Formazione Religiosa

Mercoledì, 01 Settembre 2010 20:16

Teologia dell'Antico Testamento. Cap. 4 La natura

Vota questo articolo
(2 Voti)

Bisogna studiare l’esperienza israelitica di Dio, innanzitutto nella storia; gli Israeliti però fecero l’esperienza di Dio anche nella natura, e in questo caso subirono l’influsso delle credenze di altri popoli in misura molto maggiore che nel precedente.

Teologia dell'Antico Testamento

Cap. 4

La natura

 

1. La mitologia

Il pensiero filosofico incominciò con i Greci e il primo pensiero filosofico ebbe come oggetto il kosmos, il mondo naturale. Soltanto con Socrate i filosofi spostarono la loro attenzione sull’uomo, e cioè, innanzitutto, sull’etica. Con Platone, la considerazione dell’uomo diventa  psicologia. Così sorsero le categorie di pensiero che ancora oggi dominano l’attività pensante dell’uomo colto occidentale. A rischio di esagerare troppo la differenza tra pensiero greco e pensiero ebraico, si può dire che nessuna delle categorie summenzionate è presente nell’A.T. Abbiamo già osservato che bisogna studiare l’esperienza israelitica di Dio, innanzitutto nella storia; gli Israeliti però fecero l’esperienza di Dio anche nella natura, e in questo caso subirono l’influsso delle credenze di altri popoli in misura molto maggiore che nel precedente.

Affermare che le religioni dell’antico Medio Oriente furono religioni della natura è un’altra generalizzazione pericolosa. Uno dei concetti greci che resero possibile la filosofia in Grecia fu quello espresso dalla parola kosmos che significa ordine. Nella filosofia sta ad indicare il mondo in quanto ordinato, e in ultima analisi il mondo stesso. Il mondo è intelligibile proprio perché è ordinato; la domanda che si ponevano i filosofi greci nel era «Donde ha origine il mondo?», oppure «Chi ha fatto il mondo?», ma «Di che cosa è fatto il mondo?». Filosoficamente questa è una domanda cui si può rispondere a partire dall’osservazione del mondo e dal pensiero sul mondo. Il mondo in quanto kosmos è razionale, non misterioso. Inoltre, per i filosofi greci il mondo è un postulato; non è dimostrato, ma in base ad esso è spiegata tutta la realtà. La filosofia greca non conobbe il concetto di creazione; i filosofi che parlarono di un demiurgo pensavano ad un agente che introdusse ordine nella realtà. Aristotele affermò che il mondo e il suo primo motore sono ambedue eterni, perché un motore eterno richiede un mosso eterno.

La filosofia greca eliminò, conservandola semplicemente come ornamento letterario, l’antica mitologia greca della creazione. In effetti l’aggettivo “mitologico” è il termine migliore per definire la comprensione biblica della creazione sia come processo sia come oggetto. Premettiamo alcune considerazioni sulla parola “mitologia” e sul pensiero “mitologico”.

Nel linguaggio popolare, la parola “mito” è spesso usata come sinonimo di “falsità”. Il mito è spesso falso, ma anche la scienza e la filosofia lo sono. Nessuno dei tre è falso per definizione; sono falsi quando fraintendono o interpretano male la realtà.

Ernst Cassirer considera il mito come una delle quattro forme simboliche dell’espressione, assieme all’arte, al linguaggio e alla scienza. E questo non tanto perché il mito è considerato come forma simbolica, quanto perché lo è anche la scienza; e la scienza può essere intesa in questo caso come comprensiva della filosofia e, di fatto, di tutte le forme di discorso erudito astratto e deduttivo.

Nell’arte e nel linguaggio la forma simbolica cerca di tradurre la totalità dell’esperienza psichica dell’oggetto così come la concepiscono l’artista o lo scrittore.

Sia la definizione della forma simbolica sia quella del trascendentale sono sempre imprecise a causa dello sviluppo dell’ambito dell’esperienza e dello sviluppo delle forme simboliche. Soltanto in tempi recenti l’uomo è stato in grado di utilizzare la forma simbolica della scienza per esprimere la sua esperienza e la sua comprensione della natura. Nella nostra generazione, l’uomo ha camminato sulla luna; niente avrebbe potuto demitizzare in modo più efficace la luna, anche se soltanto dodici persone ne hanno fatto l’esperienza diretta. Di fatto la loro esperienza demitizza l’intero sistema solare, anzi, l’intero universo celeste. Si dice che un cosmonauta sovietico abbia affermato di non aver visto Dio “lassù”; ma nessuno aveva mai preteso di aver visto Dio “lassù”. Uno dei nostri astronauti almeno ha ammesso che “lassù” si ha una coscienza più profonda di Dio; e se si mettono a confronto le due affermazioni, si capisce come sia la coscienza o non coscienza di Dio che già si ha in precedenza a rivelare la presenza o l’assenza di Dio in una situazione completamente nuova.

