Formazione Religiosa

Domenica, 17 Ottobre 2010 22:35

Prudenza e temperanza (Cettina Militello)

Vota questo articolo
(1 Vota)

Della coppia “prudenza-temperanza” c’è un gran bisogno, oggi. La prudenza come saggia dosatura di parole, di azioni, di atteggiamenti, e la temperanza come capacità di armonizzare, conciliare… che è proprio l’arte del leader.

Le non virtù cardinali

 

Chiudiamo la nostra incursione tra i vizi e le virtù facendo spazio alla coppia "prudenza-temperanza" nella loro nativa positività e nel loro tradimento. Inutile - o forse no? - partire dall'affermazione che dell'una e dell'altra abbiamo un gran bisogno e che proprio, invece, ci mancano sia come virtù cristiane che come virtù civili.

La prudenza è stretta compagna della saggezza, se, pure, non è altro nome della saggezza stessa. Si badi bene, saggezza e non sapienza. La sapienza, come ben apprendiamo da Salomone che a ogni cosa l'ha preferita (cf Sap 7), è "gusto". Il verbo latino sapere e il rito, oggi facoltativo, che nel battesimo proprio con il sale introduce l'iniziato al gusto/sapore dei divini misteri, appellano esattamente al gustare, all'esperienza del sapore. Ma saggezza è l'avere "sale in testa", cioè dominare talmente il gusto della vita e il gusto degli altri da saper dosare gli ingredienti del sapore a tempo, a modo, a varietà, a circostanze...

La prudenza insomma come saggia dosatura di parole, di azioni, di atteggiamenti, di ingredienti; come capacità infinita, plastica, di adattamento.

Abbiamo già richiamato alcuni aforismi diretti ad affermare la coincidenza nella prudenza di teoria e pratica e, dunque, la piena identità in essa di conoscere e agire. Il che farebbe della prudenza l'elemento dinamico di tutte le virtù e delle stesse passioni. Ebbene ciò che oggi spaventosamente ci manca è proprio questa dinamica vitalizzante. Spacciamo per prudenza l'incapacità di elaborare un giudizio o di manifestarlo; chiamiamo prudenza l'accidia, la debolezza, e tutto ciò che sta nelle loro costellazioni. Chiamiamo prudenza l'alibi che ci impedisce il franco parlare, l'iniziativa coraggiosa, la parola di denuncia o semplicemente di verità. Chiamiamo prudenza il non discernimento, il chiuderci all'evidenza dei segni dei tempi, il temporeggiare aspettando non si sa bene cosa e chi, quando e dove dovremmo finalmente dar conto della nostra fede e uscire allo scoperto.

Non è che manchino sortite, anzi. Il fatto è che con la prudenza nulla hanno a che fare. Ad esempio, ci trinceriamo nella tradizione, ma poi di fatto facciamo mostra solo di tradizionalismo, perché la tradizione, quella con la T maiuscola, ci costringerebbe ad agire o a motivare ben altrimenti le nostre scelte.

La prudenza è ascolto... docile adattarsi all'altro

Ecco, se penso alla prudenza, rischio d'inciampare nell'ipocrisia di chi, gente di chiesa, laici o chierici poco importa, se ne fa un alibi per sfuggire alla scelta della persona giusta al posto giusto, della soluzione giusta al momento giusto, del giusto rifiuto nel momento in cui alla prepotenza bisogna porre un freno, bisogna ricusarsi in nome del Vangelo.

Vogliamo guardare un po' da vicino nelle nostre comunità quali che siano. Ebbene chiamiamo prudenza la nostra voglia di neppure ascoltare le ragioni di chi ha qualcosa da obiettare. Abbiamo paura dell'interlocutore, sempre: meglio sfuggirlo, ignorarlo. Abbiamo paura del presente sempre: meglio proiettarsi nel futuro di là da venire.

Invece il luogo dell'adattamento, il luogo dove esercitare la virtù della saggezza è proprio quello dei nostri giorni, della nostra vita, delle nostre scelte piccole e grandi. La prudenza è reciproco ascolto, reciproca attenzione,il docile adattarsi all'altro che mi provoca sì, ma non per insolentirmi quanto perché sino in fondo io possa dar conto di un mondo, di una Chiesa interconnessa e solidale. Né è questione di volontarismo, di scelta di una immagine o di un modello piuttosto che di un altro. No, il mondo e la Chiesa, in reciprocità attiva, sono ciascuno solidali. La scelta del più piccolo come del maggiorenne, del prelato come dell'ultimo battezzato, interferiscono e si condizionano reciprocamente non meno di quanto l'habitat è condizionato dalla pioggia e dal sole e dai veleni che generosamente vi profondiamo.

