Formazione Religiosa

Sabato, 01 Settembre 2012 16:14

La via per eccellenza, l'amore (1Cor 12,31b-14,1) (Luigi Nason)

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Il discorso prende l'avvio con un superlativo dalla forma così misteriosa da suscitare sicuramente la curiosità dei cristiani di Corinto tesi alla ricerca di esperienze straordinarie.

La Chiesa di Corinto era certamente una comunità ricca di carismi, ma il clima di vivacità e di entusiasmo generato da questa molteplicità e varietà di doni dello Spirito si traduceva in una gara che tendeva aenfatizzare e a far ricercare alcuni carismi, come la glossolalia, che avevano aspetti più spettacolari, favorendo le rivalità, le gelosie e le divisioni. È in questo contesto ecclesiale, evocato da 1Cor 12-14, che Paolo interviene presentando la «via eccellente», quella che dà senso a tutti gli altri doni e senza la quale tutto il resto non conta niente.

«Ricercate i carismi più grandi. E ancora vi voglio mostrare la via per eccellenza (kath'hyperbolên hodon)» (12,31). Il discorso prende l'avvio con un superlativo dalla forma così misteriosa da suscitare sicuramente la curiosità dei cristiani di Corinto tesi alla ricerca di esperienze straordinarie. Questo tono enigmatico continua in tutto il discorso (13,1-13) che, introducendo il termine agape in forma assoluta, quasi personificata, assume un tono sapienziale denso di suggestioni mistiche.

È interessante notare che egli non intende presentare un carisma più grande degli altri, tanto meno una virtù. Il sostantivo hodos, qui utilizzato, nella versione greca dei LXX traduce quasi sempre l' ebraico derek («via»), che nel Primo Testamento indica anzitutto la via che JHWH percorre per rivolgersi verso Israele, suo popolo, rivelandogli la sua volontà salvifica nella Torah, e conseguentemente lo stile di vita del credente che è chiamato a camminare sulle vie di JHWH, accogliendo nella propria vita la sua Parola con un ascolto attento e obbediente.

Ci si accorge subito che questo capitolo, che dal punto di vista dell' analisi retorica costituisce una parentesi o digressione nel contesto letterario dei cc. 12-14, diviene in realtà il vero centro del discorso.

Non solo, ma lo stesso tono del discorso si discosta dalla discussione sui carismi che lo precede (12,1-31) e dalle indicazioni pratiche che devono regolare l' esercizio del dono delle lingue e della profezia in un' assemblea carismatica, perchè si svolga in modo corretto, ossia per l' edificazione della comunità ( 14,1-33).2 Paolo celebra la grandezza dell'agape, tessendone l'elogio in una forma appassionata e solenne, con la chiara intenzione di provocare i cristiani di Corinto a percorrere questa «via eccellente», a sintonizzare la propria vita su questa lunghezza d'onda e non sulla ricerca dei carismi ritenuti più spettacolari. Se è improprio parlare di questo brano come di un cantico o di un inno, come spesso si fa, è altrettanto improprio definirlo un'«esortazione parenetica» o un'«esposizione didattica». E ciò per due motivi: il modo verbale dell'imperativo, tipico della parenesi, non è mai usato e, inoltre, il tono non ha nulla dello stile epistolare vero e proprio che si caratterizza come colloquio con i destinatari.

Pur nella sua indubbia originalità, questo testo ha dei paralleli nella letteratura greca e soprattutto in quella giudeo-ellenistica. Si tratta di testi che esaltano una virtù e ne tessono l'elogio celebrandola come la virtù più grande, come ciò che costituisce il sommo bene per l'uomo. Il libro della Sapienza, in particolare, esalta la «sapienza» (sophia) con una lunga serie di aggettivi che qualificano lo spirito in essa presente, affermando poi che essa è superiore a tutto (Sap 7,22-8,1).

«Su questo sfondo, 1Cor 13 si configura appunto come un encomio dell'agape, ampio e solenne. Ma al di là della forma, si percepisce tutta l'importanza dell' amore qui celebrato, di cui i primi tre versetti sottolineano l' assoluta necessità, i vv. 4-7 l'intrinseca bellezza e dignità, e i vv. 8-13 l'intramontabile durevolezza. Davvero, di più non si poteva dire per proclamare la grandezza dell'amore. Sulla sua linea tematica, e superando l'assioma di Ct 8,6 ("L'agape è forte come la morte"), un testo rabbinico potrà soltanto aggiungere che esso. anzi. "libera dalla morte"».

