Ciò che ora è impossibile, può diventare possibile, solo se annunciato in un tempo, in cui è ancora ritenuto impossibile. (L. Kolakowski)
Viviamo in tempi difficili. Non è soltanto un problema di difficoltà a livello internazionale. Non è semplicemente una questione di crisi economica, di guerre in corso, di attentati dinamitardi o di presunti scontri di civiltà. Il quadro generale è più complesso ed inquietante.
La nostra si sta rivelando per un'epoca di grandi paure. Paure che si vanno accumulando ed ingigantendo. Basterebbe fare un'analisi dei film che vengono prodotti e trasmessi dalla maggior parte dei canali per dire: ma cosa sta succedendo? Se soltanto fossimo capaci di osservare in maniera un po' più distaccata ed oggettiva queste manifestazioni - senza limitarsi ad un generico rifiuto o restare invischiati in un processo di affascinazione.
Abbiamo paura della minaccia nucleare. Una nube, uno spettro che incombe su di noi. E se è finita la contrapposizione tra le due superpotenze di alcuni anni fa (Usa ed Urss) ora la situazione non è affatto più tranquilla. Nel supermercato nucleare ci sono molti soggetti che operano e ci sono sufficienti motivi per esserne preoccupati. India e Pakistan sono in perenne tensione tra di loro - ed entrambi possiedono armamenti nucleari. Israele è in stato di guerra con i palestinesi - ed ha un nutrito arsenale atomico. Corea del nord, Libia, Iran sono soltanto alcune altre nazioni che hanno investito o stanno investendo sugli armamenti nucleari. Ma non dobbiamo dimenticare le molte altre nazioni. I proiettili all'uranio impoverito, usati nei conflitti degli ultimi due decenni, ci mettono di fronte ad alcune serie conseguenze di un uso indiscriminato - folle - di armi radioattive. Non pensiamo soltanto alle varie centinaia di ex soldati italiani che sono ammalati di tumore a seguito della loro presenza in ambiente contaminato (Bosnia e Kosovo). Pensiamo alla situazione di quelle popolazioni che vivono da anni in terreni contaminati, bevono acqua contaminata e si cibano di alimenti contaminati. O delle conseguenze di Cernobyl…
Abbiamo paura della minaccia epidemologica. Da una trentina di anni a questa parte abbiamo dovuto fare i conti con una nuova, terribile malattia, l'aids. Ogni tanto vengono lanciati gli allarmi di una prossima pandemia. In realtà sono soltanto la punta di un iceberg che assume di volta in volta nomi diversi, ma che genera costantemente tensione e timore: ebola, virus della polmonite atipica - sars, meningite… L'altro, prima di essere soggetto da incontrare, diventa veicolo di possibile trasmissione di infezione e di morte. L'altro, invece che incontrato va evitato. Perché, se in buona fede, potrebbe risultare portatore sano; se in mala fede, mi vuole infettare e vendicare il fatto di essere stato a sua volta infettato.
Abbiamo paura della minaccia dell'inquinamento. Se per una domenica siamo costretti a lasciare a casa la nostra automobile ed abbiamo così l'occasione di fare una bella passeggiata - perché la giornata è piacevole, primaverile - ci resta comunque addosso la coscienza che respiriamo aria sempre più inquinata. Ce lo portiamo inconsciamente addosso. E beviamo acqua minerale e mangiamo cibo biologico. Mucca pazza ed i prodotti transgenici sono due elementi che possiamo ricondurre alla minaccia che sentiamo incombere su di noi: non possiamo più fidarci di ciò che mangiamo, di ciò che beviamo, di ciò che respiriamo. E questa sensazione è tremenda perché si tratta di tre cose di cui non possiamo fare assolutamente a meno.
