Una prima domanda che possiamo porci è se abbia senso parlare di solitudine. Affrontando questo argomento da un punto di vista accademico, scolastico, credo che si possano anche fare discorsi interessanti, ma che si finisca con il percepirli come vuoti, distanti, quasi inutili. Infatti in quanto esperienza umana, la comprensione della solitudine va ricondotta all’esperienza, alla nostra esperienza.
Chiederci se oggi abbia senso parlarne non è strano. Ci troviamo a vivere all’interno di una società che si caratterizza essenzialmente per l’uso degli strumenti del comunicare. Una società della comunicazione. Mass media, internet, cellulari sono alcuni degli strumenti che ci permettono di entrare in relazione con il mondo intero in tempo reale. Anche l’angolo più remoto del mondo può diventare facilmente accessibile al semplice clic del mouse o guardando la televisione restando comodamente seduti sulla nostra poltrona di casa. Secondo una teoria matematica ciascuno di noi può entrare in relazione con qualsiasi altra persona del pianeta (dall’imperatore del Giappone al più sperduto nomade del deserto) attraverso cinque, al massimo sei passaggi/intermediari. Quello che stiamo vivendo non è stato conosciuto da nessuna delle generazioni precedenti. Le possibilità che noi abbiamo oggi di comunicare erano inimmaginabili per la nostra precedente generazione. Dunque, se la nostra è la società della comunicazione, ne dovremmo dedurre o concludere che oggi non abbia più senso parlare di solitudine.
Eppure siamo di fronte ad un grande paradosso. Tutti noi abbiamo sperimentato – oppure sperimentiamo tuttora – la solitudine. Viviamo all’interno della società della comunicazione e al tempo stesso ci rendiamo conto / sperimentiamo che è anche la società dell’incomunicabilità e della più bruciante disperazione. Avere tanti strumenti per comunicare non comporta automaticamente un miglioramento della comunicazione. Anzi avvertiamo proprio il contrario, uno scadimento, un peggioramento. Abbiamo l’intero mondo a portata di mano, ma questo non vuol dire non sentirsi soli. Nelle famiglie è abituale tenere accesa la televisione gran parte della giornata: "così mi fa compagnia". Nelle città aumentano sempre di più le famiglie con un animale in casa. Non per amore nei confronti delle bestie, ma per cercare di arginare un vuoto che si avverte attorno a noi ed in noi. Aumentano i casi di suicido riconducibili a fenomeni legati alla solitudine.
La società della comunicazione si contraddistingue come società dell’informazione. Potremmo fare un esperimento: vedere nell’arco di una giornata quanto della nostra comunicazione è riconducibile ad informazione. Per chiarirci un po’ di più: se quello che stiamo dicendo sono notizie o è comunicazione di esperienza. L’uso dei cellulari in questo senso è formidabile (lo dico in senso ironico). I messaggini SMS, ad esempio, non sono altro che notizie. Per lo più sono già pronti all’uso. Non si deve neanche fare lo sforzo di mettere insieme due parole per comunicare perché c’è già la sigla predisposta. t.v.b. – t.v.b.t. – t.v.b.ttt. Quando si ricevono messaggi di questo tipo restiamo indifferenti perché oramai quello che ci interessa è la quantità e non la qualità. È facile trovare ragazzi vantarsi sul numero di messaggi ricevuti sul cellulare. E alla domanda: "che cosa ti dicono?" si può sentirsi rispondere: "non li leggo sempre... guardo chi me li spedisce...". Siamo in qualche modo defraudati. Stiamo impoverendo il mondo dei sentimenti, il mondo della comunicazione.
Non si comunicano più esperienze di vita. O, meglio, facciamo sempre più fatica a comunicare le nostre esperienze ed il nostro mondo dei sentimenti. Siamo sommersi da notizie relative al tempo, agli orari, agli impegni, al cosa fare e al quando si arriva. Al dopo e al domani. All’organizzare il fine settimana o le ferie. È normale incontrare una persona che non si vedeva da tempo – un conoscente, un amico – e lasciarsi quasi subito dicendo che purtroppo non abbiamo tempo, che ci sentiremo appena potremo... ed intanto passano altri mesi fino ad un altro incontro fortuito, veloce, nel quale ci si ripeterà la stessa promessa.
