Formazione Religiosa

Sabato, 26 Aprile 2014 17:52

L'atto del leggere e dell'ascoltare (Giorgio Bonaccorso)

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E cos'è la consacrazione se non la Parola detta, la Parola resa voce e suono: voce rivolta alle offerte del pane e del vino, voce che fa risuonare il testo biblico

La civiltà dell'immagine, soprattutto dell'immagine virtuale creata dai mezzi elettronici, sembra seppellire sempre più la civiltà della parola, soprattutto della parola scritta diffusa dalla stampa. Non si possono sottovalutare le conseguenze che tale atteggiamento ha per il vissuto religioso. La fede, infatti, viene dall'ascolto della Parola, mentre l'esperienza religiosa che si va diffondendo nell'epoca contemporanea è sempre più legata alla visione che galvanizza l'immaginazione. Si tratta di un'opposizione senza via di conciliazione? Non è facile rispondere, anche se guardando l'ampio spettro di ciò che chiamiamo 'parola' si possono scorgere diverse somiglianze con l'immagine. Vi sono anzi dei casi, e non sono pochi, nei quali la parola è immagine.

1. L’immagine sonora della parola

«L'io-ti-amo - scrive R. Barthes - non è una frase: esso non trasmette un significato, bensì s'aggrappa a una situazione-limite: "quella in cui il soggetto è sospeso in un rapporto speculare all'altro"... La parola (la frase-parola) ha un senso solo nel momento in cui la pronunzio» (1). È nel momento in cui risuona tra gli amanti che quella frase è una potente immagine. Indubbiamente, anche leggendola, si possono ricavare delle immagini legate alle proprie esperienze o a quanto si è visto in un quadro o in un film. Si pensi a cosa può suscitare in noi la lettura di una poesia o di un romanzo. L'atto del leggere, però, è molto legato, soprattutto nella nostra società, allo sforzo di decifrare, conoscere, classificare. La maggioranza delle persone non legge poesie, ma documenti commerciali, economici, giudiziari. Il problema sottostante è quello di rendere 'leggibile' ciò che ci accade sul lavoro, nella professione, nello scambio. Alla base di questa prospettiva sembra stare il lungo percorso culturale che ha portato a ritenere il mondo come un libro da leggere (2). L'attenzione è tutta rivolta alla leggibilità del mondo, con la conseguenza che il mondo stesso sia un testo da decifrare sulla base dei criteri umani della conoscenza.

La condizione che ha reso possibile questo modo di rapportarsi al mondo è la scrittura, ossia il fatto che vi siano dei testi scritti da leggere e decifrare (per cui il mondo è inteso come un testo naturale da leggere e decifrare). Vi sono testi, però, che non si lasciano leggere ma esigono, per così dire, di essere ascoltati. Una poesia non è un testo da decifrare, ma da ascoltare: da ascoltare anche quando la si legge, ma soprattutto da ascoltare dalla viva voce propria o di un altro. In quest'ultimo caso, la parola si fa immagine, immagine sonora molto vicina alla musica. La poesia riconcilia la civiltà della parola e la civiltà dell'immagine. I ritmi, le metafore, le parabole che attraversano la poesia invocano il passaggio dalla lettura all'ascolto: avvertono che il mondo prima di essere leggibile è udibile. I ritmi, le metafore, le parabole dei testi biblici e liturgici invocano ugualmente di diventare immagini sonore. Nella liturgia non si legge il mondo, ma lo si ascolta, non si (com-)prende la vita, ma si è presi dalla vita: viene anche il momento di leggere e di (com-)prendere, ma solo in virtù del dono, della grazia di avere ascoltato e di essere presi.

In quanto immagine sonora, la parola è la voce del corpo che si coniuga col silenzio della ragione (3). Il leggere e il (com-)prendere con la ragione sono anticipati dall'ascoltare e dall'essere presi dal corpo. Non si tratta di un'anticipazione cronologica, basata sul trascorrere del tempo, ma di un'anticipazione vitale, basata sulla rilevanza di alcuni tempi, di alcuni eventi: il tempo dell'esodo e della profezia, l'evento del Natale e della Pasqua. Noi siamo sempre tentati di andare subito ai contenuti natalizi e pasquali, col rischio di non udire più la voce del bambino nella mangiatoia, il grido dell'uomo sulla croce. Quella voce, quel grido, sono all'inizio della vita e della fede: il loro suono è in principio, ossia il principio della vita e della fede. «In principio era la parola», ossia la voce di Dio che chiama all'esistenza, alla conversione, al regno. La liturgia è la memoria della parola di Dio, perché è la voce che risuona: l'immagine sonora di una comunità che torna alle origini, al principio, al primato di Dio.