Abbiamo paura della complessità. Vivere diventa di giorno in giorno sempre più complicato. Nuove leggi, nuove invenzioni, nuovi strumenti, nuovi progetti: richiedono da noi una costante capacità di apprendimento e di adattamento. Chi mi assicura che quello che oggi va bene, domani non è più tale? Che la pratica che ho sempre evaso in un certo modo, possa essere trattata così anche domani. Se si rompe un elettrodomestico è probabile che debba imparare qualcosa in più per poter far funzionare il nuovo. Chi usa il computer da un po' di anni è passato attraverso un continuo cambiamento. Ha usato varie versione dell'MS DOS, fino alla 6.22 poi è passato a Windows 3 (varie versioni) e Windows95 e subito dopo al '98 e al 2000 ed XP o Millennium. E poi Vista, Seven e 8. Non dimentichiamo Windows NT. Forse un po' più fortunati quelli che usano Mac. Linux e Beos richiedono altrettante, se non di più, competenze. E siamo soltanto ai sistemi operativi. Per la videoscrittura, chi ha mosso i primi passi con wordstar, framework, writer o altri programmi simili si trova ad utilizzare oggi tutt'altro. Prendo questi esempi informatici perché è forse il settore che presenta i maggiori cambiamenti, ma si potrebbe dire altrettanto dell'ambito domestico, lavorativo o del tempo libero (quante competenze abbiamo acquisito: cellulari, stereo, CD, VHS, DVD, fotografia digitale, elettrodomestici, decoder…). Di fronte a tutto questo, possiamo imparare, possiamo acquisire nuove capacità e competenze. Ma al tempo stesso abbiamo paura che quello che oggi impariamo, domani non serva più assolutamente a niente. Ci resta addosso il sospetto di non saperci più districare in tutta questa complessità. E ce lo ripetono in continuazione: chi non sta al passo, è out. Quando saremo out? Già oggi? Domani? Dopodomani?
Abbiamo paura di essere ingannati. Di chi possiamo fidarci? Del politico che ha mentito per poter fare una guerra? Che ha mentito attribuendo un attentato ad un gruppo terroristico, cercando di nascondere la realtà? Del macellaio che ci vende delle bellissime bistecche, ma che sono rigonfie di ormoni? Del pubblicitario che ci incita all'acquisto facendo leva sulle proprietà di alcuni elementi che assicurano naturalità, salute, fascino, potere? Della maestra che in realtà fa parte di un'organizzazione pedofila? Del giornalista che mi racconta per due settimane dei pittbull che assalgono i bambini, per un mese del festival di Sanremo e per tutto l'anno del fatto che fa caldo o che fa freddo, ma che non mi informa mai del contenuto di un convegno, di un incontro interreligioso o delle ragioni di chi si oppone ad una legge? Del proprio partner che parla d'amore, ma nel quale potrebbe celarsi l'infettatore o il folle che presto porrà termine ai suoi giorni e a quelli della sua compagna? Della bottiglia d'acqua che è stata manomessa e vi è stata introdotta una sostanza tossica? Del pacco che qualcuno ha dimenticato in un angolo dell'autobus, del treno o del metro? Gli esempi a riguardo non si esaurirebbero. Sono le notizie che costantemente ci raggiungono. E che ci fanno continuamente chiedere: c’è ancora qualcuno di cui ci si possa fidare?
Abbiamo sempre più paura della morte. È strano, la nostra è la società che presenta, rispetto al passato, maggiori possibilità di vita. Una bambina può essere curata nell'ospedale di una nazione lontana, le possono essere trapiantati 8 diversi organi. In Italia abbiamo l'attesa di vita più alta del mondo. I nostri bisnonni ne superavano di poco la metà. A livello etico si discute riguardo alla somministrazione delle cure e al limite da non superare per non ridursi ad un accanimento terapeutico. Eppure ci sono nazioni con disseminate milioni di mine antiuomo. Ci sono situazioni paradossali nelle quali i cani ed i gatti di alcune nazioni consumano molto di più delle persone umane di altre nazioni. Detto in altri termini: la morte per fame è un'esperienza troppo diffusa in molti paesi. Ma all'interno delle nostre ricche nazioni la morte è diventata un tabù. Oggi si muore nelle disperate solitudini asettiche di una spoglia e vuota stanza d'ospedale. Si muore nella solitudine e nell'abbandono. E non educhiamo più i nostri bambini all'esperienza del limite e della morte. Se muore un nonno, diciamo loro che "è partito e non tornerà più". Gli nascondiamo il fatto che qualcuno è morto. Perché?
Abbiamo paura del "sonno della ragione" (F. Goya). Una società complessa produce sempre più persone emarginate, in difficoltà, in crisi, in stato di nevrosi. Molte cose, molti episodi oggi ce li sappiamo spiegare solo nei termini della follia, della pazzia, della malattia mentale. Ci chiediamo: perché una persona si fa esplodere? Rispondiamo: può essere soltanto una follia. Abbiamo paura della follia che imperversa nei nostri giorni e semina germi ovunque. Follia individuale o follia collettiva.
