1. ILLUMINATI DALL'ACTIO
L'actio pastoralis ha una sua connaturalità o analogia con l'actio liturgica, là dove in verità la liturgia è pensata, programmata e realizzata quale è: actio. Sempre utile tenere viva la riflessione del Vaticano II:
«Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche... Ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Sacrosanctum concilium, n. 7).
Notiamo semplicemente che la liturgia è: azione per eccellenza - azione particolare e somma - azione di pienissima efficacia sia di/in Cristo e di/nella Chiesa. Ancora, per rafforzarci:
«La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia» (SC, 10).
Passo molto noto ma forse spesso trattato come uno slogan senza la sua ovvia conseguenza. Citazione di precisa indicazione:
«I pastori di anime devono vigilare attentamente che nell'azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una celebrazione valida e lecita, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso» (SC 11).
L'azione non concerne o rimanda solo al diritto esterno, quanto difatti responsabilizza sulla forza spirituale della partecipazione autentica, xin'actio come intrinseca fonte e culmine della participatio («partecipe»-«actio»).
2. ACTIO PASTORALIS COME DIGNITOSO RISPETTO DELLA NATURA PROPRIA DELL'ACTIO LITURGICA
Insisto su questo carattere pastorale di «azione» della liturgia in quanto, per esperienza, ho potuto ascoltare e vedere come la liturgia sia presentata, predicata, favorita nella dimensione di preghiera e spiritualità della Chiesa, senza rimarcarne la specificità rituale e sacramentale, a dire la sua «natura». Parrebbe che la differenza tra preghiera individuale e preghiera liturgica fosse solo, in quest'ultima, la presenza di una comunità. Tutto si perde in un'interiorità senza volto rituale e la ritualità liturgica sarebbe un espediente, una strumentazione per altro.
Qui seriamente possiamo parlare di inciampo da frattura irrisolvibile nell'azione pastorale, quando questa è compresa come offerta di verità della salvezza cristiana. Si smembra la novità dell'incarnazione cristiana. Impostazione errata di sacerdoti in cura d'anime e di uffici diocesani, anche liturgici, danno al «mistero» in Cristo la dimensione di tale interiorità psicologica o emotiva. L'azione pastorale deve confermare ancor più che la ritualità è chiave alla verità del mistero evangelico celebrato. Ciò che H.U. von Balthasar elice della vocazione cristiana in genere, vale per l'intrinseca mediazione rituale al mistero, che del resto è un'autentica e primaria vocazione:
«Non udiamo la voce di Dio altrimenti che mediata attraverso i veli della creaturalità. Cristo stesso, che è Dio, ci lascia vedere la sua divinità attraverso i veli della sua umanità, e anche i più intimi suggerimenti e impulsi dello Spirito Santo nella nostra anima che psicologicamente sembrano possedere un'assoluta immediatezza, considerati quanto all'essere sono trasmessi attraverso il medium della creaturalità. Ciò vale anche per la chiamata divina. Questo non significa però che da questa mediazione essa debba venir indebolita o diventi meno chiara e comprensibile. Così come per il credente la parola di Cristo ricevuta dal Padre, sebbene mediata creaturalrnente, conserva integrale chiarezza e perciò uguale forza di richiesta, anche la sua chiamata mediata dai mezzi mondani è inequivocabile» (1).
La ritualità liturgica pertanto, là ove inserita in un normale e sereno contesto di programmazione pastorale di una comunità cristiana attenta, rafforza integralmente la visione della fede, intesa come accoglienza salvifica. Nonostante la nostra «pastorale» ostinazione a celebrare messe e a favorirne la partecipazione ad ogni modo, in mille comodi orari, come mai non abbiamo «presa» e sentiamo sbriciolare la situazione sotto i nostri piedi in un secolarismo reclamizzato anche da nostre basse percentuali? Ed è allora che, per una possibile «ripresa», ci accalchiamo a parlare di evangelizzazione, relegandola però solamente all'aspetto dell'annuncio verbale o testimoniante caritativo e continuando a proporre la liturgia come un fatto ritualistico da fare, ma da cui non trarre una crescita integrale; appunto la liturgia non apparirebbe una risorsa evangelizzante e missionaria, ma forse un inciampo all'evangelizzazione stessa in quanto lasciata irretire nelle fronde del ritualismo.
