Formazione Religiosa

Sabato, 16 Maggio 2015 17:48

Il nome di Dio è sacro (Cettina Militello)

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Il secondo comandamento, "Non nominare il nome di Dio invano", ci mette dinanzi al paradosso di un Dio che invece bisogna evocare/invocare. Paradosso che chiede di essere interpretato e sciolto con molta accortezza e leggerezza.

Rilettura dei dieci comandamenti

Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano». La redazione di Es 20,7 non è molto dissimile da quella di Dt 5, 11. In entrambe il comandamento, che per noi è il secondo, mentre è il terzo nella numerazione ebraica, ci pone dinanzi a una espressione paradossale: «Non nominare il nome». Tralasciamo, per il momento, di prendere in considerazione il nome di Dio e, a maggior ragione, l'avverbio che ultimamente connota la proibizione - "invano". E lasciamo pure da parte la punizione certa per chi lo trasgredisce.
"Nominare il nome" ha sapore tautologico. Sia il verbo che il suo oggetto fanno riferimento esplicito alla stessa realtà: il nome. E’ davvero impossibile, introducendo il tema "Non nominare il nome di Dio invano", eludere i problemi posti, sul piano concettuale, dal "nominare"; né tanto meno disattendere quelli legati alla proprietà e alla dinamica sottesa al "nome". Se ci poniamo in ascolto della Scrittura - senza con ciò disconoscere la valenza "mitica" dei racconti che assumiamo come punto di partenza -  la nominazione appartiene innanzitutto al Creatore. Anzi è tutt'uno con l'apparire stesso delle cose.
Cielo, terra, firmamento, acque, animali, piante, e infine l'essere umano, vengono chiamati, evocati e tanto basta perché ricevano il loro proprio essere. La nominazione, strettamente legata all'azione stessa del Creatore, ne dice la signoria e l'autorità. E, chiamato che sia all'esistenza l'essere umano, lo stesso appare partecipe di tale autorità. Nel secondo racconto biblico della creazione, l'umanità, ancora indifferenziata, sperimenta il privilegio del nominare, ossia del dare il nome ad altri viventi. E ciò si accompagna alla frustrazione relazionale del non trovarne a sé simili.

Usciti dall'Eden, posti di fronte l'uno all'altro nella prossimità della fatica, del dolore e della morte, gli stessi protoparenti ci appaiono "nominati , ossia segnati da un nome proprio, in realtà funzionale al loro presupposto dover essere. Adamo, "il terroso", ormai divenuto nome proprio, sarà caricato con una etimologia fittizia, della terra e del fango da cui è stato tratto. Eva invece, anch'essa convenzionalmente, sarà compresa come la "madre dei viventi". Con ciò il nome proprio oltrepassa la genericità del dimorfismo sessuale (cf Gen 1,27) e la reciprocità di genere (cf Gen 2,23b).

Il nome dice identità profonda

Tutte le culture, tutti i loro miti, attribuiscono valenze singolari ai nomi primigeni degli dei come degli esseri viventi. Sarà magari la concentrazione estrema di una sola sillaba a significare potenza, interiorità, respiro supremo da cui promana poi ogni cosa, essere umano incluso. Tutti in un modo o nell'altro evolvono il nome comune nel nome proprio. Negli dei come negli esseri umani il nome è inseparabile da chi lo riceve: ne esprime l'identità profonda, ciò che egli è nella dinamica del gruppo di appartenenza. Il nome insomma - e la nominazione come prerogativa di coloro/colui cui spetta nominare – come legame, appartenenza, rapporto, colloca nella diacronia delle generazioni o nella sincronia dei compiti che sin dal nascere vengono attribuiti a ciascuno. Colloca altresì nella estemporaneità del vissuto del gruppo, a futura memoria. Nomen omen recita un adagio latino, disvelando così un antico e persistente convincimento.

Nella trama della storia salvifica assistiamo però a un aggiustamento.. Il nome proprio a un certo punto viene cambiato con uno più immediatamente adeguato a far percepire il compito (nuovo) cui si è chiamati. Abraam diventa Abramo e Sarai Sara. Manifesto emblematico di una nominazione aggiunta e del destino che sovrasta colui/colei il cui nome è mutato. E, nella complessità culturale di fedeltà al legame generazionale (si ripropone il nome di un parente prossimo), la comunità cristiana si "inventa" il nome "segreto", il nome di grazia, quello vero, malgrado convenzionalmente si sarà chiamati con un nome altro.