Se non ho l’amore (13,1-3)

L'effetto enigmatico suscitato in apertura con l'espressione «via eccellente» (12,31b) è ampliato nelle prime tre proposizioni in cui Paolo, con un crescendo di antitesi, instaura un confronto tra agape e la glossolalia, tra agape e i carismi della profezia, della conoscenza di tutti i misteri e della fede taumaturgica, infine tra agapage tutto ciò che può compiere l'uomo a livello di prestazioni eroiche.

«Se io parlo le lingue degli uomini e degli angeli [...] E se io ho (un dono di) profezia e conosco tutti i misteri e tutta la conoscenza (gnõsin), e se ho tutta la fede così da trasportare montagne [...] E se io distribuissi tutti i miei averi per nutrire gli affamati e se consegnassi il mio corpo per avere motivo di vanto...» (13,1-3).

In ciascuno di questi confronti ritorna l'espressione «agapen de me echo (ma non ho amore)». Essa assomiglia molto al linguaggio preferito dai sapienti e dai mistici, poiché è il solo veramente adeguato a chi cerca di dire l'indicibile. Si può pensare all'elogio della sapienza in Gb 28, al dialogo di Francesco d' Assisi con frate Leone sulla «perfetta letizia» o alle poesie di Giovanni della Croce.

lo posso parlare le lingue umane e celesti, ma, se non ho amore, il mio parlare è simile al rumore prodotto da strumenti musicali a percussione che in senso figurato designano il chiacchierare vuoto dei retori (13,1).

Così posso avere il carisma della profezia, della conoscenza piena di tutti i misteri (cf. 1Cor 12,8; 14,6), della fede capace di operare prodigi, ma, se non ho amore, «un nulla sono». Questa espressione radicale richiama Sap 9,6: «Se uno fosse anche perfetto tra i figli dell'uomo, se è privo della sapienza che viene da te sarà ritenuto un nulla» (cf. anche Ct 8, 7b). O, addirittura, posso giungere a distribuire i miei beni o anche a donare la mia vita, ma, se non ho amore, «niente mi giova». Privo di amore anche il gesto più eroico non ha alcuna utilità in riferimento alla salvezza (cf. Rm 2,25; GaI 5,2).

Ciò che colpisce e sorprende è che in questo testo il termine agape ricorre sempre in forma assoluta, senza alcuna specificazione, né soggettiva né oggettiva, contrariamente all'uso che ne fa solitamente Paolo che parla altrove di agape di Dio, di Cristo, dello Spirito o degli uomini. Essa viene perciò presentata come un valore unico e autonomo, anzi viene personificata come la sapienza (hokmah - sophia) in Prv 8 e Sir 24. Una presentazione dell' agape con tale carattere di assolutezza ha un parallelo solo in 1Cor 8,1 (8,2 nella versione CEI), dove Paolo afferma che a differenza della «conoscenza, gnõsis» , che gonfia d' orgoglio, l' agape è costruttiva.

Qui l'agape senza alcuna qualifica viene presentata come «la grandezza che decide dell'essere e non-essere della persona». Per tre volte, infatti, nei vv. 1-3 la situazione ipotetica della mancanza di amore viene espressa con la frase «se non ho amore», che lo presenta come realtà autonoma nei confronti di chi dovrebbe possederla e come realtà senza la quale tutto il resto è nulla.

Non può non colpire l'assenza nei tredici versetti di 1Cor 13 di qualsiasi riferimento esplicito a Dio, a Cristo o allo Spirito. Ma è impossibile leggere questa pagina prescindendo dall' orizzonte del pensiero paolino secondo cui l' amore di Dio, che ci ha donato il suo unico Figlio, e I' amore di Gesù, che ha dato la sua vita per noi, sono rivelazione del mistero dell' agape. Per questo E. Standaert afferma che «l'elogio dell'agape è dunque una specie di cristologia velata - e, continua, - notiamo che Paolo avrebbe potuto privilegiare altri termini invece che l'agape [...] La scelta del temine agape si spiega meglio ai nostri occhi a partire dal suo riferimento altamente cristologico. L’agape per Paolo, così come egli la tematizza altrove nelle sue lettere, è anzitutto l'atto per cui il Cristo è morto sulla croce per i nostri peccati (cf. Rm 8,31ss e 2Cor 5,14-15)». In questo senso si potrebbe dire che I'agape personificata, soggetto dei quindici verbi che troviamo nella seconda parte di questo testo (vv. 4-7), potrebbe essere Cristo stesso.