La risorsa evangelizzante della liturgia si ha allorché essa si rispetti nella sua propria natura di celebrazione del mistero cristiano e si pongano in essere i suoi peculiari ed esclusivi elementi dì concreto culto «in spirito e verità» (cf. Gv 4,24). Mi pare di dover dire che quando si opera una commistione tra liturgia e catechesi e, in molte parti geografiche o di certi carismi ecclesiali o di formazione, questa commistione si giustifica a motivo di un andare incontro alla scristianizzazione o a un servizio di una più facile comprensione dell'elemento rituale, si ha un falso o fasullo e ingannevole miraggio pastorale.
La liturgia opera secondo la sua propria identità e così porta i suoi frutti; diversamente sarà, quando si commistiona, si verbalizza, si annacqua dalla sua forza specifica e integra. In un tempo e in una cultura del nostro oggi il rispetto dei diritti propri è richiesto in maniera forte, pur se nel modo spesso acquista i segni di una richiesta violenta e unilaterale; nel binomio inscindibile di pastorale e di cultura, sarà nostro dovere rispettare i diritti del mistero della nostra liturgia celebrata.
3. ACTIO PASTORALE E TEMPI DI EDUCAZIONE LITURGICA
I fedeli sanno apprezzare il vero cibo dello spirito e ne sanno valutare per la propria vita l'intima attrazione, se si mantiene la verità del dono celebrato e si offre come Cristo, unico e vero evangelizzatore con la sua Chiesa, che lo ripropone celebrativamente. Un inciampo pare essere un non motivato concetto e uso dell'«adattamento liturgico»: vera risorsa quando Io stesso adattamento è rispettato nel suo contenuto e nella sua forma, e non è strumentalizzato privatamente secondo una propria visione.
Siamo i servitori nella comunità, stando come «servi», nel senso letterale evangelico, di ciò che il Servo/Cristo ha consegnato. Ritornando un momento alla riflessione di H. U. von Balthasar citata sopra, bisogna chiedersi ancora se l'azione pastorale abbia di mira la psicologica assoluta immediatezza, per cui siamo appagati dall'aver fatto capire il messaggio magari «seduta stante», oppure affidarsi al percorso meno gratificante ma più profondo, e in qualche modo a noi sfuggente, della mediazione spirituale e culturale proposta dal mistero del culto cristiano.
L'«oggi» liturgico di Dio Trinità non è sicuramente l'immediato, come la nostra cultura mediatica ci impone o il «subito» che ha fatto il suo ingresso anche nei meccanismi ecclesiastici; è senza meno il lungo percorso di una mistagogia rispettosa e paziente, un culto come vera coltivazione che rispetta i tempi che il pastore deve conoscere perché sa discernere. La liturgia è «inciampo», o detta con termine evangelico «scandalo», quando la si vuole ricondurre ai termini di efficacia mondana o mediatica; «pietra d'inciampo» non tanto per i fedeli, quanto per gli operatori pastorali a cui pare che la liturgia non dica nulla o poco: sarà cosa migliore porre le proprie energie in altro campo di attività o di attivismo!
Forse, come sempre, l'omelia può essere un termine esatto per ricomprendere la qualità della proposta cristiana e liturgica ed essere di esempio su quanto affermato. Un certo omileta si affida all'«oggi» della fede ed entra nell'agone dei problemi attuali, in un sferzante invito, forte, apologetico e negativamente moralistico. Un altro omileta coniuga con equilibrio la forte parola di Dio della celebrazione e rimane nell'interpellazione di Cristo alla comunità che si apre alla propria storia. Di certo l'impatto misterico del secondo esempio incide maggiormente sulla vita di formazione del cristiano e proprio oggi notiamo che tante persone sono in ricerca di quelle chiese dove si possa gustare la percezione di un equilibrio e di una serietà dell'intera vita liturgica e della profondità del messaggio biblico, al di là di facili emozioni di breve durata.