La paura di stare in perenne stato d’assedio. Il nemico è alle porte e ben presto calerà su di noi. Il nemico è lo straniero, il diverso. È qui per portarci via le nostre cose. La ricchezza, le risorse, il lavoro. Oppure per imporci i suoi usi e le sue abitudini. È presente con la sua diversità: linguistica, alimentare, culturale. Ci sentiamo minacciati. L’altro non è percepito portatore di un’esperienza altra che ci può arricchire, ma soltanto di problemi, disagi, pericoli. La salvezza per noi ci può essere soltanto se la fortezza resisterà. Quindi, anche se nutriamo dubbi circa la tenuta della nostra fortezza, si continua a cercare di rafforzarne i bastioni… O reagiamo come gli struzzi. (Sindrome nimby).
Il titolo che ho scelto è un po' forzato. Da per scontato alcune cose. Innanzi tutto, che la speranza sia necessaria. E al tempo stesso che stiamo attraversando momenti difficili. Infine, nonostante la crisi odierna, che è necessario far "ripartire" la speranza. Parlare di speranza non è facile. Non soltanto per il fatto che ci troviamo a vivere in tempi difficili, quanto perché il concetto di speranza viene ricondotto alla matrice giudeo-cristiana del pensiero occidentale. Ed oggi, con questo pensiero, anche con certe sue forme più lontane e secolarizzate (Freud, Marx, ecc), si vuole sempre meno fare i conti - nonostante tutte le (finte) polemiche a riguardo del preambolo della costituzione europea.
Siamo oggi dominati da una delle più spaventose ideologie apparse sulla terra. Ideologia che afferma che non esistono più ideologie, ma soltanto "leggi di mercato". Vale a dire, qualcosa di indiscutibile e indubitabile, che sarebbe soltanto pura follia non accettare. Ebbene, per questa ideologia non ha alcun senso parlare di speranza. Ci sono soltanto i fattori economici che valgono. Ci sono i beni e chi ha la possibilità di possedere questi beni. O, meglio, c’è una spropositata ricchezza di capitali, che crescono incessantemente, a beneficio di pochi. Tramite ricchezza acquisita, merito, fortuna o caso. Questa ideologia ci ha espropriato anche dell'ultimo dono rimasto nel vaso di Pandora. Ci ha espropriato della speranza. Perché parlare di speranza sarebbe (per usare un'espressione di Freud) parlare dell'avvenire di un'illusione. È soltanto l'economia che fa girare il mondo. Il resto è pura illusione.
D'altra parte, in questa critica radicale nei confronti della tradizione giudeo-cristiana, si sottolinea che per le altre tradizioni religiose, quella buddista in primo luogo, non ha alcun senso parlare di speranza. Se tutto è maya (illusione) la speranza diventa il grado più alto, la massima forma della manifestazione di questo mondo di illusioni. Quello che conta sarebbe spogliarsi del mondo delle apparenze per poter iniziare a cogliere la realtà per quello che è: un indicibile nulla.
Quindi, che senso ha parlare di speranza? Anzi, dare per scontato che si debba porla al centro della riflessione per poterle dare un maggior spazio e risalto? Io credo che non a caso oggi il concetto di speranza sia così dimenticato, criticato o bistrattato perché viene percepito come il possibile, potenziale, radicale motore di grandi cambiamenti. Ne sapeva molto bene il filosofo Ernst Bloch, che ha dedicato al Principio speranza un'opera monumentale. Scegliere di parlare di speranza, a mio avviso, vuol dire scegliere di opporsi alla massiva omologazione odierna, di opporsi all'imperversare di questa ideologia economica onnicomprensiva.
Da dove riparte oggi la speranza? Molti di noi hanno sperimentato nella loro vita un paio di decenni di grande speranze. Decenni nei quali si era convinti che il cambiamento era proprio dietro l'angolo. Che sarebbe bastato una grande, magnifica manifestazione di massa per cambiare lo stato delle cose.
