(…) Vorrei esprimere quello che dovrebbero dire persone più accreditate di me nella Chiesa: ringraziarvi per averci offerto questi racconti, che sono pieni di coraggio, di autenticità, di dubbi, di ricerche e sconcerto, questo mondo che condividono molti di quelli che sono usciti dal sistema clericale e molti di quelli che sono rimasti: non è facile aprirsi ad una decisione tanto radicale con la trasparenza e l'onestà con la quale è stata presa.
Insieme ai ringraziamenti, a tempo debito, si dovrà pronunciare una parola di perdono per la sofferenza inutile provocata ingiustamente, soprattutto per l'umiliazione istituzionale al momento di affrontare i processi di riduzione allo stato laicale: le voci e i silenzi che procedono dalla sofferenza umana.
Devo dire che questi racconti hanno provocato in me quello che descrive molto bene la scrittrice Angeles Mastretta nel suo libro "Donne dagli occhi grandi". La protagonista, disperata di fronte ai limiti della medicina, riesce a salvare la vita della sua piccola figlia sussurrandole all'orecchio le storie delle sue antenate. Queste storie per me hanno avuto un carattere curativo. E hanno prodotto quello che riferisce Martin Buber a proposito di suo nonno a cui una volta chiesero di raccontare una storia del suo maestro. Egli raccontò come il santo Baal Sheem era solito saltare e danzare mentre pregava. Suo nonno, dice Buber, si alzò e raccontò in modo tale da avvertire la necessità di saltare e danzare come faceva il maestro. In quel momento, curò. Così si raccontano le Storie.
Che contributo posso portate a questo incontro nel quadro della presentazione di questi racconti?
Tutte le storie hanno in comune l'immagine dell'uscita.
Perché andiamo via? Da dove usciamo e verso dove andiamo?
(...) Segnalerò le tre biforcazioni che considero fondamentali e i dilemmi e le rotte per le quali non si è navigato in una prospettiva teologica.
I - L'era dell'interpretazione
O accettiamo l'era dell'interpretazione o ci perdiamo per la strada dell'unico. Sembra ovvio oggi che esistano molte interpretazioni legittime e prospettive accreditate nella ricezione della Bibbia; è un fatto evidente che il Concilio Vaticano II sia stato costruito sull'accordo e l'incontro fra molte sensibilità. La diversità di interpretazioni non è venuta dopo la Bibbia né dopo il Concilio, ma appartiene alla storia stessa del Vangelo e del Concilio.
L'esistenza di Gerusalemme e di Antiochia significa, secondo Paolo VI, che è pericoloso che la Chiesa "respiri con un solo polmone". La Chiesa ha cominciato a farsi cattolica il giorno in cui i giudeo-ellenici non si trovarono a proprio agio nella comunità di Gerusalemme e abbandonarono la sua disciplina. La cattolicità della Chiesa è nata perché alcuni cristiani uscirono da Gerusalemme. Nessuno è accreditato per delegittimare la posizione antiochena che vuole rendere credibile la fede di fronte alla ragione scientifica, alla critica storica o alla prassi liberatrice.
Nonostante ciò risulti ovvio, Gerusalemme non l'ha mai accettato con piacere optando piuttosto per cammini unici. E anche per impossessarsi di Pietro come è successo nella storia. Il problema non è ignorare l'esistenza dei molti passaggi che conducono alla pietra preziosa, ma che uno di essi si imponga sugli altri e contro gli altri, al punto da metterli a tacere e tagliarli fuori.
L'ultimo capitolo di questa avventura predatoria (un unico cammino divora gli altri) si è prodotto nel campo dell'interpretazione. Nel discorso programmatico dell'attuale pontificato, si afferma di fronte alla Curia che il problema oggi consiste nel raggiungere la giusta ermeneutica. Il problema, si dice, è lo scontro tra due interpretazioni contrarie: la discontinuità e la continuità.
