Che un edificio sacro non appartenga all’intima essenza del cristianesimo si può comprendere già dal fatto che i cristiani dei primi due secoli non disponevano di veri e propri luoghi di culto, Anche la storia della chiesa di epoche più tarde conosce per certi paesi la perdita - durata decenni o secoli - di tutti gli edifici liturgici senza che le comunità cristiane cessassero di esistere. D’altra parte le assemblee liturgiche vengono favorite in modo essenziale se ci sono spazi appositi, che con la loro disposizione e arredamento agevolano la proclamazione della parola di Dio e la celebrazione della liturgia, influenzando così positivamente la koinonìa (comunione) con Dio e dell’uno con l’altro.
Qui ci si occupa dapprima della teologia dell’edificio liturgico cristiano, un rapido sguardo retrospettivo sulla sua storia, presenta linee direttrici e criteri per l’attuale architettura liturgica, illustra i nomi e i tipi delle costruzioni liturgiche e si interessa dell’arredamento essenziale dello spazio del culto. Un paragrafo sulla dedicazione delle chiese e degli altari forma la conclusione.
1. Teologia dell’edificio liturgico cristiano
Gli scritti neotestamentari parlano frequentemente delle assemblee liturgiche, ma il luogo di raduno non viene mai designato come casa di Dio, santuario o magari tempio. Invece viene considerato come vero tempio della nuova Alleanza Cristo. Secondo Gv 2,13-22 egli designa se stesso come tempio. Ciò significa che da allora in poi il Signore glorificato sarà il luogo della presenza salvifica di Dio, e non più il tempio di pietra di Gerusalemme. «Ora non c’è più un luogo determinato del mondo come il solo luogo legittimo del culto di Dio. Piuttosto il culto a Dio viene reso dove è Cristo, e cioè in tutto il mondo» (1). Anche Gv 7,37 s. va interpretato in questo senso. Secondo Ap 21,22 l’”Agnello”, insieme con il Padre, è il tempio della città santa, non ce n’è un altro. Con la morte di Cristo il velo nel tempio di Gerusalemme si squarcia in due (Mt 27,51 e par) in ciò molti Padri vedono simboleggiata la fine del culto del tempio veterotestamentario e l’inizio di un nuovo ordinamento di salvezza. Attraverso la sua morte Cristo abbatte il muro di separazione tra ebrei e pagani (cfr. Ef 2,14) e costruisce così il tempio universale, che si apre a tutti i popoli e offre asilo e salvezza. Così si inizia con e in Cristo un nuovo culto e una nuova epoca della venerazione di Dio, nella quale lo si adora «in spirito e verità» (Gv 4,23 s.).
Poiché i credenti in Cristo formano il suo Corpo mistico e così abita in essi la gloria di Dio (cfr. Gv 14,23) è comprensibile che anche essi e la loro comunità vengano chiamati tempio del Dio Vivente (1 Cor 3,16 5.; cfr. anche 6,19; 2 Cor 6,16). Come nella figura del Corpo mistico i cristiani sono chiamati le membra, così nella figura del tempio essi sono chiamati pietre vive (1Pt 2,4.6; cfr. Ef 2,20-22). In questo tempio della comunità cristiana Cristo è il fondamento insostituibile o la pietra fondamentale dell’edificio di Dio (1 Cor 3,11), e insieme la chiave di volta grazie alla quale l’intero edificio è tenuto insieme (Ef 2,20). Con riferimento a Is 28,16 Cristo chiama se stesso pietra d’angolo (Mt 21,42, e par.; cfr. 1Pt 2,6-8).
Rispetto a ciò la casa dell’assemblea comunitaria ha un ruolo secondario; essa ha un carattere di servizio. Fin dagli inizi del cristianesimo si capisce che non un edificio santifica la comunità liturgica, ma il luogo dell’assemblea riceve onore e dignità dalla comunità e dalla liturgia che essa celebra. Ciò ha valore anche per quelle epoche più tardive, nelle quali sorgono edifici liturgici artistici, si forma un ricco rituale della dedicazione della chiesa e, verso il passaggio al secondo millennio, si cominciano a conservare nelle chiese le ostie consacrate.
Se si volesse vedere la dignità dell’edificio liturgico cristiano costituita solo dagli ultimi due sviluppi citati, allora si dovrebbe non riconoscerla alle chiese del primo millennio. Questa concezione è confermata dalle premesse al nuovo rito della dedicazione della chiesa (II, 27-28) e dalla raccomandazione dei PNMR di conservare l’eucaristia in una cappella distinta dalla chiesa (276).
