Formazione Religiosa

Mercoledì, 27 Aprile 2011 21:51

Figli di Dio e figli del mondo (Marco Galloni)

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Il tema riproposto dal teologo Vito Mancuso è stato: “Figli di chi?”. La domanda ha avuto tre possibili risposte. La prima è che siamo figli di altri uomini, la seconda che siamo figli del mondo, la terza che siamo figli di Dio.

 

Figli di Dio e figli del mondo

di Marco Galloni

Roma, 18 marzo 2011, monastero camaldolese di San Gregorio al Celio: l’incontro con Vito Mancuso, il sesto degli incontri celimontani di quest’anno, inizia con una sorta di colpo di mano. Al professore non piace il titolo proposto, “L’uomo figlio unico di se stesso”: lo trova ermetico, bizzarro, persino fuorviante. Noi non ci siamo dati, esordisce Mancuso: questa è una delle poche certezze che abbiamo. Non sappiamo da dove veniamo, ma di certo veniamo: la storia della spiritualità umana non nasce proprio da questa consapevolezza? Il professore riferisce quindi un detto medievale citato da Karl Jaspers nel suo “La fede filosofica di fronte alla rivelazione”, un testo del 1962: “Vengo non so da dove, sono non so chi, vado non so dove, e tuttavia mi stupisco di essere lieto”. Gli esseri umani si sono sempre posti questo interrogativo, e hanno interpretato la loro figliolanza in due modi opposti: il primo è quello pessimistico, gnostico, che rivive nel ‘900 sotto il tema esplicitato da Heidegger con il termine “Geworfenheit”, la “gettatezza”, l’essere nel mondo, l’essere-per-la-morte. L’altra prospettiva, viceversa, pensa le origini come cura, come attenzione, come creazione.

FIGLI DI CHI?

Ecco quindi il titolo riproposto dal teologo brianzolo: “Figli di chi?”. La domanda ha tre possibili risposte. La prima è che siamo figli di altri uomini, la seconda che siamo figli del mondo, la terza che siamo figli di Dio. Che siamo figli di altri uomini è evidente, non è una “quaestio disputata”. Occorre solo precisare che, oltre che dei nostri genitori, siamo anche figli del contesto in cui nasciamo, della società, della cultura, della nostra nazione. La seconda risposta, invece, merita senz’altro di essere approfondita: siamo figli del mondo o figli di Dio? Cosa intendiamo quando diciamo che siamo figli di Dio? In genere intendiamo che lui ci ha creati, ci ha voluti. Ma in che modo questa concezione si armonizza con l’altra, cioè che siamo figli del mondo? Dicendo che siamo figli di Dio rimandiamo al termine creazione; dicendo che siamo figli del mondo rimandiamo invece all’evoluzione. Come mettiamo insieme queste due dimensioni, questi due aspetti di un’unica realtà? La prima cosa da fare, dichiara Mancuso, è mettersi d’accordo nel definire la vita, e la vita umana in particolare. Poi, essendo il cristianesimo un concetto che, come l’essere per Aristotele, si può dire in molti modi diversi, occorre stabilire cosa intendiamo quando ci diciamo cristiani. Dunque vediamo: cosa vuol dire vita umana? Io penso a me stesso e a ciascuno di noi, prosegue Mancuso, come a un sistema che ha la forma di una spirale ascendente. Sono convinto, aggiunge il teologo, che il movimento che genera ciò che chiamiamo vita abbia questa forma di spirale. Lo vediamo nelle galassie, che sono organizzate così, nel nostro codice genetico, nella doppia elica del DNA. Siamo innanzitutto corpo, e su questo non è necessario soffermarsi, tanto la cosa è evidente. Ma anche questo è un corpo fisico, afferma il professore indicando la targhetta che, sul tavolo, riporta il suo nome. Qual è la differenza tra me e questa targhetta? La differenza è che il totale dell’energia che forma la targhetta - le molecole, gli atomi, le particelle subatomiche, i fermioni, i bosoni, eccetera – si tramuta, si solidifica completamente nella massa corporea. Quindi il totale dell’energia meno l’energia tradotta nella massa corporea della targhetta, uguale zero: ecco perché la targhetta è un corpo inanimato. Mentre io, gli altri uomini, ma anche i fiori, le piante, gli animali, tutto ciò che vive, insomma, esprimiamo un altro tipo di equazione: il totale dell’energia che costituisce questi corpi meno la massa corporea dà “x”, dove “x” è maggiore di zero. C’è un surplus, un’eccedenza, c’è un po’ di energia libera, e questa energia libera è ciò che fa vivere questi corpi, che ne fa, per l’appunto, degli esseri viventi.