2. La parola come suono della comunità

Il suono, scrive un esperto, è 'evanescente', dato che esiste solo nel momento in cui è compiuto, ossia nel momento in cui sta morendo. Ciò implica una particolare relazione col tempo (4). Non posso fermarmi o tornare indietro come nella lettura personale. Un racconto letto in silenzio, con pause e ritorni, mi fa entrare nel tempo di ciò che viene raccontato: io mi rendo presente alle vicende narrate. Il racconto che si fa suono produce un'inversione, dato che il tempo delle vicende narrate 'risente' del tempo che impiega la voce a dirlo e l'orecchio a udirlo. Il tempo del racconto si rende presente al tempo di chi lo fa risuonare: l'evento passato si rende presente nell'evento che lo racconta (oralmente). Il suono è il luogo della memoria non solo nel senso passivo di ricordare, ma anche in quello attivo di rendere presente. Con la lettura della sacra Scrittura posso andare al tempo degli eventi passati, conoscerli, approfondirli; con la proclamazione a voce alta, gli eventi biblici entrano nel tempo della comunità nella quale una voce parla e un orecchio ascolta. L'importante non è parlare o ascoltare, ma lo scambio sonoro che implica entrambi.

Indubbiamente, chi parla è già ascoltatore: «la voce, infatti si ascolta» (5). L'individuo ascolta se stesso, per cui la voce può considerarsi un luogo privilegiato della coscienza. D'altra parte, il parlare e l'ascoltare nascono nella famiglia e si sviluppano nella società allargata, ossia esistono sempre all'interno di una qualche relazione con gli altri. Ognuno di noi ascolta la propria voce come quella che proviene da un essere umano, perché l'ha ascoltata da altri esseri umani. La voce, ossia il suono umano, è un luogo privilegiato della coscienza, ma anche della comunità. E tanto della coscienza quanto della comunità non costituisce uno strumento occasionale, ma in qualche modo rivelativo di ciò che è interno a esse. Già il suono, infatti, ha un particolare rapporto con l"interiorità': l'udito ci consente di prendere atto dell'interno di un oggetto (un colpetto su una scatola ci rivela se è piena o vuota); la voce umana, poi, proviene dall'interno dell'organismo mostrandone qualcosa. «Tutti i suoni registrano la struttura interna di ciò che li produce» (6): degli oggetti, delle persone, delle comunità.

La parola che si canta, si proclama, si ascolta nella liturgia è il suono della comunità celebrante. Può anche non esserlo, e in tal caso occorrerebbe chiedersi il perché. Forse la lettura dei testi biblici e delle preghiere liturgiche sono rimasti testi che la voce dei celebranti non sa restituire veramente al suono. C'è, infatti, una voce senza suono; una voce che legge ma non suona, una voce sorda al tempo del suo prodursi, del suo comunicarsi, del suo essere cibo di un banchetto comunitario. C'è sempre il rischio di questa voce estranea tanto a chi parla quanto a chi ascolta. In tale situazione il messaggio evangelico è ridotto, forse, a un ricordo, ma è ben lontano da essere una presenza vitale, la presenza pasquale di Cristo. Viene allora il dubbio che si possa evitare la partecipazione alla comunità celebrante, e che sia sufficiente se non meglio rinvigorire il ricordo di quanto narrato nella Bibbia nella propria casa, magari aprendo a caso una pagina per rispondere ai problemi immediati della vita, Ma anche in questo gesto probabilmente c'è il desiderio più o meno esplicito di una presenza, di un consolatore, di uno spirito che indichi la strada: il desiderio di un tu che ha smarrito la via degli altri con i quali condividere una celebrazione comunitaria.

Di fronte a queste situazioni, non possiamo dimenticare che il tu si alimenta nell'immagine sonora della parola prima e più che in qualsiasi suo contenuto. Sarebbe sciocco sottovalutare i contenuti, dato che essi contribuiscono all'intensità del rapporto. Ma è altrettanto sciocco sottovalutare il suono dove la parola diventa il termine dello scambio, del dono reciproco, della relazione fraterna. Lo stesso silenzio si alimenta di suono. Anzitutto perché c'è un suono che fa tacere le parole nelle quali si alimentano le preoccupazioni, gli interessi, le ostilità: un suono del silenzio. Inoltre la stessa sospensione totale del suono prende vigore dalla forza della voce che è risuonata poco prima e che risuonerà poco dopo. In ogni caso, il suono, attivato e sospeso, è il segno dell'altro, e proprio per questo è il segno a cui nessuno si può sottrarre, limitandosi solo ad ascoltare o solo a parlare. L'altro, quando è una persona, ha la valenza attiva tipica del volto e della parola. E dato che, nella comunità celebrante, ognuno è l'altro, ognuno deve avere la possibilità di parlare; così come ognuno deve avere la possibilità di ascoltare per accorgersi dell'altro.