2. Panorama storico
Mentre all’inizio le comunità cristiane si radunano nelle case dei loro membri (2) troviamo a partire dall’inizio del sec. III delle case di proprietà della comunità, che sono riservate alle assemblee liturgiche. La casa-chiesa di Dura Europos sull’Eufrate superiore ne offre un chiaro esempio (3). Con l’editto di tolleranza, emesso a Milano dall’imperatore Costantino nell’anno 313, sorgono numerose basiliche come sale a più navate con abside, le quali ricevono la loro destinazione con la prima eucaristia celebrata dal vescovo. Costruzioni a pianta centrale sorgono come ambienti di riunione su luoghi santi o su luoghi commemorativi particolarmente venerati (ad es. la chiesa del s. Sepolcro a Gerusalemme, le “memorie” dei martiri) e influenzano fortemente l’architettura liturgica bizantina con le sue cupole. L’architettura liturgica di Giustiniano cerca di unire insieme lo sviluppo longitudinale delle basiliche con la costruzione centrale a cupola. In Occidente la costruzione della basilica si evolve nello stile carolingio e degli Ottoni, dal quale si sviluppa il Romanico. Ad esso succede il Gotico, che nel tempo dal 1150 al 1500 ca diventa lo stile dominante dell’architettura liturgica . Ma già nel sec. XV ci sono in Italia tentativi di superare lo stile gotico. Si giunge allo stile del Rinascimento, tutto interessato all’Antichità, e le proporzioni armoniose secondo il modello dei templi antichi rappresentano l’istanza più importante. Alla fine del sec. XVI si fanno notare nuovi elementi formali, dai quali, verso il 1600, si sviluppa il Barocco, dapprima dominio degli architetti italiani finché alla fine del sec. XVII anche architetti del Nord erigono numerose chiese di monasteri, conventi e luoghi di pellegrinaggio, di singolare perfezione. L’ultimo perfezionamento o superamento del Barocco, verso la metà del sec. XVIII, è stato chiamato anche Rococò, ma sembra più raccomandabile la denominazione di tardobarocco. Nello stesso tempo si giunge, soprattutto in ambienti dell’illuminismo francese e inglese, in una sorta di oscillazione pendolare, all’estremo opposto. Si risveglia un nuovo entusiasmo per l’antichità e la sua «nobile semplicità e tacita grandezza». Il nuovo stile è chiamato Classicismo o anche Neoclassicismo. Nella prima metà del sec. XIX, in connessione con il Romanticismo sorge un nuovo entusiasmo per il Medioevo e i suoi stili, romanico e soprattutto gotico. Si arriva a una imitazione storicizzante, a uno Storicismo, che fino ai primi decenni del sec. XX viene caldamente raccomandato e favorito dalle autorità ecclesiastiche delle due grandi confessioni, cattolica e protestante. Uno stile moderno alla fine del sec. XIX è lo stile Liberty, che rivela nuovi impulsi. Il lento superamento dello Storicismo è preparato anche da nuovi materiali e tecniche costruttive, quali vengono scoperti e messi in atto nelle costruzioni profane ancora nel sec. XIX. Si giunge a un nuovo inizio nell’architettura liturgica, al quale generalizzando si dà il nome- di architettura liturgica moderna, senza voler comprendere con esso la molteplicità delle nuove forme architettoniche. In questa fase la nuova coscienza liturgica col suo cristocentrismo ha un ruolo essenziale.
3. Orientamenti e criteri per l’architettura liturgica
Dalla comprensione teologica, dalle esperienze della storia dell’architettura liturgica e dalle affermazioni conciliari e postconciliari emergono i seguenti orientamenti, ai quali bisogna riconoscere un valore permanente:
a) L’architettura liturgica deve tener conto della comunità
Il popolo di Dio è strutturato e consiste di clero e di laici; entrambi però, nello Spirito santo, sono uniti in un solo Corpo mistico. Questa unità della comunità di Cristo non deve essere oscurata, ma messa in luce dall’architettura liturgica. Così da un lato è giusto ed è prescritto di porre l’area dell’altare davanti alla comunità, d’altra parte la coesione dell’unica comunità, che si ritrova nell’azione liturgica, non può essere compromessa dal punto di vista spaziale. Ciò accadeva ad es. nel Medioevo (Romanico) con il pergamo (in Italia; in Germania, il lettorio e in Francia lo jubè) tra il presbiterio e la navata che divideva l’unico spazio in una zona dei ministri e una dei fedeli, con distinte liturgie. Anche l’iconostasi (parete ricoperta da immagini) dei riti orientali non può essere affatto considerata come ideale, tanto più che anche nella chiesa antica non ci fu mai una disciplina dell’arcano per i fedeli. Inadatte a manifestare l’unità del popolo di Dio sono anche grate del coro massicce ed elevate, presbiteri stretti e profondi, aree presbiterali alte e di tipo palcoscenico, di fronte alle quali i fedeli stanno come puri spettatori. Anche strette navate longitudinali, che fanno della comunità quasi una colonna in marcia e che talvolta sono state raccomandate come «chiese del cammino» (R. Schwarz), mettono in ombra il fatto che la comunità nel suo pellegrinaggio si è radunata per una celebrazione conviviale attorno al suo Signore.
b) Lo spazio liturgico deve tener conto della liturgia
Riguardo alle azioni liturgiche esso deve essere funzionale, cioè deve facilitare al meglio la loro celebrazione. Poiché la celebrazione eucaristica è la parte essenziale della liturgia, la collocazione e la conformazione dell’altare è di particolare importanza. La I Istruzione per l’applicazione della SC richiede che esso sia staccato dalla parete per potervi girare attorno. «Nell’edificio sacro sia posto in luogo tale da risultare come il centro ideale a cui spontaneamente converga l’attenzione di tutta l’assemblea... Inoltre il presbiterio attorno all’altare sia di ampiezza sufficiente a consentire un agevole svolgimento dei riti sacri» (91). Bisogna evitare che la vista dell’altare sia compromessa da finestre troppo chiare retrostanti, da strutture troppo mosse e da sculture distraenti, con le quali l’altare stesso è posto in ombra nella sua qualità di “sacra mensa” (è il suo nome nelle chiese orientali) e simbolo del Signore che si offre al Padre e si dona ai fedeli. Poiché con la celebrazione eucaristica è anche strettamente unita la liturgia della Parola, anche l’ambone, come luogo dell’annuncio, deve partecipare di questa posizione centrale e polarizzante dell’altare (“mensa della Parola”). Anche per il luogo del Battesimo (battistero) si richiede con buoni motivi, per il rilevante significato dell’evento battesimale, che sia in vista della comunità.
c) Lo spazio liturgico dovrebbe avere carattere di segno e di richiamo
Poiché la celebrazione eucaristica è essenzialmente la riunione pasquale della comunità attorno al suo Signore glorificato e di qui riceve la gioia, il conforto e la forza delle promesse divine, lo spazio liturgico dovrebbe avere un’impronta di elevazione festosa, dovrebbe essere riflesso delle promesse divine e chiamata a una speranza fiduciosa, un Sursum corda in pietra. In passato questa qualità è stata designata di preferenza come sacralità. Oggi questa parola suscita in molti una forte opposizione perché, si dice, a partire dall’incarnazione di Cristo (consecratio mundi = santificazione del mondo) la distinzione sacro-profano sarebbe caduta. Questo tema negli ultimi decenni ha offerto lo spunto per una abbondante letteratura (4), le cui divergenti definizioni hanno portato a numerosi equivoci. Tuttavia, se si considera la profanità nel senso di H. Müblen, che su questo tema ha offerto dei lavori ben documentati come «distinzione della creazione da Dio» e la sacralità come «riferimento finale a questo unico Dio santo», allora i due concetti non sono opposti, ma si condizionano reciprocamente. Se si riferiscono allo spazio liturgico e al suo arredamento essi mantengono, come realtà creaturali, la loro profanità. Per il loro forte riferimento al Dio santo essi sono allo stesso tempo sacri. Quanto più questo riferimento diventa trasparente tanto più si accentua la loro sacralità ed essi assolvono il loro compito di essere segno e richiamo alla divina vocazione degli uomini.
