Le opere di misericordia "corporali"
Fame e vangelo
di Cettina Militello
Introducendo al percorso sulle opere di misericordia, è stato gioco forza evocare il tema della fame e delle sue terribili cifre: un bollettino di guerra ben più atroce di quelli che con indifferenza metabolizziamo ogni giorno relativi a omicidi, stragi, terrorismo, guerre vere e proprie, danni collaterali inclusi. Vorremmo ora entrare nel vivo del discorso del "dar da mangiare". Partendo certo dall'emergenza fame, denutrizione, morte, ma collocandoci in un contesto più ampio.
Il "dar da mangiare agli affamati" evoca la beatitudine che più volte la Scrittura promette loro. Li si dice beati non perché hanno fame, ovviamente, ma perché vengono - verranno - saziati. Questo della sazietà risolutiva che premia gli indigenti e lascia a bocca asciutta i ricchi e potenti è tema veterotestamentario, prim'ancora che evangelico. Personalmente ne colgo la portata assolutamente rivoluzionaria, di sovvertimento delle regole politiche e sociali, nel Magnificat, là dove Luca pone sulle labbra della madre del Signore esattamente le parole: «Ha ricolmato di beni gli affamati» (cf S1 107,9b).
Il verbo in questione oscilla tra il saziare e ricolmare, perché i beni possono avere uno spettro più ampio del cibo. Resta però, nel percorso opposto riservato ai ricchi, l'aspettativa di un disegno altro, diverso da quello sin lì sperimentato. Che la fame abbia una valenza metaforica, potrebbe suggerircelo la beatitudine di Matteo (5,6). In essa è esplicitamente evocata la sazietà, ma la fame (e la sete) sono riferite alla giustizia, e dunque a un ordine sociale diverso, quello del regno di Dio, assolutamente inedito e nuovo.
Queste veloci affermazioni, come pure il rimando al loro entroterra, potrebbero avallare una collocazione al futuro del regno di Dio e potremmo anche supporre che la sazietà di cui si parla sia metastorica. Ma, se al di là delle affermazioni forti (e delle loro obbligate ermeneutiche) percorriamo altrimenti il tema dell'aver fame e dell'essere saziati, ci troveremo dinanzi non ad aspettative solamente innescate, a speranze chissà quando destinate a compiersi. Dio sazia davvero il suo popolo: si pensi alla manna e alla quaglie nel deserto. E Gesù di Nazaret sfama realmente le folle che lo seguono (cf Mt 14,13ss e par).
Le risorse alimentari della terra
Di sicuro, basta andare a Gv 6,26ss, la sazietà ultima, il pane che spegne ogni fame, sta al di là del pane miracolosamente offerto e compartito, della fame sanata straordinariamente e con abbondanza. E, tuttavia, l'esperienza d'Israele - e delle folle che seguono Gesù - è d'immediata risoluzione dell'aspettativa di cibo (e di bevanda). Gesù risponde a un bisogno legittimo e primario. Di più, ama stare a mensa con i suoi. Dar da mangiare agli affamati (non meno che apprezzare e gustare convivialmente il cibo) è imitazione di lui, perciò dovere immediato di quanti il pane d'ogni giorno ce l'hanno.
Ma perché un pianeta che ha risorse per sfamare 9 miliardi di persone non riesce a sfamare i 6 miliardi di uomini e donne che lo abitano? È questa la domanda che dobbiamo farci. Ed è relativamente a questo fatto che dobbiamo chiederci da che parte stiamo: cosa abbiamo fatto sin qui, cosa facciamo o intendiamo fare nell'immediato, non abbiamo davvero più molto tempo, stante la crisi economica in atto. Il modello che ci ostiniamo a perseguire porta alla catastrofe. Occorre cambiarlo e alla svelta.
La questione è politica ovviamente; è economica. Le risorse alimentari ci sono, ma nelle mani di pochissimi. I fruitori immediati non sono né quelli che le producono, né quelli che abitano nelle zone dove vengono prodotte. Di più abbiamo innescato un'economia che, indirizzando la produzione in un certo modo, finisce con l'utilizzare le stesse derrate prodotte non per sfamare gli abitanti di questo o quel continente, ma per incrementare la produzione degli allevamenti e dunque ottenere quantità sempre maggiori di carne, latte e così via, ovvero per produrre in altro modo energia (i bio-carburanti, ad esempio).