O tutto continua uguale (il cammino unico) o cadiamo nella discontinuità che crea rottura nella Chiesa. Perché si dimentica la terza via della riforma, ecclesia semper reformanda? Per rafforzate il cammino unico si paventa la dittatura del relativismo. Quelli che vogliono la riforma si identificano con una posizione di rottura e di conseguenza devono andarsene, giacché, se si accettassero cammini plurali di realizzazione dei carismi e del sacerdozio, cadremmo nel relativismo.
Cammino unico o uscita. Mentre era matura la pluralità di modi di realizzazione del sacerdozio, si è imposto il cammino unico (...). Utilizzando la simbologia biblica. si e verificata l'appropriazione del sacerdozio da parte di Gerusalemme ed Antiochia è stata fatta tacere (...).
Non aver incorporato questo segno dei tempi (la posizione antiochena) a livello di organizzazione e di disciplina ecclesiastica ci ha lasciato senza muscolatura né competenza per affrontare quella che oggi è la grande questione: il pluralismo religioso, la diversità di religioni, la diversità di civiltà. Quello che ieri era una semplice questione ecclesiastica oggi e una questione dogmatica.
Si passa sotto silenzio il fatto che "Dio ha un cammino vergine per ogni persona" (León Felipe). Come ha scritto S. Giovanni della Croce, "A che serve se tu dai a Dio una cosa se Egli te ne chiede un'altra? Considera quello che Dio vorrebbe e fallo".
Dio non canta in gregoriano, né parla latino, ma si esprime nell'Hip Hop, nella musica africana e in valenciano. Quando questo succede, bisogna ascoltare i messaggi che giungono da lontano, dall'altra parte. "Le Chiese del Terzo Mondo ci inviano impulsi di rinnovamento che noi non riceviamo o non accogliamo del tutto, perché li subordiniamo troppo rapidamente alle nostre concezioni note e spesso logore" (J. B. Metz).
Per questo non abbiamo potuto realizzare la transizione da una Chiesa eurocentrica e centralista a una Chiesa universale culturalmente policentrica (...).
II - L'emergere del soggetto
La rotta più importante per cui non si è transitato e stato l'emergere del soggetto adulto, con coscienza propria e libertà personale, con corpo e con sentimenti, con genere e sesso. E in questo modo ci sfugge il maggiore segno dei tempi da cui provengono impulsi di rinnovamento: il sorgere dell' individuo. il soggetto sessuato di carne ed ossa è giunto per restare.
Il sorgere del soggetto è accompagnato da una triplice esigenza. La prima consiste nell'”approfondire la dignità e l'autorità attribuite dal Concilio a tutti e a ciascuno dei credenti", come propone il teologo tedesco J. B.Metz. Si tratta di riconoscere la maggiore età dei credenti e le loro capacità; di passare dalla situazione di comunità assistite al protagonismo dei credenti.
La seconda esigenza è data dal superamento, in nome dell'individualità, del discorso ecclesiastico malato di astrazione e generalizzazioni. Questa patologia dell'astrazione viene rappresentata mirabilmente dal film "Mare dentro". "Perché non vuole vivere? Per caso i tetraplegici non possono amare?", domanda un prete a Ramòn Sanpedro. La domanda è un rimprovero mosso dal possessore della verità e da un sapere distante. Ramòn non dice "Io non parlo dei tetraplegici, parlo di me". Il contrappunto lo fornisce una donna, che si sente commossa e colpita. “Perché non posso abbracciarti. La distanza tra la vita e la morte è l'abbraccio”.
La terza rotta che non è stata percorsa è quella degli affetti, di una Chiesa calda, del riconoscimento cordiale, dello spazio di misericordia, del soggetto che ama e sente corporalmente. Quanto più freddo e impassibile, tanto più sacerdotale; quanto più distante, tanto più fedele; quanto più solitario, tanto più virtuoso; quanto più celibe, tanto più casto. Alcune Chiese si sono trasformate in frigoriferi di affetti. In realtà, non ci sono due divorzi uguali, non c'è una gioventù come si deve, una famiglia come si deve, non ci sono due casi uguali di ritorno allo stato laicale, non ci sono difese generiche della vita. L'incarnazione disattiva i meccanismi di astrazione e, al suo posto, attiva il "farsi carne", che si dispiega in compassione personale, in riconoscimento, in vicinanza e amicizia (...).