Sotto questo aspetto gli interni di talune chiese recenti non meritano una buona valutazione perché sono troppo freddi, inospitali e deprimenti, e danno un’impressione di gelo e di vuoto. Una strutturazione dello spazio non riuscita, una grigia monotonia della luce e del colore e la povertà dell’arredamento artistico non simboleggiano la dignità dell’assemblea liturgica né sono richiamo e introduzione al mistero liturgico. Questa istanza non deve valere a favore di una architettura liturgica dispendiosa e pretenziosa né di una appariscente monumentalità, che più che attirare urtano l’uomo d’oggi.
In questo contesto è il caso di accennare già qui al programma figurativo delle nostre chiese. Le immagini possono essere segno e annuncio, e, nel loro genere, servizio alla fede. Come la musica, esse possono accogliere e irradiare un contenuto spirituale. In questo senso dipinti e sculture sono più che un insegnamento per gli analfabeti: essi hanno una forza di annuncio autonoma e un significato missionario. Una conferma ne dà il francese Y. M. Congar: «Talune chiese adempiono in modo rilevante a questo compito di essere segno dell’esistenza e della verità di un altro mondo. Così talune conversioni avvennero o cominciarono a Chartres solo per il fatto che pietra e vetro sono divenute un segno»
d) Gli spazi pluriuso sono da considerare solo come soluzioni di emergenza
Talvolta difficoltà amministrative od ostacoli di natura economico-finanziaria hanno portato necessariamente a rinunciare a un edificio liturgico vero e proprio e ad accontentarsi di uno spazio pluriuso. Nel caso un tale spazio (sala) serve non solo alla celebrazione della liturgia, ma anche ad altre iniziative comunitarie della parrocchia. Dati i presupposti citati ci si dovrà rassegnare a tali spazi multifunzionali. D’altra parte si cerca qua e là, richiamandosi alle necessità del mondo e al «basso livello di utilizzo» di edifici liturgici e sale comunitarie dedicate esclusivamente al culto, di caldeggiare tali spazi pluriuso come l’imperativo del momento. Al proposito occorre osservare che, dato il rilevante e insostituibile significato di celebrazioni ottimali, deve restare obiettivo irrinunciabile quello di creare spazi veramente sacri con carattere di segno e di richiamo. Spazi liturgici multifunzionali sono per lo più anche neutrali dal punto di vista della funzione, e dovrebbero perciò essere considerati solo come soluzione di emergenza e non come un ideale pastorale (5).
4. Nomi e tipi di edifici liturgici
Dei numerosi nomi degli edifici e degli spazi liturgici che si sono formati nel corso della storia, alcuni contengono anche indicazioni sulla loro specifica funzione.
a) Tempio
Questa parola (latino: templum) deriva dal verbo greco témnein= tagliare, separare, e significa originariamente un pezzo di terra che è stato separato dal terreno rimanente per essere dedicato, come boschetto sacro o come edificio, a una divinità, I cristiani all’inizio usarono il termine solo per Cristo e per la comunità cristiana.
b) Ecclesia – chiesa – casa di Dio
I primi luoghi di riunione dei cristiani si chiamarono domus ecclesiae = casa della ecclesia e cioè della comunità dei fedeli. Il nome della comunità passò quindi anche al luogo di riunione, così che si può parlare di una ecclesia in senso spirituale e materiale.
Il termine usato nelle lingue di ceppo sassone conosce una evoluzione inversa. Dapprima si parla di oikìa kyriaké = la casa appartenente al Signore. La sua forma abbreviata più tardiva suonava kyriakòn (latino: dominicum), e di qui vennero Kirche, church ecc. Più tardi questo termine fu applicato anche alla comunità. Esso si è affermato soprattutto nelle lingue germaniche e slave, mentre ecclesia è piuttosto alla base delle lingue romanze.
c) Basilica
Dalla sua origine greca il termine deriva il significato di aula regale (da basiléus = re) e indica originariamente il palazzo di un re o la sede di un suo alto ufficiale. Nella Roma precristiana esso sta anche per diverse costruzioni pubbliche. I cristiani adottarono questa parola in riferimento agli edifici liturgici costantiniani con riguardo sia allo stile (un edificio longitudinale diviso da file di colonne, con abside) che ai loro re Cristo. Oggi usiamo il termine per le chiese dello stile basilicale o per chiese che hanno ricevuto questo nome come titolo d’onore dalla superiore autorità della chiesa.
d) Cattedrali
La parola greca càthedra designa nell’antichità greca sia la sede del giudice, del maestro e di chi presiede sia la sedia che nell’antico banchetto funebre è lasciata libera per un determinato defunto. Questa espressione venne assunta per indicare la sede del vescovo nella liturgia cristiana. Da essa egli guida la liturgia e tiene l’omelia. Già nel sec. VI a motivo di questa cattedra le chiese episcopali sono chiamate anche cattedrali (6).
e) Duomo
Questa denominazione deriva da domus episcopalis (= casa del vescovo), per la quale si intendeva la cappella domestica del vescovo, che serviva anche per l’ufficiatura dei canonici e per l’amministrazione dell’arcidiacono. Nell’alto Medioevo questo nome passò alla chiesa episcopale. Anche alcune altre chiese ricevettero questo nome onorifico, anche se non ebbero mai un vescovo. Le chiese della Riforma mantennero le antiche denominazioni.