Chi è l'io che fa da soggetto di tutto ciò che è detto in questa prima parte? Sono evidenti nei vv. 1-3 i riferimenti al contesto ecclesiale di Corinto. «Ma se è vero che, esprimendosi così, I' Apostolo tematizza il desiderio dei corinzi, non è meno giusto riconoscervi in parte anche il proprio desiderio di uomo religioso... In questa prima strofa Paolo conduce fino a un punto limite questo "io" che implica sia l'autore che i suoi destinatari. Questo io, come costretto, non può far altro che riconoscere la sua innata incapacità». Tuttavia questo «io» non è solo quello autobiografico di Paolo o quello dei corinzi: è un «io» tipico, simile a quello di Rm 7, che rappresenta ogni credente o forse addirittura ogni uomo.

Che cosa fa l’amore e che cosa non fa (13,4-7)

Scompare in questa seconda parte ogni pronome personale, anzi è esplicitamente negato al v. 5 dove si dice che l' agape «non ricerca il suo interesse».

L'agape è l 'unico soggetto dei quindici verbi che tratteggiano il suo dinamismo: due sono in forma positiva, otto in forma negativa e cinque nuovamente in forma positiva. Oltre a qualificare l'amore nel suo fare, provocando implicitamente la comunità di Corinto a sintonizzare la propria vita su questa lunghezza d'onda e non sulla ricerca dei carismi più spettacolari, con i verbi negativi Paolo critica il comportamento dei suoi destinatari.

Il fatto che l'agape sia soggetto di otto verbi negativi e di sette verbi positivi suggerisce che l' amore autentico è quello che trova una sapiente armonia tra atteggiamenti passivi e attivi, tra fare e non fare. Chi vive solo di atteggiamenti passivi può sembrare mite e buono, ma in realtà può essere soltanto una persona indifferente e disinteressata nei confronti degli altri. D'altra parte colui nel quale prevalgono gli atteggiamenti attivi può rischiare di fare tante cose per gli altri, cadendo nella tentazione di un attivismo senza intelligenza e senza misura che in realtà nasconde una fuga da se per paura della solitudine e una strumentalizzazione degli altri cercati non per se stessi, ma per rispondere al proprio sfrenato impulso di agire.

Nella prima parte il desiderio era smascherato nella sua inanità. Ora, il desiderio è contemplato nella sua dimensione trasfigurata dall' agire totalmente gratuito di Dio rivelato da Gesù Cristo, cui l'uomo è chiamato ad acconsentire in modo libero e gratuito, accogliendo l' amore come frutto dello Spirito che lo rende capace di tutto. «Tessendo l’elogio dell'agape, Paolo raggiunge irresistibilmente il dinamismo essenziale della sua vita in Cristo, così come egli lo esprime tra l'altro in Fil 2,5-11 [...] Ascoltando il rapporto contrastato tra la prima e la seconda strofa di questo elogio dell' agape, si è condotti a riconoscervi una trasposizione della celebre formula della lettera ai Galati: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (2,20)»

«L'amore è magnanimo, benevolo è l'amore...» (13,4a). Le prime due qualità dell' amore, espresse mediante i verbi «essere magnanimo, makrothumein» e «essere benevolo, chrêsteusthai», ne manifestano la realtà più profonda. La magnanimità è la capacità di uno sguardo che si spalanca sugli altri e sulla realtà con grande apertura di orizzonti.

È quello sguardo che suscita la possibilità di «fare il bene» con affabilità e discrezione sull'esempio di Gesù che «passò facendo del bene» (At 10,38). La magnanimità e la benevolenza sono i tratti che caratterizzano l'agire di Dio nei confronti degli uomini e fanno parte di quella realtà che Paolo chiama «frutto» dello Spirito. Esse devono caratterizzare lo stile dell'apostolo e di ogni cristiano.

Seguono otto verbi in forma negativa: «...non è invidioso, [...] non è borioso, non si gonfia d'orgoglio, non compie azioni vergognose, non ricerca il proprio interesse, non si lascia andare all'ira, non tiene conto del male, non gioisce per l'ingiustizia, ma si compiace della verità» (13,4b-6). Questi verbi indicano gli atteggiamenti che non sono compatibili con l'agape. Si tratta di atteggiamenti di invidia e di rivalità, che compaiono tra le «opere della carne» in GaI 5,20 e negli elenchi dei vizi in Rm 13,13 e 2Cor 12,20; di atteggiamenti di superiorità nei confronti degli altri considerati inferiori, di autoesaltazione orgogliosa; di comportamenti sconvenienti che feriscono l'altro, di azioni che rinchiudono chi le compie nel cerchio egoistico del proprio interesse, di reazioni di ira e di rancore. Chiude questa lunga serie di verbi in forma negativa una proposizione antitetica in cui si dice che l'agape non si lascia coinvolgere in sentimenti di gioia quando si trova a fare esperienza della ingiustizia, ma manifesta compiacenza gioiosa di fronte a tutto ciò che è vero e giusto.