III - L'era della dissidenza
Un altro dei segni dei tempi è il valore della dissidenza. La necessaria dissidenza e la necessaria unità non sono escludenti ma complementari. La dissidenza significa non arrendersi alle cose così come sono e lottare per le cose come dovrebbero essere, ma sapendo che dopo bisognerà cambiare quanto è stato cambiato. Don Chisciotte senza Sancho sarebbe penoso e pericoloso, perché confonde il sogno con la realtà. Don Chisciotte ha bisogno di Sancho "per percepire l'odore di stalla di Aldonza, i colori, i sapori, gli alimenti, il sangue, il sudore e il piacere sensuale dell'esistenza, senza cui l'utopia sarebbe una prigione asfissiante" (Claudio Magris).
Nessuna organizzazione è legittimata a rubarci il diritto alla dissidenza, che rivendica la ricerca umile e l'inquietudine permanente. Questo diritto non può essere cancellato dall'esistenza di un Catechismo né da un papa teologo né da manifestazioni in Plaza de Colón. La dissidenza salverà il futuro (...).
L'ossessione contro i dissidenti ci spinge verso il ghetto, che, come ha avvertito Rahner, è il pericolo permanente della Chiesa. Che significa ghetto? È scegliere di ripiegare in gruppi omogenei che praticano la ritirata difensiva di fronte alla complessità. E si fissano nel passato della Chiesa e nella restaurazione delle forme che erano in vigore in quel momento.
Si abbandona quello che ci ha affascinato del Concilio, il fatto che fosse la convocazione di un popolo che "cammina verso la città futura" (LG) con un potenziale profetico, in grado di contemplare orizzonti, un potenziale curativo, per sanare ferite, e un potenziale celebrativo, per animare chi è stanco, in solidarietà con i figli di questa terra.
La città futura esige fiducia, il ghetto evoca paura. La Chiesa che abbiamo amato ha voluto esorcizzare la paura. E stato perfino cambiato il nome dello Schema XIII proposto al Concilio. Da “Le gioie e i timori" della proposta si passò a "Le gioie e le speranze". Il Concilio è stato interpretato come una nuova Pentecoste a significare l'avvento del tempo della speranza, del tempo della libertà e della creatività. Ma soprattutto il tempo del Dio sempre più grande: più grande della sua Chiesa e interessato anche a ciò che è fuori di essa.
Questa esperienza di libertà ci ha portato ad aprire ponti, tunnel e passaggi per accedere alla pietra preziosa. Non si temeva la ragione, né la ricerca né le diverse spiritualità. Sapevamo che senza questi ponti la Chiesa non sarebbe entrata in pieno nel XXI secolo (Lain Entralgo).
Ma poi è arrivata la paura, che focalizza tutte le energie per al difesa, dispiegandosi in molti fronti: paura della libertà, paura di aprire le porte dei seminari, di abbandonare la disciplina e l'ordine. Paura del contagio e dell'abbandono: se non serriamo le fila, la gente se ne andrà (...).
La paura produce due conseguenze gravi che sono state denunciate da alcune testimonianze: la resistenza selettiva che porta a stringere un'alleanza con chi possa difenderci dalla paura (...). E, insieme alla resistenza, la restaurazione, che conduce ad una Chiesa fortezza senza ponti levatoi. Celebrare l'identità è indossare l'abito che separa e distingue. Dai muri ecclesiastici ci si attende che garantiscano l'identità e difendano dagli attacchi esterni e dalle convulsioni interne.
