e che oggi è perfettamente conoscibile istante per istante, in qualunque punto del pianeta. La gravità morale dell'aborto è fuori discussione: ma come non proclamare contestualmente la gravità morale del fatto che in Africa il 10% (e oltre) dei neonati muoiono di stenti, di acqua non potabile, di assenza totale di strutture sanitarie, nel primo anno di vita? E non è questa umana esperienza?
- La Chiesa prclamò solennemente la sua scelta per i poveri a Medellin e Puebla, seguendo le precise indicazioni della Gaudium et spes e della Populorum progressio. Conoscere la tragica realtà della condizione della famiglia umana e interpretarne le cause profonde, al di là delle semplicistiche accuse agli stessi poveri, sia ai loro governi sia alla pretesa incapacità o indolenza di un popolo: questo è quanto oggi si chiede al Magistero in tutte le sue formulazioni. La Chiesa oggi deve sapersi schierare con decisione, a ogni livello e ogni istanza istituzionale, sia centrale che locale, sia ufficiale che ufficiosa.
Vi sono però altri problemi, che io direi di politica ecclesiastica. La Santa Sede ha un interesse perfettamente giustificato a mantenere buoni rapporti coi governi, per non mettere a rischio gli spazi di libertà necessari all'annuncio evangelico. Ma i nunzi, che di fatto mantengono tali rapporti, si spingono spesso molto oltre. Se venissero dichiarati persona non grata dovrebbero essere richiamati: loro perderebbero il posto e la S. Sede la benevolenza dei governanti. Esempi recenti in America latina sono ben noti. Lo stesso in alcuni casi vale per le conferenze episcopali: mons. Romero fu lasciato solo a denunciare l'attività dell'ala militare 'dura' del governo salvadoregno. E fu ammazzato, nel silenzio assoluto dei confratelli vescovi. Il Santo Padre si limitò a definirlo 'un pastore zelante'. Poi fu trucidata un'intera facoltà teologica (inservienti compresi) con lo stesso risultato: il silenzio.
Altro problema di politica ecclesiastica è la paura del comunismo, o di fare il gioco dei comunisti. Non importa che in America Latina i buoni difensori dell'anticomunismo abbiano ammazzato vescovi, preti, catechisti a centinaia. Le indicazioni di Medellin e di Puebla sono stati così tranquillamente ignorate. In questi ultimi tempi è stato ucciso il vescovo del Guatemala, dagli stessi mandanti e con gli stessi motivi del martirio di Romero. Ma in Italia il presidente Berlusconi imposta la sua campagna sulla lotta al comunismo, sperando così - e purtroppo non irragionevolmente - di catturare il voto cattolico.
Di fronte a questo tipo di problemi vi è una sola risposta: non si avvantaggia il Vangelo tradendo il Vangelo. Ho l'impressione che la Chiesa, a tutti i livelli, miri più a difendere se stessa che a annunciare il Vangelo. Gli ultimi discorsi pontifici e i recenti messaggi della Santa Sede all'Onu hanno però aperto nuovi orizzonti e nuovi spazi, che dovrebbero essere perseguiti con energia e maggior decisione da episcopati e Chiese locali.
Vi è dunque un ampio spettro di ragioni per le quali l'annuncio sociale cristiano ufficiale, sia a livello centrale che periferico, non è stato fino ad ora né strenuo nè - direi - genuinamente cristiano.
Ci sembra che la Dottrina sociale della Chiesa non vada oltre la proposta di armonizzazioni tra popoli ricchi e popoli poveri, di ammortizzatori sociali e di correttivi morali all'ordine economico imperante. Partendo dall'ispirazione evangelica, il magistero sociale può restare all'interno del sistema capitalistico o deve operare per il suo superamento? E, sempre partendo da quella ispirazione evangelica, quale via "altra" il magistero della Chiesa dovrebbe prospettare?