Questa stagione è finita. Sono venuti tempi di disillusione e di ripiegamento su se stessi. È vero, ci sono nostalgici (?) che cercano sempre di vedere in giro per il mondo qualche segno di questo possibile cambiamento. Che si aggrappano ora alla sconfitta elettorale di un certo personaggio politico, ora alla vittoria alle elezioni di una determinata coalizione, ora ai successi di qualche movimento di liberazione.
Tuttavia, mi sto convincendo che la speranza, nonostante tutto, non riparte da vari "segni" che possiamo cogliere in giro per il mondo. Se così fosse, saremmo sempre in balia di una alternanza di speranze e di disillusioni - come di fatto è stato nei decenni trascorsi. Oppure rischieremmo di restare radicati, avvinghiati ad esperienze che nel volgere di poco tempo mostrano un volto demoniaco - senza che per questo ce se ne renda conto. E neppure la speranza riparte dalla fiducia che possiamo riporre in questo o in quell'altro personaggio - qualunque esso sia o possa essere in un prossimo futuro.
Io credo che la speranza può ripartire da qualcosa di più semplice, di più piccolo, di più debole. Provo ad indicare alcuni di questi elementi. Elementi che, mi sembra, non dipendono da chissà chi o da chissà quali congiunture della politica e dell'economia mondiale. Ma che dipendono semplicemente da noi, da quello che riusciamo a mettere quotidianamente in gioco. Certo, la critica più immediata che mi può venire rivolta è quella di essere qualcosa di corto respiro, che bisogna ragionare in grande, progettare in grande. Io però sono portato a vedere il piccolo, il particolare. Forse perché ritengo che prima di tutto bisogna sempre partire dalle persone. E quando si parla di persone, si deve sempre parlare di casi particolari. Altrimenti, entriamo nella logica dell'ideologia economicista, dove esistono gli esuberi, gli utenti ed i clienti, ma non le persone.
1. La capacità di mantenere uno sguardo positivo sulle persone, sulla storia e sul mondo. Non è cosa da poco, poiché siamo continuamente bombardati da "cattive notizie" e da troppo tempo non sentiamo le parole di una "buona novella". Eppure credo che continuamente dobbiamo sforzarci di leggere positivamente questa nostra storia e questo nostro tempo. Non per un atto di fede, ma perché la vita e la storia sono sempre molto più ricche, imprevedibili e sapienti di quanto riusciamo ad accogliere. Il mio continuo, quotidiano rapporto con gli immigrati stranieri, mi permette di cogliere come l'approccio alla vita e alla storia possano essere diversi da quello che sono portato a vedere. Come, per motivi culturali e ambientali, molte cose mi sfuggono a causa di nostre letture preconfezionate della realtà. Potrei fare a riguardo molti esempi, ma non mi dilungo. Possiamo leggere diversamente le notizie che quotidianamente ci vengono fornite, anche quelle apparentemente neutre. Un piccolo esempio. L'indagine riferita dai giornali che un quarto degli italiani ha paura di uscire di casa la sera. La possiamo leggere diversamente: tre quarti degli italiani non hanno paura di uscire di casa la sera. Non cambia nulla? La notizia è la stessa, ma credo che cambiano molte cose. È un po' questo quello che intendo per la capacità di mantenere uno sguardo positivo sulla storia e sul mondo. E questo dipende da noi. Dipende da noi credere di non trovarci ai prodomi di un'apocalisse universale, ma semplicemente protagonisti, nel bene e nel male, di una storia (di salvezza).
2. Un passo successivo è rappresentato da quello che Ernst Bloch chiamava l'"ottimismo militante". La capacità di mantenere uno sguardo positivo sulla storia e sul mondo non può essere un atteggiamento disincantato, da buonisti, da pacche sulla spalla e dal "volemose bene". È una capacità che si radica in una "militanza". Vale a dire, che si fa prassi di vita. Richiede coerenza di vita e di scelte. Anche se oggi è estremamente difficile parlare di coerenza di vita e di scelte perché si è convinti che la vita vada vissuta per quello che è, semplicemente per quello che è (Sartre). L'ottimismo militante mi permette di non fare mai la conta. Di non basare il mio agire su di una maggioranza o su di una minoranza. Di restare radicato all'interno della realtà anche quando si presenta polimorfica e trasformista.