Nelle grandi città alcune chiese del centro storico offrono questo servizio ecclesiale. La liturgia ha parte attiva all'evangelizzazione quando la si lascia produrre il suo frutto che è - riprendendo - il mistero celebrato-rituale, la cui celebrazione chiede una non facile sensibilità a cui formarsi con seria arte spirituale e, pertanto, autenticamente pastorale. Nella pastorale riduttiva la categoria di «evangelizzazione» si fa riferire solo alla catechesi e parte da qui la non chiarezza teologica e di sapienza che, creando confusione, non crea e non costruisce. L'orizzonte veritativo è sempre la comunità cristiana, per quanto «piccolo gregge» possa essere; è da essa come comunità cristiana-liturgica-celebrante vitalmente che può e deve partire la missione nel mondo; l'«andate in pace» (pace-eucarestia che è stata celebrata, non un augurio speranzoso di pace da cercarsi) ne dà il senso incisivo di grazia che ha già in sé la forza dell'adempimento. Ecco perché «andate in pace» è un mandato autoritativo missionario e non un semplice comunitario invito fraternizzante di simpatico coinvolgente ed educato saluto finale (tipo: «andiamo in pace»). Il percorso della prassi cristiana è esattamente questo, specie in tempi di perdita di fede:
«Perciò, lasciando da parte il discorso iniziale su Cristo, passiamo a ciò che è completo, senza gettare di nuovo le fondamenta: la rinuncia alle opere morte e la fede in Dio, la dottrina dei battesimi, l'imposizione delle mani, ia risurrezione dei morti e il giudizio eterno. Questo noi Io faremo, se Dio lo permette» (Eb 6,1-3).
L'Apostolo, ancor più in forza del tempo di crisi, ripropone la pedagogia divina: dall'adventus della pienezza all'inserzione nel mondo e nella carne dell'uomo. In termini semplicistici, il «dopo» realizzativo illumina il «prima»! Chi celebra la pienezza del mistero saprà di necessaria conseguenza conoscere che «non esaurisce tutta l'azione della Chiesa»:
«La liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa. Infatti, prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione... Per questo motivo la Chiesa annuncia il messaggio della salvezza a coloro che ancora non credono... Ai credenti poi essa ha sempre il dovere di predicare la fede e la penitenza» (SC 9).
Non è la settorializzazione della liturgia, ma la sua ampiezza di raggio educativo che diviene fecondità per altri, che diviene contenuto dell'altra «natura» della catechesi e dell'altra «natura» della testimonianza della carità: il non rimovibile carattere trino di unità e di distinzione. La portata di questa «pienezza», come apertura ed estensione maturante le altre esperienze di vita e di fede, appare evidente quando si plasma un fedele secondo una formazione di vita cristiana liturgica. Se sarà così, non si dovrà avere paura di fedeli che cadano nell'esteriorità, nel rubricismo o cerimonialismo perché l'intelligenza liturgica permette allo Spirito di parlare e di agire solo nel dinamismo che è a lui connaturale.
In tempi di difficoltà la ripresa va aiutata non con il ricominciare dal nulla o dal poco o da un'angolazione, ma dall'aprire ancora di più la profondità di una ricchezza che sì possiede e porre la scelta di vita dinanzi alla pienezza che viene offerta. La prima rivelazione del Cristo Signore fu posta nel segno pieno delle nozze e dei suoi elementi celebrativi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela»; «"Riempite d'acqua le anfore"; e le riempirono fino all'orlo... Gesù manifestò la sua gloria, i suoi discepoli credettero in lui» (cf. Gv 2,1-12): inizia il percorso e l'impatto con una fede che ha molto da dire e da operare e, appunto, non lesina o frammenta la sua grande ricchezza. Essendo actio, nella liturgia exercetur l'opera della nostra salvezza (cf. SC 2): l'azione è instancabile esercizio/esercitazione del mistero di Cristo nella sua Chiesa.