f) Collegiate
È il titolo di alcune chiese, per lo più antiche, che magari in forza di una fondazione sono sede di un collegio di canonici formanti un Capitolo, distinto da quello della Cattedrale, con l’obbligo della celebrazione comunitaria dell’Ufficio
g) Cripta
La parola latina, presa dal greco, cripta significa nell’antichità un cammino coperto o anche un ambiente con soffitto a volta o una grotta. Con questa parola il cristianesimo primitivo indicava anche corridoi e camere catacombali. Più tardi si intesero gli ambienti, per lo più a volta, sotto l’abside, il coro o anche il quadrato (incrocio del transetto con la navata); tali ambienti sono in forma di galleria, di anello, di camera e di sala. Soprattutto le chiese romaniche hanno comportato la costruzione di cripte realizzando anche spazi a più navate, perfino con corone di cappelle. In conseguenza i presbiteri dovettero essere posti più in alto ed erano accessibili solo attraverso numerosi gradini. Nelle chiese gotiche e barocche raramente ci furono cripte. Punto di partenza per la costruzione delle cripte medioevali furono in molti casi tombe di santi o depositi di reliquie, spesso immediatamente sotto l’altare maggiore.
h) Cappella
La parola è il diminutivo del latino cappa = mantello (veste avvolgente per l’ufficiatura corale). Essa a partire dai re franchi del primo Medioevo indica il luogo di conservazione del leggendario mantello del santo vescovo Martino di Tours alla corte reale di Parigi (Sainte Chapelle). Infine questo nome fu usato anche per gli ambienti liturgici alle corti di signori secolari o religiosi (cappella di una casa, di una corte, di una rocca, di un palazzo, di un castello). Più tardi questo nome passò a indicare i sacerdoti (cappellani) e i cori di cantori di tali cappelle. Già nel Medioevo si costruirono nelle chiese più grandi numerose cappelle laterali, che, come cappelle battesimali e delle confessioni, assolvevano anche a funzioni cultuali o servivano a certi gruppi come luoghi di riunione liturgica.
Nell’uso attuale della lingua si indica con cappella ogni ambiente liturgico che non possiede il pieno statuto giuridico di una chiesa parrocchiale.
i) Oratorio
Derivato dal latino orare = pregare, corrisponde a sala o casa di preghiera e dall’alto Medioevo viene usato per indicare quegli ambienti sacri che non sono chiese parrocchiali, riconosciute dal diritto, ma servono a determinate comunità e famiglie. Oratorio può quindi essere bene equiparato a cappella.
5. L’arredamento delle chiese
a) Altare e tabernacolo
La lingua latina conosce due parole sinonime con il significato di luogo dove arde il fuoco per bruciare il sacrificio (= altare degli olocausti) e cioè altare (da adolere = bruciare) e ara (da arere = ardere). Dalla prima parola citata deriva il nostro altare (non da altus = alto, come per un certo tempo si è pensato). Sorvoliamo qui sui dati della storia delle religioni e su quelli veterotestamentari per dedicarci subito all’altare cristiano.
Originariamente esso era un tavolo mobile per deporvi il pane e il vino. Già Paolo usa l’espressione «mensa del Signore» (1 Cor 10,21); dalle chiese orientali esso viene chiamato “tavola santa”. La lingua greca conosce anche il nome “tavola del sacrificio” (thusicstérion). Dopo la svolta costantiniana si impongono lentamente altari fissi in pietra. Collocazione e forma sono diversi. Originariamente ogni edificio liturgico aveva un solo altare; la cosa però cambia in Occidente verso la fine del sec. VI.
Il culto dei martiri emergente già nel sec. II a porta a erigere volentieri degli altari accanto o sopra le tombe dei martiri. Dove queste non esistono, si usa più tardi collocare delle reliquie sotto o dentro l’altare. Sopra taluni altari si erige una sovrastruttura a baldacchino (ciborio), che secondo l’ideale antico era pensato come un particolar segno di onore. Verso il passaggio al secondo millennio si sviluppò l’uso di porre dietro o anche sopra l’altare, che si tendeva ad addossare sempre più alla parete. dei quadri o dei rilievi: le rettavole (da retro-tabulum) o (super) frontali. Il Gotico le amplia in trittici polittici a pannelli, i quali a partire dal sec. XV poggiano su una sorta di base, la predella (italiano, dall’antico tedesco bretil = pedana). Il Rinascimento e il Barocco vi pongono sopra la grande “ancona o pala d’altare”, un grande quadro, che nel Barocco non solo è era chiuso da colonne come nel Rinascimento, ma è circondato da tutta un’architettura con colonne, cornicioni, timpani e volute, e riccamente ornato da figure di angeli e di santi e anche da reliquiari. Il Rinascimento finì anche per dare all’altare la forma di un sarcofago. Il rinnovamento liturgico del nostro secolo preme di nuovo fortemente per la forma di mensa e per l’installazione centrale dell’altare.
Mentre nell’antichità cristiana sulla “tavola santa” coperta da una tovaglia di lino, oltre al pane e al vino potevano essere collocati solo i testi sacri, a partire dal sec. VIII trovano posto anche i reliquiari e dal sec. XI anche la croce d’altare e i candelieri. La parete frontale dell’altare viene ornata dal primo Medioevo da un prezioso rivestimento, che prende infine il nome di antependium (pallio o paliotto).
La revisione delle prescrizioni sull’altare, voluta dal Vaticano II si orienta soprattutto nel senso della tradizione più antica: in posizione centrale, separato dalla parete, tale che vi si possa girare attorno fisso e in materiale resistente. L’uso di deporre sotto l’altare (non più nella mensa) le reliquie va mantenuto, verificando però la loro autenticità. La pietra sacra, già prescritta negli altari mobili o nei semplici tavoli da celebrazione, non è più necessaria. In luogo delle tre tovaglie di lino finora in uso ne basta una sola. Croce e candelieri possono trovare posto sull’altare o in vicinanza di esso. Figure o statue di santi non possono essere poste sull’altare. Un ornato di fiori è permesso. Se possibile bisogna rinunciare a erigere altari laterali.
La posizione del celebrante all’altare dipese originariamente dall’orientamento a oriente degli oranti e anche delle chiese, e al riguardo bisogna distinguere un orientamento a oriente dell’abside e uno della facciata. Al seguito del Vaticano II la celebrazione verso il popolo viene permessa di nuovo ufficialmente, dopo che in Occidente, per quasi 1000 anni, era andata fuori uso, pur senza essere stata proibita. Nell’ultimo periodo essa si è affermata in tutto l’ambito del rito romano poiché è stata riconosciuta come più significativa e pastoralmente più valida nonostante talune svalutazioni superficiali.