Questi strumenti che dovrebbero aiutarci a comunicare rischiano di renderci sempre più chiusi in noi stessi, solitari, individualisti. Il computer (soprattutto per i maschi) diventa un vero e proprio "partner". Si può stare ogni sera a chattare per ore ed ore con persone dalla dubbia identità (poiché è così facile nascondersi dietro a maschere) mentre si trova sempre più difficoltà a stare con la moglie ed i figli – persone reali, in carne ed ossa, che stanno accanto con le loro urla ed i loro silenzi, le loro gioie e le loro tristezze. Possiamo ritrovarci per una serata con gli amici – come ai vecchi tempi – e passare gran tempo a smanettare con il cellulare per rispondere a qualcosa che non ha niente di urgente e che non produce altro che un continuo estraniamento dalla realtà circostante.
Si potrebbe continuare a lungo con questi discorsi. Questi accenni alla comunicazione e agli strumenti che usiamo per comunicare (e come li usiamo) servono ad introdurci al tema. "Comunicare per l’uomo equivale a vivere. La comunicazione non è una delle tante possibili attività della persona, ma è una sua dimensione costitutiva". E la comunicazione è in diretta relazione con l’esperienza della solitudine. Ma che cosa intendiamo con questa parola: solitudine? Infatti ci accorgiamo subito che siamo di fronte ad un termine ambiguo, al tempo stesso usato con significati profondamente positivi e con valenze estremamente negative.
Non possiamo parlare di solitudine per il fatto di trovarci ad essere soli. La solitudine non è semplicemente un fatto fisico, ma un nostro modo di percepirci in relazione con noi stessi, con gli altri, con il creato e con Dio. Possiamo vivere in un posto assolutamente isolato e non percepire la solitudine, non sentirci soli. Come possiamo trovarci a vivere in una grande metropoli, sempre immersi nella folla, sempre a stretto contatto con centinaia, migliaia di altre persone e sentirci avvolti dalla più bruciante solitudine. La solitudine non è data dalla presenza o dalla assenza di altre persone intorno a noi, ma dal come noi ci percepiamo. È un nostro modo di essere, di sentirci, di vivere. Questa esperienza può essere accompagnata dalla presenza o dall’assenza. Dalla folla o dal deserto. Dalla notte o dal giorno. Dal silenzio o dal rumore incessante. Ma non sono l’assenza, il deserto, la notte, il silenzio a farci sperimentare la solitudine.
O meglio, dobbiamo distinguere che esiste una solitudine amica ed una nemica. Una solitudine che amiamo, che ricerchiamo, di cui sappiamo aver bisogno per stare meglio, per crescere. Ed una solitudine che odiamo, che ci piomba addosso quando meno ce lo aspettiamo e che rischia di trasformare tutta la nostra vita in un nero orizzonte. Ed allora se stiamo sperimentando una solitudine amica, ben vengano l’assenza, il deserto, il silenzio e la notte. Ben venga il nostro ritrovarci soli con noi stessi. Ma se la solitudine è nemica non c’è folla, non c’è presenza e non c’è rumore incessante che ci possa sollevare ed alleviare.
Perché si sperimenta questa profonda ambivalenza della solitudine? Diciamo che ciò nasce dal nostro rapporto con noi stessi, con gli altri, con il creato e con Dio. Nella misura in cui ci sentiamo riconciliati, facenti parti di, in relazione con. Possiamo essere confusi in una grande folla e non sentirci parte di essa, sentirci estranei ad essa. E possiamo essere nel deserto e sentirci parte della creazione, in relazione con il mondo intero. È soltanto una percezione soggettiva? Non credo. È anche il frutto di un cammino, di una maturità, di un processo di autonomia. Quando il bambino viene al mondo, ha bisogno delle continue ed assidue cure dei genitori. Man mano che cresce si va sviluppando la sua capacità di autonomia, di "bastare" a se stesso, di essere "legge a se stesso". Inizia ad apprendere a mangiare da solo, a camminare da solo, a parlare... Questo processo dura tutta la vita. L’acquisizione di autonomia passa attraverso il riconoscimento che gli adulti sanno dare al bambino. Tutta la nostra vita è costellata dal bisogno di essere riconosciuti, amati ed accettati per quello che siamo. Quando sperimentiamo una solitudine che ci è nemica, avvertiamo (a torto o a ragione, questo non importa) di non essere accettati, amati e riconosciuti dagli altri. Non ci accettiamo, non ci amiamo o non ci riconosciamo per quello che siamo.