3. Per un'esperienza del limite, dell'incompiuto e dell'imperfezione. La speranza può ripartire anche dalla misura in cui all'interno della nostra esperienza siamo capaci di dare posto e una cornice di senso al limite, all'incompiuto e all'imperfezione. L'ideologia economicista non conosce limite (i suoi principi si fondano sul bisogno di consumare ed accumulare sempre di più), non tollera l'imperfezione (i suoi prodotti devono avere la certificazione di qualità, tanto per fare un esempio), nasconde o nega ciò che è incompiuto (qualsiasi persona che acquisti un computer, con il relativo software, riceve qualcosa che viene spacciato per il non plus ultra mentre in realtà è qualcosa di assolutamente "difettoso" e non compiuto). Si tratta di accettare il limite - anche quello estremo della morte - nella nostra vita e nella nostra esperienza. Quante volte, dietro ai nostri fallimenti, si nasconde il fatto che non abbiamo accettato il limite? Accettare l'incompiuto all'interno di una società che ci presenta l'accumulo senza misura come unico possibile obiettivo perseguibile, vuol dire uscire dalla logica che mi fa ricercare l'ultimo modello di automobile, di computer o di elettrodomestico semplicemente perché la sua immagine è stata ancorata al raggiungimento di uno status symbol. Accettare l'imperfezione. Quanti nostri fallimenti interpersonali nascono dal fatto che vogliamo intorno a noi soltanto la perfezione. Perfezione che ci viene richiesta in qualsiasi ambito (lavoro, scuola, tempo libero, ecc.) ma che non saremo mai in grado di offrire. E perciò dobbiamo continuamente soggiacere ad un continuo gioco di maschere con il quale cercare di mostrare almeno un'immagine di perfezione. Ma quanti fallimenti ci lasciamo poi dietro le spalle!
4. Dall'avere all'essere. È quanto tempo fa propugnato da Erich Fromm in un suo fortunato saggio. Essere centrati non sulle cose, ma sulle persone. Qui entrano in gioco anche elementi psicologici e sessuali. I maschi sono tendenzialmente portati a dare maggiore rilevanza alle cose. Le femmine agli aspetti relazionali e alle persone. La speranza riparte dalla nostra capacità di rendere un po' più femminile la dimensione sociale dell'esistenza umana. L'ideologia economicista è una ideologia fortemente maschilista. Non a caso usa ed abusa dell'immagine femminile per veicolare il suo credo consumistico. A volte mi accorgo con disagio che ho voglia di porre termine a un colloquio, a un incontro tra persone, per andarmene a leggere la posta elettronica. Vale a dire, per giocare la mia relazione di fronte ad una cosa: il computer, internet. La fatica a porre sufficiente tempo e spazio alla dimensione relazionale della nostra vita - realmente relazionale e non quella surrogata dalle chat e dai cellulari (siamo sempre nell'ambito delle cose, dell'avere!) - non ci deve far desistere da una incessante ricerca di passare dal piano dell'avere a quello dell'essere. Dal piano dei fruitori di cose, beni e consumi, al piano della relazione, dell'incontro e della convivialità.
5. L'acqua, l'aria, la terra ed il fuoco. A scuola, da bambino, mi insegnavano che per gli antichi erano i 4 elementi che fondavano il mondo. Mi insegnavano che erano concezioni vecchie, ormai superate dalle conquiste della scienza e della tecnica. Noi sappiamo che in realtà il mondo è costituito da atomi, da composti molecolari, da campi di forza. Ci siamo dimenticati che questi 4 elementi (insieme a molte altre cose) rappresentavano e costituiscono dei simboli molto importanti.
Se la terra è soltanto calpestata – cioè i nostri piedi la trattano male – non siamo più di fronte alla vita e alla cultura, ma alla distruzione e alla barbarie. Da custodi diventiamo predatori. A volte mi viene da pensare che trattiamo così male questa terra perché abbiamo perso la consuetudine di camminare a piedi scalzi. I nostri piedi non la sentono più.
Se l’aria è inquinata, questo veleno penetra in noi e a poco a poco ci avvelena. Ma anche noi a poco a poco avveleniamo sempre di più questo mondo. Piuttosto che sentirci in comunione con il creato, ci sentiamo diffidenti verso di esso. È forse strano che aumentino sempre più i casi di asma e di allergia? L’attacco di asma è una frattura che si pone tra di noi ed il mondo.