La conservazione delle ostie consacrate, che occorrevano soprattutto per i malati e per il viatico, conobbe nel corso della storia svariati luoghi e forme: abitazione dei chierici, un ambiente adiacente alla chiesa, un recipiente mobile posto sull’altare (pisside), una custodia sospesa sopra l’altare (tabernacolo pensile) spesso in forma di colomba eucaristica, armadietti murali accanto all’altare (armariola), edicole e torri eucaristiche (Tardogotico). Solo col sec. XV si comincia in Spagna e in Italia a fissare il tabernacolo sull’altare. Particolarmente su iniziativa del cardinale di Milano Carlo Borromeo in certi luoghi ciò diventa già nel sec. XVI una prescrizione rigorosa e infine si afferma universalmente. Solo nelle chiese con ufficiatura corale o in chiese di pellegrinaggio molto frequentate la conservazione eucaristica era prevista in una apposita cappella, sull’altare del Santissimo.
Dal 1964 (Istruzione I, 95) il vescovo può autorizzare l’istallazione del tabernacolo anche fuori dell’altare, ad es. su una colonna (stele) o in una nicchia nella parete. L’Istruzione sulla ss. Eucaristia del 1967 (53) ne raccomandò la conservazione in una cappella separata dal corpo centrale della chiesa; similmente anche i PNMR 276 e il Rituale Romanum (Rito della Comunione...’ nr. 9). Il CIC del 1983 richiede per il tabernacolo un luogo distinto e ornato nell’ambito della chiesa, adatto alla preghiera (can. 838 § 2). La presenza eucaristica nel tabernacolo deve essere resa ben riconoscibile attraverso due segni e cioè il conopeo, una copertura in stoffa del tabernacolo, e una lampada perennemente accesa nelle sue vicinanze, la “lampada del Santissimo”.
b) Cattedra e sede presbiterale
La parola greca kàthedra designa nell’antichità il seggio dell’alto ufficiale di stato, del giudice o del maestro. Anche il tardogiudaismo conosceva il concetto di cattedra (Mt 23,2). Il cristianesimo riprese questa espressione per la sede del vescovo nella liturgia, sede dalla quale egli dirigeva la celebrazione e teneva l’omelia. All’inizio essa era posta come seggio mobile alla sommità dell’abside, circondata ai due lati dalle sedi (sedili) dei sacerdoti. Nel sec. IV essa viene messa in risalto per mezzo di un podio e di un baldacchino, ed è assimilata a un trono, in corrispondenza all’alta dignità statale della quale i vescovi, dopo la svolta costantiniana, erano divenuti partecipi. Verso il passaggio al secondo millennio la cattedra viene eretta anche a lato dell’altare. L’Istruzione sulla semplificazione dei riti e delle insegne pontificali, del 21 giugno 1968, stabilisce che la sede del vescovo deve essere chiamata non più trono, ma cattedra e non può più essere sovrastata da un baldacchino, eccettuati i baldacchini artistici esistenti. Il Caeremoniale episcoporum del 1984 sottolinea che la cattedra come sede presidenziale deve essere ben visibile (47).
Quando nel sec. IV sorsero le parrocchie si arrivò presto anche a una sede presidenziale per il sacerdote. Essa perse tuttavia la sua funzione quando il sacerdote, a partire dal primo Medioevo, durante la messa cominciò a tenersi esclusivamente all’altare. Solo durante il Vaticano II se ne ebbe il ripristino (Istruzione I, 92). 1 PNMR parlano, come luogo particolarmente adatto, della sommità del presbiterio se non vi si oppongono la struttura dell’edificio o altri elementi (271). Dalla sede presbiterale il sacerdote guida i riti di introduzione, la liturgia della Parola e (facoltativamente) i riti di conclusione; da essa inoltre può essere tenuta l’omelia e diretta la preghiera universale (PNMR 97, 99). Quanto alla sua conformazione essa non deve avere la forma di un trono e deve evitare una imponenza eccessiva.
c) L’ambone come luogo della proclamazione
Luogo originario della proclamazione liturgica è, come già visto, la cattedra del vescovo o, per le letture, anche le vicine sedi dei presbiteri e degli altri chierici. Quando le chiese diventano più grandi sorge la necessità per motivi acustici di collocare il luogo delle letture e della predica più vicino all’assemblea. Così si giunse alla proclamazione dalle balaustre (cancelli), che talvolta furono spostate avanti oltre il transetto. A questi cancelli si eresse un podio elevato con parapetto, al quale conducevano più gradini, e lo si chiamò ambo(n) (dal greco anabàinein = salire). A partire dal sec. XII si giunse al cosiddetto pergamo (francese: jubé; tedesco Lettner, dal latino lectorium = luogo della lettura), una specie di tribuna per la lettura, che venne eretta tra il presbiterio e la navata centrale. Così l’ambiente liturgico fu diviso in uno spazio per i chierici e in uno per il popolo. Contro il lato rivolto alla navata era eretto l’altare della croce, dominato dalla croce e affiancato dalle sculture di Maria e di s. Giovanni evangelista. Qui erano celebrate le messe per il popolo. Durante il Barocco la maggior parte dei pergami fu rimossa come elementi architettonicamente disturbanti.
Nelle chiese senza pergamo furono collocati nell’alto Medioevo dei pulpiti mobili di legno per essere più vicini ed essere meglio compresi dall’assemblea. A partire dal sec. XXV essi sono addossati come costruzioni in muratura a un pilastro o alla parete longitudinale della navata centrale, per lo più in forma di cesto, sovrastati da un baldacchino e accessibili per mezzo di una scala (a chiocciola). Il nome Kanzel, usato nei paesi di lingua tedesca, ricorda che il luogo originario della proclamazione erano appunto i cancelli. Con la soluzione citata ci si rassegnò a che una parte dei fedeli avesse il predicatore alle spalle specialmente dopo che erano divenuti usuali i sedili fissi. Inoltre fu così oscurata la realtà che la mensa della parola e la mensa del sacramento formano una unità intima.