Oltre ad essere una società della comunicazione, la nostra è anche una società caratterizzata da un individualismo esasperante. Il modello è rappresentato dal self made man. L’uomo che si è fatto da solo. Che non ha bisogno degli altri. Ma al tempo stesso un uomo profondamente alienato, destinato a vivere nella più disperante solitudine. Noi viviamo all’interno di questa nostra società e non possiamo dire di esserne indenni. Su di noi ne portiamo le tracce, le ferite. L’esperienza della solitudine da parte degli uomini e delle donne rappresenta un fenomeno in stretta relazione con la loro cultura. e se la nostra cultura si caratterizza oggi per l’individualismo, dobbiamo essere consapevoli che dobbiamo fare sempre più spesso i conti con l’esperienza di una solitudine che avvertiamo come nemica.
Nonostante tutto, non sta a noi decidere quando la solitudine ci è amica o nemica. Ne possiamo essere così sicuri di affermare che siamo o non siamo persone soggette a sperimentare la solitudine (nemica). Quello che conosciamo della nostra vita è che ci può capitare di dover fare i conti con questa faccia oscura, ostile della solitudine. Quando meno ce lo aspettiamo, quasi all’improvviso. E quando ne siamo coinvolti, ci tocca, in un certo senso, "ballare".
È possibile passare da un’esperienza negativa della solitudine ad una positiva? La risposta può essere sicuramente affermativa. Ma non è così facile entrare nel piano operativo. Poiché siamo interpellati in tutto il nostro modo di essere. Nel nostro essere in relazione. Con noi stessi, con gli altri, con il creato e con Dio. Nella misura in cui mi percepisco sempre più in relazione con queste realtà, in cui mi sento parte di un realtà più vasta, in cui ritrovo un quadro di significato che mi permette di tirare le fila di tutta la mia esistenza, allora posso sperimentare una crescita della mia percezione positiva dell’esperienza della solitudine e di una continua diminuzione nello sperimentare l’ostilità della solitudine.
In relazione con me stesso: mi so riconoscere per quello che sono, una creatura, un dono, con le mie potenzialità ed i miei limiti, con il mio peccato e la mia nostalgia di santità. Il mio essere, che è unico e che è il dono migliore che Dio mi ha dato.
In relazione con gli altri: messi al mondo, accuditi, curati, amati... Nella misura in cui percepiamo che la nostra vita dipende dagli altri... Non siamo un’isola. Non viviamo solitari, senza aver bisogno di nessuno. La nostra vita è tutta costellata da continue, ininterrotte, profonde correlazioni. E se anche ci accorgiamo di aver subito dei torti, di portare addosso le ferite del non essere stati amati abbastanza o del rifiuto o dell’odio o della violenza, tuttavia dobbiamo ammettere che sul piatto della bilancia della vita è sempre di più quello che abbiamo avuto rispetto a quello che ci è stato sottratto.
In relazione con il creato. La società della fredda tecnologia ci porta a diradare i nostri rapporti con la natura. Ad esempio, ci è sempre più difficile poter ammirare il cielo stellato. O percepire il silenzio della notte. O gustare l’acqua fresca di una fonte. E comunque non è la stessa esperienza vedere il cielo stellato al cinema o nella lieve brezza della notte di una campagna. Non è la stessa cosa bere l’acqua imbottigliata di una fonte – nonostante quello che la pubblicità cerca di farci credere. Ma penso che nella vita di ognuno di noi ci siano stati momenti nei quali abbiamo percepito di essere parte di questo creato. Forse ci è capitato di salire da soli sulla vetta di una montagna e restare ad ammirare stupiti il lontano orizzonte. Oppure ci siamo seduti sulla sabbia della spiaggia ad ascoltare la continua risacca del mare. Momenti in cui eravamo fisicamente soli, ma certamente non percepivamo il fatto di sperimentare la solitudine.
In relazione con Dio. Innanzi tutto nella nostra dimensione costitutiva: l’essere sue creature. L’essere scaturiti dalla sua mano provvidente. Quando avvertiamo questa presenza divina, non resta in noi lo spazio per una solitudine che ci possa essere nemica. C’è nella bibbia un passo bellissimo che descrive la cura che Dio ha per il suo popolo. "Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali" (Dt 32, 10-11).