L'ultimo capitolo della paura è la privatizzazione della ragione all'interno della Chiesa. Ogni volta che qualcuno proclama una verità etica o esprime l'opinione della comunità di credenti è diventato costume invocare "Secondo la dottrina della Chiesa...", "Così pensano i cristiani e si esprime un'opinione sulle cellule staminali o sulle coppie di fatto o sull'origine dell'universo, si dirà che parliamo per i cristiani. In questo modo si indebolisce la volontà di verità e si consacra la ragione settaria, che serve solo ai membri del proprio gruppo. Il cattolico si avvicina non necessariamente al settario.
Ma abbiamo perso soprattutto la ricchezza dell'apprendimento. È più facile per la Chiesa essere maestra che apprendista; si sente meglio quando detta massime morali che quando deve ascoltare dalla scienza qualche indicazione o ricevere da altre tradizioni religiose qualche arricchimento. Tuttavia, non esiste alcuna religione così perfetta da non avere nulla da ricevere, né alcuna religione così povera da non poter dare qualcosa (...).
IV - La voce e l'uscita
La dissidenza non e un atto di infedeltà, ma può essere un esercizio di lealtà. Nella rotta unica fedeltà significa solo continuità e inerzia. Queste storie introducono un altro concetto di fedeltà, che permette di comprendere come la dissidenza, per molesta che possa apparire, non sia sempre frutto di cattiva volontà, ma possa essere frutto di una coscienza più o meno formata che si ha l'obbligo di seguire.
Dal momento che ci troviamo in un contesto accademico, cercherò di formularlo con categorie sociologiche. Quando un organismo si deteriora, afferma Alfred Hirschmann, si aprono due vie: gli uni abbandonano l'organismo - l'opzione dell'uscita per la quale il numero di membri si riduce e i responsabili si vedono obbligati a trovare i modi di far fronte ai vuoti -; gli altri esprimono la propria insoddisfazione direttamente ai responsabili o mediante una protesta generale diretta a chiunque voglia ascoltarli l'opzione della voce.
In entrambi i casi si esprime una fedeltà orientata a cercare le cause e i rimedi dell'insoddisfazione; entrambi sono meccanismi di recupero. Vi sono condizioni in cui prevale l'opzione dell'uscita, altre in cui prevale quella della voce. In nessun caso si può ideologizzare l'una o l'altra senza entrare nel cammino unico.
V - Amore e disamore
Per questo è un errore enorme identificare il ritorno allo stato laicale con la slealtà o con il disamore. Chi si avvicini a queste storie e lo faccia con umiltà, senza spirito inquisitoriale, osserverà che non si ama la Chiesa solo quando si appartiene al clero, ma quando si servono gli esseri umani in nome Suo.
Ricordo il dialogo con la volpe e la rosa nel Piccolo Principe di Saint-Exupery: "Vai a rivedere le rose; comprenderai che la tua è unica. Quando ritornerai a dirmi addio ti regalerò un segreto”.
E vide che la rosa era unica, perché tra quella che lui aveva innaffiato, accolto, liberato dagli insetti, che aveva sentito lamentarsi e a volte anche tacere. "Perché è la mia rosa”.
E tornò perché la volpe gli rivelasse il segreto. "Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi. E il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa".
Queste storie ci hanno regalato un segreto. Quanti hanno innaffiato l'orto, gli hanno dedicato il loro tempo, sono parte per sempre di questa avventura evangelica o semplicemente umana.
Mi permetto allora di augurare a gli amici che hanno scritto questo libro le tre certezze di Fernando Pessoa:
Di tutto sono rimaste tre cose:
la certezza che stavo sempre cominciando
la certezza che dovevo continuare
e la certezza che sarei stato interrotto prima di terminare.
Fare dell'interruzione un cammino nuovo
Della paura una scala,
del sogno un ponte,
della ricerca un incontro.
Joaquin Garcia Roca
(da Adista, 15 marzo 2008, n. 22, pp. 10-12)