Col Vaticano II si giunse a un ricupero dell’ambone. La Istruzione (96) lo ha raccomandato come conveniente; una lettera del “Consjlium” romano per la liturgia, del 26 ottobre 1964, lo richiedeva come elemento necessario per il nuovo modo di celebrazione. I PNMR richiedono l’ambone fisso (272). Esso deve essere strutturato e disposto in modo tale che ad esso «durante la liturgia della Parola, spontaneamente si rivolga l’attenzione dei fedeli» (ivi).
d) Il luogo del battesimo
Solo col sec.III si ha testimonianza di veri ambienti per il battesimo, come ad es. nella casa-chiesa di Dura Europos (7). A partire dal sec. IV si conoscono anche edifici destinati all’amministrazione del battesimo, per lo più in prossimità delle chiese principali. In questi battisteri c’era un bacino per l’acqua battesimale incassato nel pavimento, che veniva chiamato piscina (dal latino = vasca per i pesci) ed era accessibile con tre gradini. La sua profondità era di soli 40-60 cm., così che una immersione totale di adulti era appena possibile. Se ne deduce che l’acqua era versata sul battezzato che stava nella vasca ed era così come avvolto da un «mantello d’acqua» (8). Quando il diritto di battesimo, verso la fine dell’antichità, passò dal vescovo ai parroci e prevalsero i battesimi di bambini, ci si accontentò di una vasca mobile di legno o di pietra, o di una tinozza. A partire dall’epoca romanica si hanno fonti battesimali a forma di coppa o di calice per la conservazione dell’acqua battesimale. Essi vennero provvisti di coperchi chiudibili per evitare così che l’acqua si sporcasse o si facesse un uso magico dell’acqua mescolata con olio santo. L’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo e il sinodo provinciale di Milano del 1576 da lui ispirato richiedono per le cattedrali e le altre chiese principali un battistero eretto separatamente, e invece per le chiese parrocchiali un fonte battesimale a sinistra dell’entrata della chiesa. Ne derivò per gran parte della chiesa occidentale una specie di legge non scritta. Nei primi decenni del nostro secolo si invita nuovamente alla costruzione di vere cappelle battesimali. Il nuovo ordinamento della veglia pasquale del 1951 tuttavia rafforza la consapevolezza che il battesimo dovrebbe compiersi in vista dell’assemblea attivamente partecipante, e che allo scopo cappelle battesimali separate sono meno adatte (9). Questa concezione viene ripresa dalla Istruzione I (99) e dai nuovi ordinamenti per la celebrazione del battesimo dei bambini e degli adulti.
Così il fonte battesimale in prossimità dell’ingresso, che ormai serviva per lo più solo come contenitore dell’acqua battesimale, è superato, tanto più che fuori del tempo pasquale ogni volta l’acqua viene appositamente benedetta e solo nel tempo pasquale «se possibile» viene conservata nel fonte. Piuttosto il rito battesimale dovrebbe compiersi nella zona tra l’altare e l’assemblea, e allora l’ambone naturalmente servirebbe per la liturgia della Parola del battesimo. L’atto battesimale vero e proprio potrebbe compiersi davanti all’ambone o (e) al cero pasquale, e al riguardo, in considerazione della diversità degli spazi della chiesa, non è possibile indicare un luogo preciso. Il fonte mobile necessario in questo caso potrebbe tuttavia essere sostituito in chiese adatte da una fontana battesimale artisticamente pregevole con acqua calda corrente. Essa potrebbe anche essere unita con il cero pasquale e così acquistare ulteriore forza simbolica.
e) Il posto della “schola” e dell’organo
Originariamente il canto liturgico venne eseguito da un gruppo di chierici e di monaci, al quale in seguito furono aggiunti anche fanciulli (chorus psallentium; schola cantorum). Esso aveva il suo posto attorno o davanti all’altare, fino alle balaustre, Così del resto anche l’intero presbiterio ricevette il nome di coro. Anche il pergamo e nel Barocco i matronei nella parte posteriore della chiesa furono posti per la schola. Ci furono però anche tribune, matronei e balconate (cantorie) dietro, accanto e sopra l’altare, queste ultime soprattutto nelle chiese evangeliche.
Il Vaticano II assegna ai componenti delle scholae cantorum un «vero ministero liturgico» (SC 29). I PNMR accomunano a essi anche tutti gli altri fedeli che collaborano musicalmente nella liturgia e specialmente gli organisti (63). Cantori e organisti devono chiaramente apparire come parte della comunità riunita (Istruzione I, 97) e la loro collocazione deve facilitare a essi «la piena partecipazione alla messa, cioè la partecipazione sacramentale» (PNMR 274). Così la discussione sul posto ottimale della schola è stata nuovamente ravvivata da un documento ufficiale. Già nel terzo e quarto decennio del nostro secolo in alcune chiese “moderne” era stato previsto come luogo della schola lo spazio immediatamente vicino all’altare. Certo in molte chiese recenti, con la loro ampia zona presbiterale, ciò è maggiormente possibile.
Problemi più ampi si pongono in rapporto al posto ottimale per l’organo e gli organisti. Dopo che l’organo, attraverso delle donazioni da Bisanzio (77 e 811), era stato conosciuto nel regno dei Franchi esso ha acquistato una importante funzione liturgica in Occidente. Solo a partire dal tardo Medioevo ci sono concrete indicazioni per la sua ubicazione . Nelle chiese cattoliche del sec. XIX si afferma di regola la tribuna posteriore. Dopo il Vaticano II si rafforzano le tendenze a dare anche all’organo un posto in prossimità dell’altare, sia su una tribuna laterale o in piano. Tuttavia per rendere possibile l’unità quanto allo spazio tra schola e organo - spesso infatti l’organista è anche direttore della schola - ci si dovrà spesso accontentare di un piccolo organo da coro (supplementare). A tentativi di collocare in prossimità dell’altare solo la “consolle” e di lasciare l’organo sulla tribuna posteriore vengono opposte dai costruttori d’organo serie considerazioni, che mettono in guardia di fronte a una diminuzione di qualità del suono dello strumento quando si sostituisce la trasmissione meccanica con quella elettrica. Così in talune chiese i problemi per la collocazione ottimale dell’organo e della schola rimangono ancora insoluti.
f) Portale e atrio
Già gli edifici liturgici carolingi e nello stile degli Ottoni, ma soprattutto il Romanico e il Gotico dedicarono al portale della chiesa particolare attenzione e gli diedero una conformazione artistica. Essi vi vedono simboleggiata la porta coeli (= porta del cielo), che introduce nella celeste Gerusalemme. Anche il simbolismo cristologico del portale (Gv 10,9; 10,7) ha qui un ruolo importante, che si può constatare nelle numerose rappresentazioni di Cristo dei portali medioevali delle chiese. La moderna architettura liturgica orna per lo più discretamente i portali con simboli biblici o liturgici.