Sono questi gli elementi che ci possono far sperimentare il graduale passaggio, nella nostra vita, dall’esperienza di una solitudine che percepiamo soltanto come ostile e nemica ad una solitudine che cominciamo ad apprezzare come amica e compagna. Per cui non dobbiamo continuamente rifuggire dalle situazioni in cui possiamo trovarci soli con noi stessi e non abbiamo più bisogno di tanti riempitivi, ma riusciamo a "bastare a noi stessi".
La vita di coppia può essere considerata anche come l’esperienza di due solitudini che si incontrano. Proviamo a pensare cosa succederebbe all’interno della vita di coppia, se fossimo di fronte a persone che percepiscono la solitudine soltanto come fatto negativo. Sarebbero portate a sperimentare l’assenza dell’altro unicamente in termini negativi. Sembrerà che l’altro non sia mai sufficientemente attento alle proprie esigenze. Probabilmente molte crisi possono essere ricondotte non al fatto di non riuscire a star bene insieme, ma al fatto che non si è capaci a star bene con se stessi e l’altro diventa il motivo di fuga, il capro espiatorio della propria incapacità a star bene con se stessi.
"Il Signore Dio disse: "Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile". Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò" (Gen 2, 18-21). In questo racconto della Genesi riguardante la creazione della prima coppia, troviamo alcuni elementi che possono essere utili alla riflessione. Non è bene che l’uomo sia solo. Qui il testo biblico non parla dell’uomo maschio, ma dell’adam, l’uomo indifferenziato. Questa solitudine congenita dell’uomo indifferenziato è in parte alleviata dalla creazione degli animali. Ma ciò non è ancora sufficiente. È la sessualità, la reciprocità e la complementarietà che fa uscire l’uomo indifferenziato dalla sua solitudine e lo pone come creatura pienamente realizzata.
All’inizio Dio crea l’umanità indifferenziata (l’adam) utilizzando la terra rossa (adamà) al pari di un artigiano, di un vasaio che modella la creta per costruire un vaso. È una umanità alla quale manca una differenziazione sessuale. "Ciò non è bene" (Gen 2, 18). Il racconto prosegue con il sonno profondo che scende sull’adam, dal quale viene tratta una costola, usata da Dio per creare la donna. In questa seconda creazione l’adam è incosciente, passivo, non ha nessuna partecipazione all’opera compiuta. Soltanto di fronte alla nuova realtà creata l’adam diventa uomo. Riesce cioè ad identificarsi e a identificare chi gli sta di fronte: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta" (Gen 2, 23). Ed è una identificazione che permette anche il linguaggio: Adamo inizia a parlare. In questo racconto abbiamo alcuni giochi linguistici: 1) Adam (creatura della terra) è tratto da Adamà (la terra rossa); davanti alla donna (ishà) l’uomo si riconosce come ish (creatura della donna!).
Punto centrale della filosofia greca è stato il "conosci te stesso". Era una frase scritta sul frontone del tempio di Delfi e che Socrate fece sua come metodo di conoscenza. Il racconto biblico della creazione della prima coppia ci pone di fronte un’altra prospettiva: quella del riconoscimento reciproco. È soltanto alla vista della donna che l’adam incomincia a sapere chi è. Se la coppia diventa lo specchio di Dio, al tempo stesso l’uno è specchio per l’altra, l’una da all’altro la possibilità di riconoscersi.
Vorrei fermarmi un attimo su questa parola. Riconoscere è un termine molto ricco e che in italiano assume, a secondo del contesto, diverso significato.
- Ri-conoscere è l’esperienza che facciamo quando abbiamo bisogno di conoscere di nuovo, di vedere le cose alla giusta distanza.
- È inoltre un processo di distinzione. Tra i mille volti di una folla ri-conosciamo una persona familiare, un volto amato.
- Il riconoscere ha poi un significato di svelamento. Una vera e propria opera di discernimento. È quello che succede alla prima coppia quando si ritrovano davanti l’uno all’altra.
- È poi un processo di identificazione. In psicologia viene sottolineato che un bambino per potersi conoscere (riconoscersi per quello che è, cioè una persona) ha bisogno di avere intorno persone che gli siano altro da sé. Senza questa presenza di altri intorno (la presenza dei genitori in primo luogo), il bambino non giunge alla propria identificazione (e di solito ciò causa traumi non più sanabili).