Penso alla strada che da Giza conduce ad Alessandria: quello che un tempo era un deserto adesso è un giardino. Ma le recinzioni alle fattorie inducono a credere che i possessori e sfruttatori di tanto bene siano le multinazionali del cibo e non cooperative o imprese locali. I recinti, le torrette di guardia, la vigilanza di uomini armati non difendono bunker militari, caserme o cose del genere. No, ripeto; lì come in tantissime parti del mondo, a essere sottratti agli indigeni sono frutta e cereali e altro ancora.
Qualche tempo fa, se non ricordo male in Nuova Zelanda, si prospettò l'ipotesi di tassare i bovini per calmierare l'effetto serra. Si, paradossalmente, la fame di carne dei Paesi ricchi ha portato un incremento numerico degli allevamenti tale da incidere sul cambiamento del clima non meno di quanto vi incidono i gas di scarico delle nostre macchine. Senza parlare del circolo vizioso ingenerato da un'alimentazione unidirezionale che incrementa nei Paesi ricchi obesità e malattie che i Paesi poveri non conoscono. Soprattutto però, ed è a questo che vorrei tornare, il problema è di risorse negate o di risorse rubate, nell'interesse di pochi che si arricchiscono sulla pelle di quanti una tale politica, una tale economia, condanna alla morte.
Il cibo, un problema di giustizia
Il dar da mangiare agli affamati non può davvero risolversi nel pranzo che a Natale offriamo ai nostri "poveri". Né nella esigua razione alimentare che generosamente migliaia di strutture solidali offrono agli affamati. Dar da mangiare è un problema di giustizia, di ordine economico, di disegno politico che non può essere miope, ma deve essere solidale, lungimirante e, soprattutto, fraterno, planetario.
«L'accesso al cibo, più che un bisogno elementare, è un diritto fondamentale delle persone e dei popoli. Potrà diventare una realtà e una sicurezza, se sarà garantito un adeguato sviluppo in tutte le diverse regioni. In particolare, il dramma della fame potrà essere superato solo "eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci cioè di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale" (Caritas in veritate 27)». Così Benedetto XVI nel messaggio al direttore della Fao in occasione della Giornata mondiale dell'alimentazione (16.10.2009).
E lo stesso messaggio avverte circa la necessaria modificazione degli stili di vita e dei modi di pensare; circa l'obbligo della comunità internazionale e delle sue istituzioni di interventi più adeguati e forti. Si tratta di «favorire una cooperazione che protegga i metodi di coltivazione propri di ogni regione ed eviti un uso sconsiderato delle risorse naturali», salvaguardando i valori propri del mondo rurale e i fondamentali diritti di quanti lavorano la terra.
Come si vede, l'intreccio è complesso: coltivatori, ridistribuzione dei campi, strumentazione idonea a coltivarli, da una parte. Dall'altra, rispetto dell'ambiente; identificazione e promozione delle colture idonee; condanna dello sfruttamento e dello spreco delle risorse umane come dei prodotti della terra... Certo la fame non è solo prodotto di un errato programma agro-alimentare. È frutto della guerra, povertà endemica, disuguaglianza, sperequazione. È frutto di tutto ciò che dice prevaricazione, disprezzo, indifferenza verso l'altro. Appunto, mancanza di fraternità solidale.
Resta tuttavia inquietante la scarsa o nulla incidenza testimoniale. Mi dicevano tempo fa alcune religiose che avevano scelto d'essere presenti in una delle tante periferie del mondo: «Per noi ogni giorno la scodella di riso è sicura». E in questa sicurezza coglievano il segno del loro privilegio e dunque un'ipoteca a quella testimonianza radicale che pure intendevano offrire. E, in direzione opposta, un carissimo amico, missionario in gioventù, ritornato nei luoghi del suo antico servizio, mi raccontava con orrore dei cani a guardia della "sua" missione, ben nutriti per assolvere al loro compito, mentre fuori dal recinto, piccoli affamati assistevano al loro pasto.
È un'eccezione, questa, tragica e vergognosa a fronte della sollecitudine di tanti altri. Ma il problema resta: perché lasciamo intatte le regole di questo nostro mondo? Oggi, purtroppo, nel riesumarsi di troni e di vesti imperiali, le parole sembrano svuotarsi di senso. Che ne è stato della Chiesa dei poveri? Che ne è del lieto annuncio?
(da Vita Pastorale, n. 2, 2010)