Potremmo lungamente giocare sul senso della nominazione, per altro circoscrivendola ai soli soggetti umani e dunque al nome proprio. Nominare vuol dire chiamare e perciò evo care, invocare, convocare. Giocano sul chiamare anche l'avocare o il revocare. L'evocazione è chiamata alla presenza, è memoria efficace. L 'invocazione è richiesta, supplica, domanda. Convocare è essere chiamati insieme, essere raccolti per verificare ciò che si è e ciò che coerentemente occorre significare. Avocare è riservare a sé, al proprio giudizio. Revocare è porre fine alla dinamica della chiamata, della presenza, del patto che vi soggiace. Il linguaggio della Scrittura e quello della liturgia ci hanno reso prossimi questi moduli riferendoli a Dio. In realtà essi flettono tutti la presenza e la modalità della presenza, il rapporto e le modalità del rapporto. Nominare come sfida o condizione relazionale, comunque e sempre.

Singolarità di un'interdizione

Il secondo comandamento ci pone però dinanzi non solo la tautologia del "nominare il nome", ma il divieto: "Non nominare il nome". Il che ci allerta dinanzi alla singolarità di una interdizione che linguisticamente esige un'estrema delicatezza. Non è possibile non nominare il nome. Se ci si pone dinanzi a qualcuno e lo si chiama, lo si sta, appunto, nominando. Nel caso nostro specifico il nome da non nominare è il nome di Dio. Il che pone innanzitutto la domanda: Dio, nome comune o nome proprio? Termine generico con cui indicare il divino o nome proprio personale dell'Essere che viene professato come il solo pienamente tale e dinanzi a cui si fa esperienza della propria creaturalità e del proprio limite?

Anche in questo caso un discorso comparato ci aiuta, ma solo in parte. Le fedi monoteiste hanno maniere varie e intense per declinare il nome di Dio. E un gioco di attributi che non ne esaurisce il mistero e dinanzi al quale il termine "Dio" appare piuttosto un contenitore comune e generico. Linguisticamente, lo sappiamo, il termine theos evoca l'incontro con il numen, con la potenza eccedente dinanzi a cui occorre chiudere, riparare gli occhi. n mistero della divina presenza non è sopportabile a occhi aperti. La luce del divino è abbacinante. L'esperienza fattane esige una nominazione complessa, si tratti dei 99 nomi di Dio o d'altro ancora. Di certo, però, nominare Dio è farne esperienza, sperimentarne la presenza. E ciò secondo una concentrazione che la nostra cultura ormai sconosce, ma che altre culture legano strettamente al nome. Sicché nominare Dio è evocarlo, chiamarlo in causa, renderlo effettivamente presente.

L'indicibilità del nome

La Scrittura ebraica conosce due nominazioni di Dio, la prima più arcaica lo indica come El o Elohim. Termini che suggeriscono un pronome personale non meglio precisato o, altrettanto imprecisato, il termine Signore. La seconda nominazione è quella del nome indicibile, che a Israele giunge attraverso la rivelazione mosaica. Le quattro lettere di cui si compone JHWH sono state lungamente esplorate dalla sapienza ebraica. A Mosè il Dio d'Israele si rivela: «Io sono colui che sono». E anche al riguardo sono corsi infiniti fiumi d'inchiostro. Personalmente amo l'interpretazione che lascia intatta l'indicibilità del nome e dunque vela più che svelare il nome di Dio. In ogni caso l'efficacia salvifica del nome guida l'epopea esodiale e poi la conquista della terra promessa. La prassi religiosa d'Israele preferirà un approccio apofatico. Il nome sarà innominabile proprio a ragione di ciò che il nome stesso comporta: presenza, relazione, rapporto.

Il secondo comandamento ci mette dunque dinanzi al paradosso di un Dio che bisogna evocare/invocare; di un Dio che convoca a salvezza; di un Dio che avoca a sé castigo e misericordia; di un Dio che revoca l'alleanza, in verità solo per riannodarla con vincoli interiori più intensi. E poiché è impossibile non evocarlo, invocarlo, lasciarsene convocare; poiché la salvezza si gioca tutto nello stare alla sua presenza e nello sperimentarne la presenza, il paradosso chiede d' essere interpretato e sciolto con molta accortezza e leggerezza. A fare la differenza, infatti, è quell' "invano" su cui non abbiamo ancora riflettuto.

Di certo, comunque lo si interpreti - e lo vedremo - esige levità. Siamo dinanzi a una interdizione, torniamo a dirlo, di estrema delicatezza.

Cettina Militello

(da Vita Pastorale, anno 2011, n. 9, p. 64)

 

Letto 5171 volte Ultima modifica il Sabato, 16 Maggio 2015 17:58
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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