Se l’acqua è sporca, la vita nostra diventa sempre più sporca. Non sappiamo più cos’è la limpidezza e la purezza. Ci laviamo e non ci sentiamo puliti. Beviamo e non ci sentiamo dissetati.
Il fuoco è sempre più una minaccia. L’aridità di molte zone della terra favorisce gli incendi. Il calore vitale del fuoco si trasforma in distruzione. Nella nostra sete di accumulare ricchezza, costruiamo grandi depositi di combustibili, consumiamo molto più del dovuto, inquiniamo l’acqua, la terra e l’aria. La terra, l’aria, l’acqua ed il fuoco da elementi fondamentali per la nostra vita li trasformiamo nel loro opposto, in veicoli di morte.
L’uso delle cose nasce da qui, dall’uso che facciamo della terra, dell’acqua, dell’aria e del fuoco. O torniamo a scoprire il valore di questi elementi o non sapremo mai usare delle cose e del mondo. Saremo presi dall’uso smodato del denaro. L’unica cosa che conterà sarà fare soldi. Anche se resteremo convinti che non è così per noi, che noi siamo ancorati ad altri valori. Se conosco il vero valore di un bicchiere di acqua, di un ceppo che arde nel camino mentre intorno è il freddo inverno, della buona aria che si respira durante una passeggiata in montagna, della terra che ho sempre sotto la pianta dei miei piedi, sono convinto che la speranza albergherà in noi.
Altrimenti l’uso strumentale delle cose ci porta ad usare anche le persone. A far diventare cose anche le persone. Oggi siamo convinti che con il denaro si compra tutto – quindi anche le persone – quindi anche le persone sono cose. E quando ci si accosta alla vita (penso ad un bambino che nasce, ad un seme che germina, ad un fiore che si apre alla luce del giorno..) ci si deve accostare in punta di piedi, in un atteggiamento di rispetto, di contemplazione. Altrimenti il fiore è subito sgualcito, il germoglio si spezza. La speranza oggi riparte dalla mia capacità di salvaguardare il creato.
6. Fare memoria. Milan Kundera nel suo romanzo La lentezza collega la memoria con l'esperienza della lentezza. Chi ricorda non ha fretta. Il nostro tempo è il tempo della velocità. Non abbiamo più tempo. Siamo travolti dalle infinite cose che dobbiamo (o vorremmo o ci piacerebbe) fare. Siamo sommersi dall'immensità di opportunità che la società odierna ci propone. Quello che stiamo facendo, un po' tutti, è di entrare nel vortice della fretta e della velocità per poter cogliere al volo il maggior numero di occasioni possibili. La speranza riparte dalla nostra capacità di fermarci, di darci tempo. Di concederci all'interno della nostra giornata dei momenti nei quali non fare assolutamente nulla. Assolutamente nulla. Neanche l'ascolto della radio o della musica. Uno spazio di sano ozio. Uno spazio nel quale possa ancora germogliare la nostra disponibilità a fare memoria. A riflettere. A meditare. A rintracciare un filo conduttore all'interno della nostra esperienza e della nostra vita. Un filo conduttore che ci ricolleghi all'esperienza degli altri, di quanti incontriamo quotidianamente nella nostra vita, ma anche di quanti ci hanno preceduto con la loro esperienza.
7. E, quindi, passare dai silenzi al silenzio. Ci sono molti silenzi che riempiono la nostra vita quotidiana e a cui dobbiamo prestare attenzione perché ci stanno impoverendo. Tra coniugi. Tra genitori e figli. Tra colleghi… Dobbiamo tornare a custodire il silenzio. Le nostre giornate sono piene di rumori di fondo. Di disturbo. Facciamo ormai fatica a restare con noi stessi, ad abitare il silenzio. Ma l’esperienza del silenzio ci aiuta a fare memoria (di ciò che abbiamo sperimentato) e a guardare al futuro. A pensare ad esso. Non è un caso che la mancanza di un orizzonte oggi si coniugi con i tanti rumori con cui cerchiamo di riempire i nostri giorni.