- Ma riconoscere è anche ammettere di aver ricevuto un beneficio da altri (e quindi diventa: riconoscimento). Adamo prorompe in un canto di esultanza: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall'uomo è stata tolta" (Gen 2, 23). Il riconoscimento avviene nei confronti di Dio.
Dal racconto della creazione dell’uomo e della donna ricaviamo allora che nessuno individuo può bastare a se stesso. La dimensione normale della vita delle persone avviene all’interno del riconoscimento reciproco della vita di coppia. E per chi non vive una vita di coppia? Lascio aperto in problema. (Il riconoscimento viene dato da Dio, dai fratelli e dalle sorelle. Vale a dire, dal rapporto con Dio e nella vita fraterna, comunitaria. Questo è un elemento essenziale per la vita e la crescita di ciascuna persona. A qualsiasi età. Da Dio e dai fratelli / sorelle. Ciascuno di noi ha bisogno di uno specchio per riconoscersi. E questo specchio sono Dio ed i/le fratelli / sorelle).
Forse lo diamo per scontato, ma non è facile. Non è facile ri-conoscere (cioè saperlo vedere con occhi diversi) chi ci sta intorno né è facile essere riconoscenti (a Dio) per coloro che ci sono intorno né a chi ci è intorno. A volte possiamo arriva a pensare che l’esperienza di vita comune sia troppo onerosa. Quante volte si dice della propria moglie o del proprio marito: è la mia croce! Ed anche le parole che si dicono per scherzo rivelano un nostro modo di pensare e di vedere le cose... Forse dovremmo incominciare a pensare che ci possiamo salvare "soltanto" come comunità. Perché questo? Perché quello che conosciamo del mistero di Dio è la sua rivelazione come Trinità, come comunione assoluta. E che le persone, fin dalla creazione, sono chiamate a questo riconoscimento reciproco, a questa partecipazione della comunione intratrinitaria. Se pensiamo che ci salviamo da soli, come potremo sperimentare questa comunione intratrinitaria a cui Dio ci chiama e ci dona?
La vita di coppia allora come negazione o come condivisione di due solitudini? Credo che possiamo considerare ciò a cui siamo chiamati, ad una esperienza di profonda comunione. Una esperienza che non può essere simbiotica, vale a dire che annulla tutte le differenze. Ma che assume in sé le diversità e le particolarità, senza confusione, ma come esperienza di una nuova realtà che si fonda su di un dono reciproco.
Accenno soltanto ad un tema presente all’interno della bibbia: quello relativo all’assenza di Dio. L’uomo e la donna sperimentano nella loro vita il mistero di un Dio che a volte nasconde il suo volto e resta nel silenzio. Sono i momenti in cui gli uomini e le donne si trovano a misurarsi con gli aspetti più tragici della solitudine. È il caso di Giobbe, di Geremia e di alcuni salmisti. In Giobbe abbiamo un silenzio degli amici che è profonda partecipazione al suo dolore ed un parlare che diventa aggressivo e lascia Giobbe nel tormento della sua solitudine. Pur di fronte a queste esperienze tragiche, il cristiano sa che la presenza misteriosa di Dio continua all’interno della sua creazione. Anzi egli ha ricevuto il dono dello Spirito.
"Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui". (Gv. 14, 16-21).
Gesù si manifesta per eccellenza come colui-che-è-per-gli-altri. I vangeli ci raccontano di questo suo modo di vivere che culmina nell’estremo sacrificio della croce. Ma al tempo stesso i vangeli ci raccontano spesso di un Gesù che si ritira da solo - nel deserto, in luoghi solitari, la notte - per pregare il Padre. Il suo profondo essere-per-gli-altri si radica nel suo particolare rapporto con il Padre. L’essere-per-gli-altri si fonda nell’essere-con-se-stesso e nell’essere-con-il-Padre. Ed è significativo, ad esempio, che i vangeli sottolineino il fatto che si esprima anche una dinamica di riconciliazione con il creato (nell’episodio della tentazione nel deserto).
"Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?" Paolo qui fa riferimento ad alcune sue esperienze personali. Noi potremmo benissimo aggiornare questa lista: solitudine, paura, individualismo, guerra, razzismo, crisi, ... "Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore" (Rm 8, 31-39).
Faustino Ferrari