Ebbene l'imprudenza, sport raffinato che accomuna uomini di governo e cittadini, vescovi e laici, ferisce fortemente proprio l'organicità delcorpo, ne impedisce la crescita, lo sviluppo. Così come l'ingenua cicca di sigaretta decora le nostre spiagge, più numerosa ormai dei granelli di sabbia, con altrettanta naturalezza il gioco suicida della non scelta, del non adattamento al mutare permanente del mondo che abitiamo, ci blocca nella costruzione del regno di Dio. Certo non è opera nostra ma chiede, anzi indige, la nostra solerte accoglienza, la nostra solerte saggezza.

Quest'oggi non ricorro né a padri né a dottori. Mi basta ricorrere al Vangelo, quello bellissimo dei "segni dei tempi" (cf Mc 13,28s. e par.). Qualche esempio? Perché siamo latitanti (politici e credenti) sul fronte del lavoro che non c'è, anzi che si liquefà, che scompare; perché restiamo indifferenti di fronte alla situazione perversa dei giovani, qualificati, assai qualificati a volte, respinti dal mercato del lavoro proprio perché lo sono troppo rispetto all'offerta. E sul fronte dei grandi ideali, la democrazia ad esempio, perché stiamo a guardare l'espandersi di un cancro devastante che disamora dalla voglia di esserci e di contare e tutto riduce ad apparenza (servile). «L'importante è apparire, non essere»; così lo slogan di una nota casa di mode. E, prudentemente, lasciamo correre, preoccupati però di difendere l'indifendibile, convinti come siamo che a non lasciar correre ne andrebbe il nostro concorrere alla torta. Si, convitati non di pietra, vogliamo partecipare alla spartizione di ciò che resta e non importa se non ci sarà futuro. Prudenza - imprudenza - diventa così chiudere gli occhi, fingere che tutto sia sotto controllo, iscriversi nella labilità dell'oggi. Dopo di noi il diluvio, ma questa è altra storia.

Temperanza, l'arte del leader

Si capisce bene che l'imprudenza è anche intemperanza, mancanza di moderazione, mancanza di progetto. Si, il peccato capitale tra i capitali, il quieto convergere di tutti i vizi, è proprio l'incapacità di progettare, in altre parole di profetare.

Mi si dirà: ma il profeta è intemperante. Certo nella denuncia. Ma la profezia è sempre temperata. È armonizzazione di progetti (anzi, è ricondursi ardito al "progetto"); è armonizzazione di soggetti, compartecipazione di carismi, in forza del volerli/saperli discernere. Profezia è andare oltre l'adattamento saggio e prudente per procedere sino all'arte del ritmo/melodia. Non a caso "temperare" è termine fatto proprio dalla grammatica sintassi della musica. Pensiamo a Bach, al "clavicembalo ben temperato", ossia bene accordato in sé per bene prestarsi a che il clavicembalista ne tragga l'ottimizzazione dell'armonia.

Bisognerebbe, vocabolari alla mano, entrare nelle maglie intriganti dei termini temperare/temperato/temperamento. Troppo scolastico provarci. Eppure... La metafora musicale credo comunque ci basti e bene suggerisca al positivo la virtù e al negativo il vizio che le corrisponde. Armonizzare, conciliare, "temperare" è proprio l'arte del leader, di chi ha il dono/carisma dell'esser/far da guida. L'intemperanza che ai nostri giorni dà spettacolo a livello civile — come non evocare le "intemperanti" dichiarazioni di politici e no —  è trasversale alla società non meno che alla Chiesa, tagliente nei suoi no sino ad essere insipiente. Penso da ultimo alla provocazione di far spazio nelle scuole ad un'ora di religione islamica. Perché non pensarci un attimo, perché non dedicarci un po' di tempo. Ecco che imprudenza e intemperanza sono tutt'uno e non ad maiorem Dei gloriam.

Mi è capitato, ricercando altro, d'imbattermi in una bella immagine dell'assemblea liturgica ricondotta da Ignazio martire alla "Sinfonia dell'Agape" (Ad Ephesios 4,2). Vorrei chiudere con parole di speranza e mettere in circolo un sogno, quello di una Chiesa, appunto, sinfonica, corale, nel segno dell'amore vicendevole. Non penso a una melassa becera nella quale il buonismo sopisce le coscienze (vale anche nell'ordine del vivere civile). Penso invece all'armonia retta dall'amore vicendevole che esalta la voce di ognuno e di tutte ha bisogno. Penso alla Chiesa, partitura scritta dallo Spirito, nell'intreccio dei suoi doni e dei suoi carismi. E penso a comunità che se ne facciano "temperamento" testimoniale e in cui, appunto, "fiorisca lo Spirito" (Traditio Apostolica, 41). Ma il progetto trinitario, la partitura ineffabile che ci conduce a Cristo che torna è affidata al nostro discernimento. Occorre disvelare il progetto, gridarlo, tradurlo, adeguarlo, armonizzarlo, testimoniarlo. Davvero, fossero tutti profeti nel popolo di Dio!

Cettina Militello

(da Vita Pastorale, n. 11, 2009)

 

Letto 3984 volte Ultima modifica il Domenica, 28 Gennaio 2018 22:54
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search