Poiché il superare la soglia della chiesa richiede interiore purezza, non solo (a partire dal sec. VIII) prima della liturgia domenicale si sono aspersi i fedeli con acqua benedetta, ma sorse presto anche l’uso di aspergersi entrando nella casa di Dio con l’acqua benedetta o di segnarsi con essa. A tale scopo si installarono vicino all’ingresso delle pile dell’acqua benedetta. Al significato della purificazione si aggiunse anche il tema del ricordo del battesimo.
Come richiamo alla interiore preparazione e purificazione deve essere inteso anche l’uso di collocare davanti alle basiliche paleocristiane e altomedievali un atrio, una sorta di cortile rettangolare o quadrato, della larghezza della navata, circondato su tre o quattro lati da porticati con colonne. La presenza di una fontana al centro di alberi e cespugli sempreverdi fornì il motivo per chiamarlo giardino del paradiso o brevemente Paradiso. Nello stesso tempo i portici erano luogo d’incontro dei fedeli e in taluni luoghi anche luogo dove si intrattenevano i catecumeni. Nell’alto Medioevo la costruzione di tali atti lentamente viene meno.
Nell’architettura liturgica bizantina all’atrio corrisponde il nartece detto anche pronao, un vestibolo posto davanti alla navata dei fedeli.
In epoca recente si è riscoperta l’importante funzione di un atrio quale spazio di riunione e di interiore purificazione e lo si è raccomandato per i nuovi edifici.
g) Campanili e campane
L’antichità cristiana non conosceva torri accanto alle chiese. Gli inizi della costruzione di campanili in Occidente risalgono al regno di Carlo Magno. All’origine si suppone una doppia componente: il monumento sepolcrale dell’antichità, che ispira la torre sulla campata d’incrocio o su quella del presbiterio del primo Medioevo, e la funzione come opera di difesa, che esercita un influsso specialmente sulla “facciata occidentale” (Westfassade) di certe architetture di duomo e di chiesa conventuale.
Lentamente anche chiese meno importanti ricevono una propria torre e qui sopravviene il concetto simbolico della cittadella di Dio e più tardi anche la funzione di torre campanaria. Nelle chiese con matronei le scale delle torri rendono possibile l’accesso al piano superiore; talune torri romaniche del Medioevo con le loro ampie scale a chiocciola con gradini bassi servono anche al trasporto di materiale da costruzione e di acqua per spegnere incendi. Gli ordini mendicanti o riformati (ad es. Cistercensi) rinunciarono alla costruzione di torri come a un dispendio superfluo. In Italia si sviluppa ben presto la torre campanaria separata dalla chiesa (campanile). La maggior parte dei campanili porta alla sommità una croce o un gallo, il che non è un segno di distinzione tra le confessioni cattolica e protestante.
Il gallo sul campanile (documentato già per il sec. IX) è simbolo di colui che chiama alla penitenza e alla vigilanza e quindi anche simbolo di Cristo.
La patria delle campane è la Cina, dove già nel sec. XII a.C. c’erano piccole campane. In ambiente cristiano le campane vengono accolte dapprima dai monasteri; in Occidente esse arrivano, principalmente attraverso i monaci itineranti iro-scozzesi, anche nelle parrocchie. Il loro compito consiste nel chiamare i fedeli alla liturgia e nell’essere messaggere di eventi lieti e tristi. A partire dal sec. XII talune chiese hanno già un intero concerto, e alle singole campane vengono assegnate particolari funzioni. Il nome di cloche (francese), Glocke (tedesco), attraverso il basso latino ciocca deriva probabilmente dallo slavo antico klakol (= rintronare), come anche il latino (e l’italiano) campana viene fatto risalire allo slavo antico kampan = curvare. Una benedizione delle campane si sviluppò dapprima in Gallia. Il rito del Pontificale romano in vigore dal 1961 è molto semplificato (riti principali: aspersione con acqua benedetta, unzione con crisma in forma di croce in quattro luoghi). Celebrante era il vescovo o un sacerdote da lui incaricato. Un nuovo ordinamento si è avuto col nuovo Rituale Romanum (De benedictionibus) (1984). Il rito, che può essere compiuto da un sacerdote, ha la seguente struttura: introduzione, liturgia della Parola con molte proposte di letture, breve omelia e preghiera universale, preghiera di benedizione (due forme), aspersione con acqua benedetta e incenso, accompagnata dal canto del Sal 149, e solenne benedizione conclusiva. La benedizione delle campane può aver luogo anche nel corso di una messa e precisamente dopo l’omelia.
6. La dedicazione delle chiese e degli altari
a) Panorama storico
L’inaugurazione di una nuova chiesa fu celebrata fin da principio con grande gioia. Essa aveva luogo con una solenne celebrazione eucaristica del vescovo e rispettiva omelia. A Roma fin al sec. VII non. si conobbe alcun altro rito. In Oriente invece si sviluppò già presto un ricco cerimoniale, valevole soprattutto per l’altare. In esso ebbe un ruolo particolare la deposizione dei corpi di martiri o di santi e più tardi anche delle loro reliquie. A partire dal II concilio di Nicea del 787 è prescritto di deporre in o sotto ogni altare delle reliquie. I riti gioiosi dell’Oriente influenzarono già nel sec. VI anche la Spagna e la Gallia. Si giunge a un complesso cerimoniale per la dedicazione della chiesa e dell’altare, nel quale entrarono anche numerosi elementi ispirati dalla legge rituale ebraica e dalla concezione religiosa dell’antichità pagana, e in misura ridotta dal Nuovo Testamento. A partire dal sec. IX si ha uno scambio di elementi romani e gallicano-franchi. Con il “Pontificale romano-germanico” giungono a Roma verso il 960 due redazioni del nuovo rito e vengono ivi recepite come il rito romano della dedicazione della chiesa. Verso la fine del sec. XIII il vescovo Guglielmo Durando di Mende (Francia meridionale) lo sviluppa ulteriormente. In questa forma esso si mantiene nell’essenziale fino al sec. XX. Non da ultimo per una sollecitazione del vescovo di Mainz Alberi Stohr nel 1956 , si ha nel 1961 una modesta riduzione senza un essenziale alleggerimento e un miglioramento qualitativo. Come risultato degli sforzi di riforma postconciliari appare nel 1977 l’editio typica del nuovo rito, come fascicolo del Pontificale Romanum, con il titolo Ordo dedicationis ecclesiae et altaris. L’edizione italiana di tale rito apparve nel 1980 con il titolo Benedizione degli oli e Dedicazione della chiesa e dell’altare; essa forma la base dell’esposizione che segue.