DA BÍOS A LÓGOS

Dunque noi uomini siamo corpi dotati di energia libera, il che si esplica in diversi livelli. C’è innanzitutto “bíos”, il livello di vita vegetale, i nostri sistemi linfatici, circolatori, eccetera: c’è una dimensione vegetativa del nostro essere. Salendo lungo la spirale arriviamo poi a un ulteriore livello: “zoé”, da cui zoologia. Siamo infatti anche vita animale, siamo un fenomeno zoologico. Basti pensare all’istinto sessuale, all’istinto della nutrizione, agli istinti di branco: anche gli esseri umani hanno i greggi, le mandrie, gli stormi, non solo gli animali. Ma la spirale sale ancora e da “zoé” si passa a “psyché”: con il nostro temperamento, il nostro carattere, noi siamo anche vita psichica. Eraclito diceva che il carattere è il destino che grava su di noi. Esistono caratteri davvero difficili da portare. Ci sono persone dal carattere radioso, positivo, e ce ne sono altre che, con il loro temperamento oppositivo, scontroso, contrastano con quel movimento ascendente di cui stiamo parlando. Questo è un dato di fatto. E se siamo figli di Dio, perché queste diseguaglianze? In fondo anche Gesù, nella parabola dei talenti, prevede tali differenze: c’è il fortunato a cui vengono dati cinque talenti, a un altro tre, a un altro ancora uno solo. Poi però, stranamente, chi viene rimproverato è proprio quello che ne ha uno solo e non capisce che deve spenderlo, metterlo in questo circolo virtuoso della spirale che sale. La spirale sale, e noi, oltre a essere “sòma”, “bíos”, “zoé” e “psyché”, siamo “lógos”, vita logica, capacità di calcolo, di astrazione. Questa è l’arma più potente che la selezione naturale ha dato agli esseri umani. Il “lógos” inteso in senso soggettivo, come ragione calcolante, perché poi esiste un “lógos” in senso oggettivo, cioè la “ratio” complessiva del mondo, il respiro del cosmo, ciò che fa sì che l’essere si muova secondo la spirale ascendente. Ebbene questo “lógos” soggettivo, cui dobbiamo la capacità di distanziarci dagli eventi, di ragionare, di capire per esempio se una certa relazione è proficua oppure no, è il dono più grande che la selezione naturale ha fatto alla specie “homo sapiens sapiens”, comparsa, dicono, tra 160.000 e 200.000 anni fa.

LA MATERIA “MATER”

Ma c’è un livello ancora più alto, quello del “pnèuma”. Ed è proprio indagando il livello dello spirito, del “pnèuma”, che possiamo capire esattamente in che senso siamo figli di Dio. Perché che siamo figli del mondo, lo abbiamo detto, è fin troppo evidente: siamo “sòma”, prima di tutto. Da dove vengono gli elementi costitutivi del nostro corpo? Lo sappiamo bene, ce lo insegnano la biologia e la astrobiologia: vengono dall’esplosione delle stelle di seconda e terza generazione. Il carbonio che costituisce buona parte del nostro organismo vivente viene da lì. Il nostro corpo è costituito da 18 elementi atomici, e tuttavia la gran parte di esso è fatta di soli 6 elementi: ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, calcio, fosforo. È del tutto evidente che da questo punto di vista siamo figli della materia, che si chiama così perché viene da “mater”, madre. Nel nostro organismo ospitiamo microorganismi in ragione di 10 volte il numero delle nostre cellule, e abbiamo miliardi di miliardi di cellule: siamo un condominio di minuscole creature, senza le quali non vivremmo. “Creati dagli animali”, diceva Charles Darwin: non possiamo negarlo né dimenticarlo. Così come non possiamo negare, sia consentito il breve inciso polemico, le due radici dell’occidente, i suoi polmoni: Atene e Gerusalemme. Sono due i polmoni, non uno soltanto. L’occidente ha radici ebraico-cristiane, questo è indiscutibile, ma è anche figlio della paganità, della mentalità greca e romana: se la gerarchia della Chiesa cattolica, al tempo della battaglia sulla costituzione europea, avesse ricordato entrambe le radici dell’occidente, se ci fosse stato questo atto di esattezza storica e di onestà intellettuale, non ci sarebbe stato nessun problema, la cosa sarebbe stata accettata da tutti.