La risposta è già sostanzialmente data nel quesito precedente. Occorrono però due considerazioni. Parlare di Dottrina sociale della Chiesa, a cui tutti oggi si richiamano, ha scarso significato: non esiste un prontuario fisso. I principii esposti nella Rerum novarum furono ampiamente rivisti (e in parte contraddetti) già dalla Quadragesimo anno; una impostazione radicalmente diversa si ebbe con la Pacem in terris e poi con la Populorum progressio. Papi diversi, estensori diversi, epoche diverse: tutto questo si ripercuote sulle encicliche dell'attuale pontificato. Io credo che una vera dottrina della chiesa in materia sociale, fondata sul Vangelo e sulla teologia, si trovi solo nella Gaudium et spes, e cioè in un documento magisteriale di un Concilio Ecumenico, da cui la Chiesa non può tornare indietro, e che indica le linee maestre sulle quali si può e si deve andare avanti.
L'attuale sistema capitalistico è per principio incompatibile con l'annuncio cristiano. Dice la GS: occorre rendere più umana la vita di ogni essere umano ovunque sulla faccia della terra (n. 77). E questo è materialmente impossibile con la logica che presiede oggi al movimento e all'uso dei capitali disponibili. Armonizzazioni, ammortizzatori, correttivi sono operazioni fantasiose e impraticabili. Servono solo ad addormentare la coscienza di chi in questo sistema si trova bene. Oggi quasi tutto il capitale disponibile è concentrato in poche mani private (non tanto di singoli o di singole imprese, ma di finanziarie che gestiscono quasi tutto il denaro comunque raccolto in tutto il mondo): esse muovono e allocano il capitale sempre e inevitabilmente in direzione della massimizzazione del profitto privato. Parlare del lavoro a servizio dell'uomo oggi fa ridere: il lavoro è regolato dal principio della massimizzazione del profitto. Licenziare, ridurre al minimo i salari, spremere il lavoratore fino a livelli disumanizzanti, usare lavoro minorile, sono strumenti normali e ineludibili per massimizzare il profitto privato. Produrre di più e meglio per il bene di tutti (era la logica del liberismo dell’800) è oggi un non-senso: si produce per chi ha soldi per comprare. Non si investe in ricerca e produzione per le tragiche malattie dei poveri (tbc e malaria), ma per spianare le rughe o il grasso dei ricchi. Non si investe in sanità e istruzione dei poveri, ma in armamenti e in avventure spaziali. Ridurre le imposte di chi sta già più che bene e inevitabilmente privatizzare servizi essenziali (scuola, sanità, trasporti) vuol dire una cosa sola, e ben chiara: aumentare le occasioni di profitto privato a spese delle necessità più urgenti dei poveri. E il discorso potrebbe durare all'infinito. In questo quadro la Chiesa ha un solo compito: stare dalla parte dei poveri, dei più deboli (nei Paesi poveri, ma anche in quelli ricchi).
Bisogna stare ben attenti: senza capitali non si produce. Parlare di sistema capitalistico è perciò ambiguo. Meglio parlare di questo sistema capitalistico. Questo deve essere combattuto apertamente dalla Chiesa come immorale e disumano, oltre che radicalmente antievangelico. Proporre alternative sul piano tecnico è un problema grosso ma non insolubile: già in Europa vi sono o stanno maturando direttive, regole e vincoli per tutti i Paesi aderenti. Più difficile è l'attuazione a livello mondiale: quasi tutti i governi sono governati da poteri economici privati, o da essi guidati o ricattati. E invece occorre una politica che guardi al bene della vera 'polis' in cui di fatto viviamo, e cioè la famiglia umana, e non primariamente all'interesse di singoli Stati o dei poteri economici ad essi collegati. Tutti siamo responsabili di tutti. Questo la Chiesa (tutte le Chiese cristiane all'unisono) dovrebbero dire con estrema chiarezza. Tutte le Chiese (e gli episcopati) locali devono dirlo per i loro problemi: Romero è stato ammazzato per questo. Ma ormai è chiaro che nessun problema locale può trovare vera soluzione senza una trasformazione globale, perché globale è tutto il sistema economico e globali le agenzie di controllo su di esso a fini privati. La globalità del sistema è un dato ormai irreversibile, e anzi potenzialmente necessario per l'umanizzazione della famiglia umana: non è invece affatto irreversibile il controllo privato. Occorreranno decenni, forse generazioni, per giungere a tale cambiamento: ma la via che la Chiesa deve indicare è inesorabilmente questa.
