Nel nostro immaginario religioso Tommaso è identificato come il discepolo incredulo. Possiamo sprecare tutti gli aggettivi che vogliamo: è il dubbioso, lo scettico, il diffidente, l’incerto… Non gli basta l’annuncio di aver visto il Signore risorto da parte dei suoi compagni. In fondo, attraverso il veicolo di quest’immagine, è, tra i discepoli, quello che forse avvertiamo più vicino a noi. Anche noi siamo nutriti di dubbi e d’incertezze riguardo alla fede. Nel nostro cuore alberga una parte di non credente e ci riconosciamo nelle parole di Tommaso: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi…». C’è un vedere a cui non basta vedere poiché deve essere pure accompagnato da un toccare. La vista, infatti, può anche subire il traviamento dell’abbaglio. L’inganno di un singolo senso può essere maggiormente limitato se associato anche ad altri sensi e, in primo luogo, a quello maggiormente concreto: il tatto. Per coloro che sono privi di vista il tatto è, infatti, il senso che permette di compensare una parte del deficit visivo. Attraverso il toccare è possibile riconoscere il mondo circostante: le cose, gli oggetti, i volti… Ma è in ognuno di noi che esiste il bisogno di una concretezza, di una materialità, a cui non si può sfuggire. Quando nasciamo è il tatto a comunicarci l’amore e l’affetto, la cura e l’accudimento, il calore e la protezione… Sono le nostre prime esperienze – mediate dal tatto – e ci accompagnano per tutta la vita. Noi siamo anche il nostro corpo. Anche in quanto credenti.
Ma nella richiesta di toccare la carne ferita del Cristo siamo posti di fronte a ben altro che allo scetticismo di una persona nutrita dal dubbio. Perché la professione di fede di Tommaso, quel «Mio Signore e mio Dio!» non può più essere disgiunta dal riconoscimento della passione e della morte del Signore. Tommaso riconosce il suo Signore, ferito nel corpo e nella carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo! Il vangelo di Giovanni – il più spirituale dei quattro vangeli – a riguardo non lascia dubbi ed è radicale. Il momento dell’elevazione in croce – momento culminante della morte con la consegna al Padre dello Spirito da parte del Figlio – è al pari il momento della massima glorificazione. Ed i discepoli incontrano nel Risorto non un fantasma , ma l’Uomo dei dolori e delle ferite.
La tentazione per un cristianesimo spiritualizzato, fatto di immagini – spesso sdolcinate e edulcorate – e dimentico di fisicità e corporeità, non ha fondamento. La grazia dei sacramenti ci viene comunicata sempre attraverso segni molto concreti: l’acqua, il vino, il pane, l’olio, l’imposizione delle mani… L’episodio vissuto dall’apostolo Tommaso ci consegna il valore di una fede estremamente tangibile. Ed anche se il discepolo non ha più bisogno di toccare le ferite del Risorto, nella sua vicenda esemplare ci viene trasmessa l’istanza originaria: il nostro comune, scandaloso bisogno di concretezza per credere. Il riconoscimento del Cristo glorioso per Tommaso passa attraverso i segni impressi nella carne del corpo. Questo racconto pasquale ci arricchisce così con un’ulteriore specificazione del mistero di una Parola che si è fatta carne. Nei segni delle ferite sta il nostro riconoscere il Risorto.
Non dobbiamo qui metterci nella prospettiva di una mistica del dolore o della sofferenza personale – che hanno avuto ampio sviluppo nella spiritualità cristiana occidentale, manifestandosi nel desiderio di tante persone devote a vivere partecipando alle sofferenze del Cristo. Nel chinarsi sulle ferite dell’anonimo viandante da parte del Samaritano della parabola ci viene mostrata la prospettiva per comprendere la dimensione della prassi cristiana. Il prendersi cura delle ferite dei fratelli e delle sorelle diviene, infatti, il segno più evidente del nostro riconoscere il Signore come il Risorto. Noi, i discepoli di tutte le generazioni, per credere non abbiamo più bisogno di vedere le ferite del Risorto perché c’è stata consegnata la cura delle ferite del prossimo che c’è accanto. Nel segno di queste ferite possiamo riconoscere l’epifania divina – che è fragile poiché ci si consegna nella fragilità umana. Ma fonda il nostro agire nella carità – nella χάρις –, che è grazia per il suo dispiegarsi nella luce della Pasqua.
Faustino Ferrari