3. La parola come suono di Dio

La dinamica appena descritta è fondamentale per accorgersi dell'Altro che viene celebrato e la cui parola è all'origine della fede. Qui si può sottolineare un particolare aspetto del suono: l’'armonia'. Mentre la vista isola gli elementi dato che si può guardare in una sola direzione, l'udito unifica gli elementi perché il suono giunge simultaneamente da ogni direzione (7). Com'è stato osservato, questa caratteristica del suono, insieme alle precedenti, predispongono la parola orale alla dimensione religiosa (8). Il suono avverte della presenza di un tu ma anche di un tutto da cui si è avvolti. L'immagine sonora è proprio quella di una parola che viene dal tutto e che avvolge armonicamente ognuno. Non si deve trascurare questa polarità della parola orale tra il tu che ognuno può vedere e il tutto che nessuno può vedere. Il suono ha una valenza sacramentale: è la parola delle persone che di volta in volta fanno sentire la loro voce, ma è anche la parola per così dire corale che non si identifica con nessuna voce, ma che risuona nell'aula della comunità come se provenisse da tutte le parti, come se avesse la sua origine oltre ogni fonte fisica e tangibile. In un certo senso, la parola che nasce dai membri della comunità celebrante, giunge ai limiti di se stessa, alle soglie dell'invisibile e dell'inudibile.

La liturgia è questo sacramento della parola, dove il suono non appartiene a nessuno, ma viene da Dio. Nella liturgia, la parola non è il concetto di Dio ma il suono di Dio, l'origine, il principio (l'«in principio») da cui viene la Parola. Non bisognerebbe mai dimenticare che, nella rivelazione e nella celebrazione, nella storia della salvezza e nel rito del cristiano, la parola non è, in primo luogo, il sostantivo che contiene un'idea ma il verbo che indica un'azione. La parola di Dio è il parlare di Dio, la voce che chiama all'esistenza e alla salvezza: «l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore» (Dt 8,3). Ci si è così abituati a identificare la parola di Dio col testo della Bibbia da dimenticare la voce della bocca. In tal modo si rischia anche di smarrire la relazione tra le due parti principali dei sacramenti e, in particolare, dell'eucaristia: la liturgia della Parola e la liturgia del sacramento (dell'eucaristia). La prima è spesso confusa col testo (Lezionario) e la seconda con la pietra (l'altare). Siamo, invece, sempre nell'azione e, più precisamente, nell'azione sacramentaria (nel verbo e non solo nel sostantivo): la prima è la voce e la seconda è il cibo, ossia la voce (sacramentale) di Dio e il cibo (sacramentale) di Dio.

Probabilmente, la difficoltà ad accettare i sacramenti come 'azioni' è la stessa che impedisce di cogliere immediatamente la Parola come 'verbo', come parlare affidato alla voce, al suono. E invece i sacramenti sono propriamente azioni e la Parola, in quanto azione, ossia suono e voce, è sacramento. Per questo motivo, la prima patte della celebrazione dei sacramenti è 'sacramento' della voce, del suono; in modo particolare, la prima parte della celebrazione eucaristica è sacramento; è 'eucaristia' della voce, del suono. È quanto dire che Cristo è presente nella sua Parola così com'è presente nel pane e nel vino. Non in qualsiasi pane e vino, ma in quelli consacrati, e così non in qualsiasi parola, ma in quella consacrata. E cos'è la consacrazione se non la Parola detta, la Parola resa voce e suono: voce rivolta alle offerte del pane e del vino, voce che fa risuonare il testo biblico? Si tratta di modalità indubbiamente differenti, ma altrettanto rilevanti della voce, del suono. In tutti i casi si tratta della parola intesa come suono di Dio, della parola di Dio rivolta alla comunità e di cui la comunità si nutre.

Giorgio Bonaccorso

(da Rivista di Pastorale Liturgica, n. 3, 2005, p. 15-22)

Note

1) R BARTHES, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, 119.

2) «Il tropo del 'mondo come libro', prevalente nella letteratura medievale e rinascimentale, ad esempio, implicava che tutti i fenomeni sociali e naturali potessero essere considerati come 'testi' da leggere», R. STAM - R BURGOYNE - S. FLITTERMAN-LEWIS, Semiologia del cinema e dell'audiovisivo. Parole chiave nell'analisi del film, Bompiani, Milano 20042, 11. Si vedano le interessanti ricerche e riflessioni di H. BLUMENBERG, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Il Mulino, Bologna 1989.

3) Cf R. BONITO OLIVA, La voce del corpo e il silenzio della ragione, in Sonus 8 (1/1996) 2-9.

4) Cf J.W. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986, 595.

5) U. GALIMBERTI, Il corpo, Feltrinelli, Milano 19892, 98.

6) ONG, Oralità e scrittura, cit., 105.

7) Cfr. ibid., 105s.

8) Cfr. ibid., 108s.

 

Letto 3048 volte Ultima modifica il Sabato, 26 Aprile 2014 18:11
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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