L'elogio dell'agape si conclude con quattro brevi proposizioni in cui ritorna con insistenza il motivo della totalità: «... Tutto sostiene, in tutto ha fiducia, tutto spera, tutto sopporta» (13,7). L'amore è capace di sostenere ogni avversità e non si arrende di fronte alle difficoltà, non perde mai la fiducia nella vita e non cessa mai di sperare.

L’amore non viene mai meno (13,8-13)

Il confronto tra l'agape e i carismi, già presente nella prima parte, ritorna nella terza parte, introdotto da un'espressione molto simile in apparenza ai verbi in forma negativa della seconda parte, ma in realtà qualificata da una sfumatura temporale che la differenzia nettamente da ciò che precede: «L'agape non viene mai meno» (13,8a).

È questo «mai» che fa dell' agape «la via eccellente». Il confronto è situato sull' orizzonte escatologico. E, infatti, dell' agape si nega la fine, che è invece il destino ineluttabile dei carismi, in particolare dei tre che sono presi come termini di confronto: la profezia, la glossolalia e la conoscenza; «Invece sia le profezie saranno eliminate, sia le lingue cesseranno, sia la conoscenza sarà eliminata» (13,8b). Anche se poi il confronto finisce per concentrarsi sul tema del «conoscere» (13,9-12).

Il rapporto tra i carismi e l'agape è un rapporto tra ciò che è «parziale, ek merous» e ciò che è «perfetto, teleion»: «Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è parziale sarà eliminato» (13,10). L'immagine del bambino e dell'uomo è utilizzata da Paolo per mostrare che le esperienze carismatiche appartengono all' ordine storico, quello delle cose che sono destinate a «scomparire» nel mondo futuro nel quale invece continuerà a sussistere l'agape. L' antitesi tra tempo storico ed escatologia continua al v. 12 dove sono contrapposti il vedere «mediante uno specchio in modo confuso, en ainigmati» e il vedere «faccia a faccia», il conoscere parziale (ginõskein) e il conoscere perfetto (epiginõskein), che sarà simile al conoscere di Dio (cf. 1Cor 8,3): il primo modo proprio del tempo presente (arti), l'altro del mondo futuro (tote).

L'affermazione finale (13,13) introduce un tema nuovo, il tema della maggior grandezza dell'agape rispetto alla fede e alla speranza. In questo il v. 13 si distacca dal tema dei versetti precedenti, discostandosi anche dal motivo escatologico del perdurare oltre il tempo in essi presente.

La superiorità dell' amore è affermata all' interno di una triade che caratterizza essenzialmente l' esistenza cristiana nel tempo presente: fede, speranza e amore compaiono più volte, non sempre nello stesso ordine, nell'epistolario paolino. L'apparizione improvvisa di questa triade non deve sorprendere perchè costituisce uno sviluppo del pensiero di Paolo che si può formulare così: non solo l'amore è più grande dei carismi, ma anche tra queste «tre grandezze», che qualificano l'identità cristiana, risalta il valore eccellente dell'amore. Per questo l'agape è la via kath'hyperbolên (12,31b).

Paolo conclude esortando a «perseguire l'amore» (14,1a), ritornando così al motivo parenetico, introdotto in 12,31a: «Ricercate i carismi più grandi». Questo invito riprende in forma positiva il «se non ho amore» dei vv. 1-3, esortando a percorrere la «via regale», perchè solo l'amore, che è libero e gratuito traboccamento della pienezza di Dio, pone in essere il cristiano.

È questa pienezza che, liberamente accolta, lo rende capace di proclamare con gioia incontenibile (cf. Rrn 8,31-39) che, dall'evento della morte-risurrezione di Cristo, nulla potrà separarlo dall' agape di Dio che è Gesù Cristo nostro Signore.

Luigi Nason

(da Parole di vita, 3, 2002)

 

Letto 5038 volte Ultima modifica il Martedì, 23 Aprile 2013 09:11
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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