b) La posa della prima pietra (celebrazione per l’inizio della costruzione)
La celebrazione della posa della prima pietra, il primo capitolo del nuovo rito, si forma già nell’alto Medioevo. Competente è il vescovo diocesano, il quale però può anche incaricare un altro vescovo e in caso eccezionale anche un sacerdote. Il vescovo spiega dapprima il senso della posa della prima pietra e recita una orazione iniziale. Quindi va in processione con i fedeli al luogo della costruzione, dove il posto previsto per l’altare è segnalato con una croce di legno. Segue una liturgia della Parola con una o più letture seguite dall’omelia del vescovo. Quindi viene letto e sottoscritto il verbale della benedizione, si benedice e si asperge con acqua benedetta l’area della nuova chiesa, la prima pietra viene benedetta e posta con il verbale nelle fondamenta; la preghiera dei fedeli col Padre nostro e un’orazione, e i riti di conclusione terminano la celebrazione.
c) La celebrazione della dedicazione di una chiesa
Delle ampie premesse all’inizio del Il capitolo uniscono affermazioni sulla «Natura e dignità delle chiese» con indicazioni più pastorali e rubricali. La dedicazione è del tutto integrata nella celebrazione eucaristica «il rito più importante e l’unico indispensabile per la dedicazione di una chiesa» (II, 41).
L’ingresso in chiesa può svolgersi in tre forme. La forma A prevede una processione alla nuova chiesa con le reliquie da porre nell’altare; davanti al portale ancora chiuso l’edificio è simbolicamente consegnato al vescovo. Quindi il vescovo, dopo l’invito a entrare nella chiesa, vi entra lui stesso seguito dai fedeli. La forma B si limita a eliminare la processione che precede. Nella forma C i fedeli sono già riuniti nella chiesa quando il vescovo entra nel presbiterio, ivi gli viene fatta la consegna simbolica dell’edificio. Nelle tre forme le reliquie, circondate da ceri accesi, vengono disposte nel presbiterio. Quindi viene benedetta l’acqua e ne vengono aspersi il popolo, le pareti della chiesa e l’altare. Con il Gloria e la Colletta terminano i riti iniziali.
La liturgia della Parola è introdotta dalla solenne ostensione del lezionario da parte del vescovo, il quale lo consegna quindi al primo lettore. Dopo l’omelia del vescovo e il Credo vengono cantate le litanie dei santi e le reliquie vengono deposte sotto l’altare. Successivamente il vescovo canta (o dice) la Preghiera di dedicazione, che esprime bene la teologia neotestamentaria dell’edificio liturgico. Quindi vengono unte col crisma la mensa dell’altare e le pareti della chiesa; quest’ultima unzione avviene segnando col crisma dodici (o quattro) croci, che in riferimento ad Ap 21,14 sono anche chiamate croci degli apostoli. Dagli apostoli prendono nome anche i ceri accesi posti sotto le dodici croci. Successivamente viene bruciato dell’incenso sull’altare e vengono incensati l’altare, il vescovo, i fedeli e le pareti, con l’accompagnamento di un canto. Dopo che l’altare è stato ripulito, ricoperto con una tovaglia e ornato con i fiori, i candelieri e la croce, la chiesa viene illuminata a festa come segno che Cristo, “luce del mondo”, ne ha preso possesso.
Nella liturgia eucaristica che inizia a questo punto si prende la Preghiera eucaristica I o II con una particolare inserzione come intercessione. Il Prefazio proprio presenta ancora una volta con linguaggio lirico le più importanti affermazioni teologiche sulla chiesa costruita con pietre morte e su quella edificata con pietre viventi. Detta l’orazione dopo la comunione il vescovo porta la pisside con le ostie consacrate al tabernacolo (nella cappella del Santissimo) e in tal modo lo inaugura. Segue la benedizione solenne e il congedo.
Note
1) F. Mussner, Jesu und “das Haus des Vaters” - Jesus als, “Tempel”, in Freude am Gottesdienst, 272.
2) Cfr. H.-J. Klauck, Hausgemeinde und Hauskirche im früben Christentum, Stuttgart 1981; G. Gnilka, Die neutestamentliche Hausgmeinde, in Freude am Gottesdienst, 229-242.
3) Cfr. Adam, Kirchenbauu, 15 s.
4) È il caso di ricordare tra gli altri: M. Eliade, Das Heilige und das Profapre, Hamburg 1957 [trad. it., Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino]; Th. Bogler (ed.), Das Sakrale Im Widerspruch, Maria Laach 1967; E. J. Lengeling, Sakral-profan. Bericht über die gegenwätige Diskussion in LJ 18 (1964-188; H. Bartsch (ed.), Problerne der Entsakralisierung, München 1970..
5) Adam, Kürchenbau, 82-86
6) Così al concilio di Tarragona (516), cap. 13; cfr. Th. Klauser, Art. Katedra, in LThK2 VI, 67.
7) Cfr. Adam, Kirchenbau, 15 s., 122.
8) Th. Klauser, Taufet in lebendigem Wasser, in Id. (ed.), Pisciculi... (Miscellanea per F.J. Dölger), Münster 1939, 163 s.
9) Th. Maas-Ewerd, Ort und Gestaltung des Taufbrunnens, in Zeichen des Glaubens, 371.