L'ambito tecnico non è di competenza della Chiesa, che però deve esigere lo studio del problema e delle possibili vie di soluzione: guai se la Chiesa cessasse di essere la coscienza critica del sistema vigente e si limitasse a spronare le opere - pure urgentissime - di carità o di buona volontà privata. L'opposizione all'esistente deve essere netta, inequivocabile. Troppe ambiguità, equivoci, compromessi, incomprensioni del problema si leggono nei vari documenti a ogni livello.
L'ambito politico è invece di competenza della Chiesa: in questo ambito infatti la sua primaria preoccupazione deve essere una convivenza umana e umanizzante della 'polis' umana. Qualunque scelta tecnica è inattuabile senza scelte politiche di fondo: e queste possono attuarsi solo se vi è un consenso largamente diffuso nella base dei singoli Paesi del mondo. In quest'area di impegno la Chiesa - anzi, l'unità di tutte le Chiese cristiane - deve ritenersi coinvolta in virtù della missione affidatale dal suo Signore (portare lo stesso Vangelo a tutte le genti, a tutte le creature) e deve mostrare la forza del proprio annuncio con la sola forza della testimonianza e della parola.
Talune Chiese locali (soprattutto nel Sud del mondo) denunciano le conseguenze del neoliberismo sui loro popoli. Ad esse si aggiungono comunità, gruppi e movimenti cristianamente ispirati che, da tutti gli angoli del mondo, lottano e operano contro quello stesso modello economico. Come reagisce il magistero ufficiale della Chiesa a queste istanze?
Si tratta di una realtà nuova e complessa. Accanto a molte Chiese locali (penso al sostegno aperto dell'Episcopato brasiliano alla elezione del presidente Lula) vi è una moltitudine di gruppi e movimenti cristiani (e anche non specificamente cristiani) con le più varie denominazioni e i più vari scopi (fame, ambiente, sanità, istruzione, etc.) che però hanno un doppio denominatore comune di cui la chiesa, per quanto detto poco sopra, deve tenere il massimo conto. Si tratta di gruppi con scopi diversi, ciascuno legato al proprio scopo (e spesso dimentico degli altri), ma comune a tutti è la preoccupazione per gli altri e non per se stessi (e per i movimenti ecologisti la preoccupazione per gli altri che ancora non esistono, per il futuro della famiglia umana e del cosmo). E si tratta di gruppi in cui si ritrovano insieme persone di Paesi, lingue, cultura, culture, religioni, tradizioni socio-politiche diverse: persone in cui l'affermazione della propria identità cede di fronte alle urgenze della famiglia umana. Questo doppio denominatore è Vangelo, che i singoli membri se ne accorgano o no.
Si tratta dunque di veri segni dei tempi, che lo Spirito pone per noi nel momento della storia umana che ci è affidato da Dio. Esagitazioni, smarginature, inquinamenti, quando si tratta di raduni di centomila persone, sono sempre inevitabili: ma la sostanza resta quella ora detta. Non si può parlare di 'magistero ufficiale della Chiesa' in questo campo, e le prese di posizione di buona parte delle gerarchie ecclesiastiche, ai vari livelli, guardano più al pericolo di commistioni o di inquinamenti che alla sostanza del fenomeno. Sia la Pacem in terris che la Gaudium et spes insistono invece moltissimo sulla collaborazione dei cristiani con tutti gli 'uomini di buona volontà'. È essenziale ricordare la conclusione del capitolo sulla pace della Gaudiun et spes: "Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, tutti siamo chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati da questa stessa vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace". Tale è l'essenza della dottrina sociale cristiana, e tale il nostro compito.
Enrico Chiavacci
(da Adista, 8 maggio 2004)