Se la religione è stata definita l'oppio dei popoli, in molti considerano la speranza il principio attivo della sostanza stupefacente. La speranza, infatti, distoglierebbe lo sguardo umano dalla realtà, vanificando le possibilità di un impegno volto al cambiamento e al miglioramento. Coltivarla sarebbe pericoloso, vano, deviante. Come se fosse un elemento tale da fiaccare le risorse in gioco, compromettendo l'esito degli avvenimenti. La speranza tenderebbe a rimandare le possibili soluzioni in un ipotetico futuro – irrealizzabile, utopico, mistificante. Non farebbe altro che aumentare e alimentare lo stato d'alienazione già presente nelle nostre società.
La speranza è un tema ostico. Ma non manca a riguardo una vasta letteratura. In campo filosofico Il principio speranza di Ernst Bloch rappresenta una vera pietra miliare. Mentre in campo teologico, la teologia della speranza, avviata da Jurgen Moltmann, è diventata un ricco filone di ripensamento dell'esperienza religiosa e umana, non solo in ambito cristiano. E una buona parte della letteratura – e della poesia (1), in particolare, – ruota intorno al tema della speranza.
Tema ostico poiché, oltre ad essere considerata causa d'alienazione, la speranza rischia di essere un lusso – ostentato da quanti, in fondo, non avvertono il bisogno pressante di una speranza. Ridotta a discorsi da salotto o da accademie. Pieni di belle parole, ma che restano estranei a tutto ciò che tanti altri stanno sperimentando, nella disperazione, nelle lacrime e nel dolore. Un lusso sterile, avulso dalla realtà.
E poi, condiamo i nostri discorsi quotidiani con le molte parole che tirano in ballo la speranza – ma che nulla hanno a che fare con essa. Speriamo che domani il tempo sia bello… Speriamo di superare l'esame… Speriamo che tutto vada bene… Speriamo in un miracolo… E nonostante quello che diciamo, in questi discorsi che dovrebbero esprimere le nostre speranze, non c'è alcuna speranza. Sono modi di dire che restano diffusi nel linguaggio comune, ma non significano un vero sentire.
E quando si sperimentano tempi difficili – tempi di guerre, di carestie o d'epidemie – il futuro si carica di molte attese, di tante speranze che in realtà sono proiezioni dei nostri desideri e delle nostre paure. E continuiamo a chiamare speranza ciò che non è ancora speranza. In fondo c'è più dolce – confortevole – cullarci con questi pensieri, in questi difficili momenti, piuttosto d'iniziare ad aprirci alla speranza.
La speranza, infatti, non nega le fatiche e le lacrime, la prostrazione e le debolezze, non volge altrove lo sguardo, ma sorprende. Essa aiuta a comprendere che domani andrà meglio, eppure soltanto se non si dimentica tutto ciò che oggi si sta vivendo. Senza fuggire alle attuali fatiche. Non è fatta di sorrisi a buon mercato o di pacche sulle spalle, ma resta carica del mistero del male, del dolore e della morte. È uno strano impasto ove si mescolano gioie e sogni, angosce e dolori, fatiche ed impegno, delusioni e sconfitte, disperazione e attesa di salvezza…
La speranza è aprirsi al futuro che è dono di Dio, nella sua imprevedibilità, ma che si compie in una fattiva accoglienza da parte nostra. Nell'impegno e nella responsabilità. Perché nulla di ciò che è umano vada perduto, ma possa essere trasfigurato.
L'apostolo Paolo ci ricorda che la speranza sorge proprio là ove non ci sono più speranze (2). «La nostra speranza non si regge su ragionamenti, previsioni e rassicurazioni umane; e si manifesta là dove non c’è più speranza, dove non c’è più niente in cui sperare (…)» (3). In quel luogo incerto e misterioso ove germina la fede. Proprio là ove la creatura si affida a Dio. Anche in tempi difficili – e non solo nella prosperità.
Non si deve, infatti, dimenticare che la speranza cristiana è una fragile bambina che viene alla luce nel segno di una tomba vuota…
Faustino Ferrari
Note
1) Si rimanda, in specifico, a Charles Peguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milano 1993.
2) Cfr. Rm 4,18.
3) Francesco, La speranza cristiana, Udienza Generale del 29 marzo 2017.