LO SPIRITO COME LIBERTÀ

E veniamo al “pnèuma”, allo spirito. Cosa intendiamo quando parliamo di spirito? La mia tesi, dice Mancuso, è molto semplice: il termine spirito è la categoria che la mente umana, sia greca sia ebraica (gli ebrei hanno “ruàh”), ha coniato per dire la libertà, il fenomeno della libertà. Spirito è la categoria che dice in senso ontologico e statico ciò che la libertà dice in modo dinamico e pragmatico, ma il fenomeno è il medesimo. Ciascuno di noi, per il fatto di essere “sòma”, “bíos”, “zoé”, “psyché”, è condotto sui binari di madre natura esattamente come lo sono gli scoiattoli, i passeri, le querce. Ma, a differenza di queste specie non dotate di libero arbitrio, l’uomo ha la possibilità di deragliare. L’essere umano è l’unica creatura in grado di porre il male morale, inteso come peccato, come vedere il bene, la giustizia, la luce, e volere il loro contrario. Ma allo stesso modo l’uomo può scegliere di salire, di decollare, di smettere di essere un treno per diventare un aereo. Possiamo volare, e la storia dell’uomo non si spiega senza la possibilità di questo volo, di questa libertà spirituale rispetto alle necessità imposteci dal nostro essere “sòma”, “zoé” e “bíos”. Possiamo arrivare a essere liberi da queste necessità, siano esse di tipo genetico o ambientale. Possiamo diventare padroni delle imperfezioni del nostro carattere lavorando su noi stessi mediante una disciplina spirituale o una regola monastica, che sono tra le attività più alte cui un essere umano possa dedicarsi. L’arte, la cultura, lo spirito, la religione, la filosofia, il pensiero, la musica: tutto questo è il risultato della possibilità che l’uomo ha di abbandonare la pianura delle rotaie e salire, volare. E in questo senso noi siamo figli di Dio, inteso come spirito: “Theòs pnèuma estín”, Dio è spirito. Cosa intendiamo quando diciamo Dio, quando pensiamo a lui? Aristotele diceva che il pensiero non può procedere se non immagina. Quando pensiamo siamo necessariamente costretti a porre delle immagini. E allora quali sono le immagini che formiamo nella nostra mente quando proferiamo il termine Dio? È importante stabilirlo per evitare ogni antropomorfismo, per non crearci una specie di grande fratello celeste a nostra disposizione. Quali sono queste immagini? Ce lo dice il Nuovo Testamento, che usa solamente tre parole come predicato dell’espressione “Dio è”: Dio è luce (“phòs”), Dio è amore (“agápe”), Dio è spirito (“pnèuma”). Allora nel nostro essere creature spirituali, cioè dotate di libertà, di una libertà che si determina come amore, noi in questo siamo figli di Dio.

LA LUCE INTERIORE DELL’UOMO CHE È IN ME

Vito Mancuso conclude l’incontro con due citazioni. La prima è di Pierre Teilhard de Chardin, il gesuita-paleontologo cui va il merito di aver tentato per primo di conciliare creazione ed evoluzione, il nostro essere figli del mondo e figli di Dio. Una conciliazione che solo da pochissimo tempo è presa in seria considerazione dalla teologia ufficiale e dal magistero della Chiesa. Prima c’era l’aut-aut: o si accettava che l’uomo deriva in tutto e per tutto da Dio, compresa la sua corporeità, oppure si era fuori. A Teilhard, difatti, fu proibito l’insegnamento all’Institut Catholique di Parigi e fu imposto l’esilio in Cina. Ebbene, durante il periodo cinese un monaco suo amico chiese a Teilhard de Chardin: “Dimmi qual è la tua fede, in cosa credi”. E Teilhard rispose con un breve scritto che risale al 28 ottobre 1934. Eccone una sintesi: “Se a seguito di qualche capovolgimento interiore io dovessi perdere la mia fede in Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede nello spirito, continuerei invincibilmente a credere nel mondo. Il mondo, il valore, l’infallibilità, la bontà del mondo: ecco, in ultima analisi, la prima, l’ultima e la sola cosa in cui io credo. È di questa fede che io vivo, ed è a questa fede che io, lo sento, nell’ora della morte, oltrepassando tutti i dubbi, mi abbandonerò”.

La seconda citazione è di sant’Agostino, e si trova nel libro X delle “Confessioni”: “Che cosa amo quando amo te, o Dio?” (“Quid autem amo, cum te amo?”). La risposta non è la Chiesa, la Bibbia, non il mondo fisico. Quando amo te, dice Agostino, amo la luce dell’uomo interiore che è in me. Ed eccoci di nuovo alla luce, a Dio luce, “phòs”. Siamo dunque figli del mondo, e il mondo lavora, anche se non sempre in un modo ordinato, perché produce anche le catastrofi naturali, le malattie genetiche. Ma lavora, e in tal modo produce questi livelli sempre più alti di vita, il più alto dei quali è la vita libera. E, ancora più in alto, la vita libera che si determina verso la santità, che giunge a volere solo il bene, la giustizia, l’amore. Essere santi non vuol dire altro che questo: legare la propria libertà, il proprio arbitrio a ciò che chiamiamo bene, amore, giustizia, e che il termine Dio evoca potentemente dentro di noi. Siamo figli di Dio e figli del mondo. Il mondo lavora e produce la materia-mater. Ma produce in noi anche questa figliolanza divina che consiste nella bellezza della vita spirituale.

Letto 2334 volte Ultima modifica il Sabato, 30 Aprile 2011 10:02
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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