8. Fare bene quello che si sta facendo. Può sembrare in contraddizione con quello che ho detto a riguardo del limite e dell'imperfezione. Ed allora mi spiego con un esempio: il lavare i piatti. Di solito, se non si usa la lavastoviglie, è considerata un'incombenza non proprio piacevole. È un qualcosa che si "deve" fare. Quindi, si fa il meno possibile (le file di piatti sporchi si accumulano) o si fa male, pensando a quello che di piacevole potremmo fare al posto di restare a lavare i piatti. La speranza oggi riparte dalla nostra capacità di fare bene le cose che stiamo facendo. Nella misura in cui non cadiamo nel vortice dell'insoddisfazione per ciò che stiamo facendo, nella (vana) attesa di poter finalmente fare qualcosa di piacevole. Si tratta di imparare a gustare le cose e le esperienze, anche quelle più piccole ed apparentemente insignificanti, per quello che sono.
9. Essere narratori di storie. Ma per narrare ci devono essere due condizioni. Qualcuno disposto a raccontare. E qualcuno disposto ad ascoltare. E le storie da narrare quali sono? Sono le (apparenti) piccole storie quotidiane. Le storie di chi non ha storia. Di chi non ha parola. Storie di fatiche e di speranze, di gioie e di dolori, di amore e di rabbia, di solitudine e di solidarietà, di lotta e di ribellione, di morte e di vita. La speranza oggi riparte dalla nostra capacità di narrare storie e di metterci all'ascolto delle mille e mille storie che uomini e donne senza voce oggi stanno vivendo e che hanno bisogno di qualcuno che presti loro voce.
10. Un po' di humour. Saper guardare le cose ed il mondo in maniera non troppo seriosa. Un po' di humour ci permette di non prendere noi stessi troppo sul serio e - di conseguenza - di saper guardare gli altri ed il loro agire con maggior benevolenza. Di essere capaci di guardare le cose, le persone ed il mondo con sufficiente com-passione.
11. Mettere al centro il concetto di vita e non l’economia. Vita nel senso più ampio e universale del termine. Tornare a ciò che per millenni è stata la priorità per gli esseri umani. Non soltanto la vita umana, ma anche la vita animale, la vita vegetale. Vita in tutte le sue manifestazioni. Oggi l’imperativo ci viene dato dall’economia. La vita umana conta ben poco. Qualche caso di tumore in più non è nulla rispetto al guadagno da perseguire.
Appositamente non ho fatto alcun riferimento a testi biblici. Ho voluto fare una lettura che spero possa essere colta un po' da tutti, indipendentemente dalle proprie esperienze in campo religioso. Ma al tempo stesso penso che si possa rileggere ciascuno degli elementi che ho proposto secondo una prospettiva di fede. Vedremmo sicuramente che vengono ad assumere un significato ulteriore per la vita e l'esperienza spirituale cristiana.
Non credo che questa crisi economica possa finire. Di fatto, siamo immersi in una perenne crisi da molti anni. Dobbiamo cambiare stile di vita. Capire che dobbiamo vivere con meno e facendo un buon uso delle cose. E queste sono parole che nessun politico osa pronunciare né alcun banchiere…
Usare e riusare. Non sprecare. Usare fino all’esaurimento del bene. Riciclare.
Usare fonti rinnovabili.
Imparare cosa vuol dire sobrietà.
Tornare a coniugare responsabilità e solidarietà.
«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia». (Don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa)
E per finire, ancora una domanda. Qual è la fonte del nostro agire? Si tratta di una domanda estremamente seria – centrale – per la nostra vita. Soprattutto oggi. Non necessariamente siamo qui sul piano della fede. Non sto ponendo i presupposti per un discorso religioso. La nostra fonte può avere origine, sì, dalle nostre convinzioni religiose. Ma la domanda è generale. Ci coinvolge tutti – che siamo credenti o non credenti. Quali sono i nostri ideali, le nostre convinzioni, i nostri sogni, le nostre aspirazioni, i nostri desideri?… Qual è la fonte a cui possiamo ricorrere per dissetarci, soprattutto in questi tempi difficili?
Guai se non abbiamo una fonte di tal genere. O se per noi si è prosciugata. Ci resterebbe ben poco da gustare della vita. Ed il nostro agire rischierebbe di esaurirsi ben presto. D’inaridirsi.
Lasciamo ancora spazio ai sogni? Ci piace ancora sognare? Sperare vuol anche dire essere persone che continuano a sognare.
Faustino Ferrari