Da parte della comunità c'è la frequentano (si esprimono così gli antichi Sacramentari) celebrativa del mistero per diventarne connaturali-partecipi e si pone in essere l'opus dell'umana redenzione e della perfetta glorificazione di Dio (cf. SC 6).
Con tutti questi termini ben precisi e di vita attiva, di vita a cui si dà una forma che viene a edificarsi ogni giorno nella logica di Dio creatore e redentore, la liturgia manifesta se stessa come risorsa data da Dio, come risorsa che fomenta le aspirazioni dell'umanità alla salvezza e risorsa sviluppante tutte le dimensioni dell'attività della Chiesa, incanalando alla finalità di esse, la comunione trinitaria.
Inciampo? Mi pare di sì per l'annaspare della nostra pastorale, nonostante i più potenti mezzi posseduti, allorquando Vactio pastoralis non rispetta l'actio liturgica del mistero rivelato, non asseconda la liturgica prassi della «teologia prima e piena» e la devitalizza in situazione di appelli forti, ma pur sempre mondani e in una pastorale costruita dalla nostra misura; ancor peggio se tale nostra misura ridotta sarà chiamata «sapienza pastorale»!
4. L'ACTIO LITURGICA PASTORALE COSTANTE DI EVANGELIZZAZIONE
Ascoltare la voce dei parroci, «pastori propri» nella cura d'anime (cf. Christus Dominus, n. 30), è importante. Vivendo all'interno della comunità cristiana concreta, incarnata e integrata nelle varie componenti della storia e delle attività e dimensioni ecclesiali, quale è la parrocchia, luogo di pellegrinaggio nella formazione alla fede, qui vi si scopre vitalmente il sensus fidei del popolo di Dio, dono soprannaturale che lo fa partecipe della funzione profetica di Cristo, attraverso la testimonianza di una vita di fede, di carità e di un sacrificio di lode (cf. Lumen gentium, n. 12).
Il parroco con il suo presbiterio, là dove esista, nel sapiente servizio ministeriale, sarà forma gregis, atto a non spadroneggiare sulle persone a lui affidate al fine di seguire il pastore supremo e ricevere la corona di gloria (cf. 1Pt 5,1-4); allo stesso compito sono associati gli stessi laici che collaborano all'edificazione. «Non spadroneggiare» non altro è se non la cura attenta e responsabile a far sì che il dono della rivelazione permanga nel suo mistero con l'intensità con cui è ricevuto dalla Chiesa, così da porre la sua efficacia salvifica.
Il mistero cristiano non fa a meno dell'actio pastoralis, anzi ne assume la dimensione e ne esplicita la realtà sacramentale. Con san Tommaso possiamo ripetere che l'actio «ex plenitudine contemplationis derivatur» (2) e ciò ribadisce la ferma unità tra azione contemplazione così da non cadere nella rete dell'intellettualismo greco, il quale privilegia l'atto contemplativo come ratio superiora l'attraente mistero concettuale, un inciampo per la vita cristiana. Il vangelo è particolarmente chiaro: «Facere veritatem»:
«Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,21).
La liturgia, fondata e posta in essere nella sua actio liturgica, sarà sempre risorsa, a partire dall'azione santificatrice di Dio Trinità e a partire dall'azione di culto del popolo di Dio che risponde alla vocazione e alla missione cristiana.
Renzo Giuliano
1) H.U. VON Balthasar, Gli stati di vita del cristiano, Jaca Book, Milano 1996, p. 398.
2) St. Thomas Aquinas OP, Summa Theologica, II-II, Q.188, a.6
(da Rivista Liturgica, 97/1, 2010, pp. 158-163)