Il più antico processo di demitologizzazione che si conosca nella storia avvenne in Grecia, quando la filosofia sostituì la mitologia. Come spiegazione dei fenomeni la mitologia era così palesemente inferiore alla filosofia che nessuna persona intelligente in Grecia la poteva prendere sul serio. È stato fatto notare che, siccome la religione greca era essenzialmente mitologica, la critica mitologica distrusse anche la religione. L’errore fondamentale nel sistema filosofico greco fu quello di considerare la mitologia come una spiegazione dei fenomeni. La mitologia non intendeva spiegare i fenomeni, ma semplicemente offrire all’uomo la possibilità di far fronte ai fenomeni stessi e di vivere in mezzo ad essi.

Se il mito ha un oggetto proprio, esso va definito come ciò che sta al di fuori dell’esperienza, non necessariamente ciò che trascende l’esperienza. Il mito riguarda il rapporto tra il divino e l’umano e le origini e la fine (protologia ed escatologia). I rapporti tra il divino e l’umano trascendono effettivamente l’esperienza; le origini e la fine invece possono essere conosciute attraverso l’investigazione scientifica, in modi insospettati per i popoli primitivi, che potevano parlarne soltanto in linguaggio mitologico. I rapporti tra il divino e l’umano sono concepiti in modi diversi a seconda delle varie culture e dei vari periodi storici. L’uomo moderno non solo non attribuisce il cattivo tempo alla collera della divinità; l’uomo moderno non può letteralmente operare questa attribuzione. Non lo può fare non perché conosca meglio Dio, ma perché conosce meglio il tempo. L’uomo moderno si rende conto che la qualificazione del tempo come “buono” o “cattivo” è mitologica; il tempo è neutro, e non può essere giudicato puramente in base a ciò che piace o non piace all’uomo.

Quando il mito ha a che fare con oggetti che possono, attraverso nuove tecniche e nuovi espedienti, essere sottoposti all’esperienza diretta, subisce una demitizzazione da parte della filosofia e della scienza. Il mito non spiega i fenomeni, ma rende l’uomo capace di vivere con essi. Il divino è l’esempio più ovvio del trascendente, ma non è l’unico. Come fenomeno, la morte sembra ricadere nell’ambito dell’analisi scientifica e filosofica; ma per accettare la mortalità, molte persone ricorrono ancora a forme mitiche. Il problema del male, sia da un punto di vista generale sia nei suoi aspetti particolari, non ammette analisi scientifica o filosofica. L’uomo affronta il problema del male mitologizzandolo. La scienza non ha ancora analizzato le origini della vita, nemmeno della vita subumana; questo particolare inizio è ancora visto in forma mitica. Il mito formula in modo accettabile l’ignoto che l’uomo riconosce ma non riesce a definire. In un certo senso, questo ignoto può essere tutto quanto ricondotto al divino. Il diritto divino dei re era un mito politico moderno. Anche se questo mito è stato abbandonato, non significa che il mondo moderno non abbia più miti politici. Il mito del mondo antico costituiva un tentativi di opporsi all’intrinseca instabilità delle forme politiche e di sostenerne la stabilità con una motivazione teologica.

Il simbolismo del mito è ottenuto trasformando il modello o l’istituzione in avvenimento. L’avvenimento è il modello o l’archetipo che perdura o ricorre nel modello storico o naturale oppure nell’istituzione. Il governo monarchico era legittimo e stabile perché era stato istituito dagli dèi, che lo avevano nella loro stessa comunità. In Israele, la monarchia è istituita da Jahweh; ma non esiste un modello celeste della monarchia, perché Jahweh è solo. Il crollo di una simile istituzione poneva dei gravi problemi mitologici che, nel mondo antico, potevano essere risolti soltanto con un nuovo mito. Tutti i miti sono racconti; quando ad un avvenimento è conferita una dimensione che chiamiamo di ricorrenza o di durata, l’avvenimento è concepito in modo mitico.

È caratteristico del pensiero mitologico non soltanto descrivere la realtà nei termini dell’avvenimento archetipo, ma anche di interpretare i fenomeni in termini di realtà personali. Questa probabilmente può essere considerata la caratteristica fondamentale del mito. Il mito è completamente antropomorfico. L’uomo può trattare con le persone, perché le persone agiscono in base a motivi che si possono capire, anche se non li si conosce. Allo stesso tempo, riconosce che le persone sono imprevedibili e che tutte le potenzialità della persona non sono mai note nemmeno alla persona stessa.

Prima del kosmos greco, la natura era considerata dall’uomo come disordine, lotta e confusione, non come ordine. I popoli dell’antico Medio Oriente vedevano nella natura le stesse caratteristiche della società umana; l’uomo deve vivere nella società umana, ma questo risulta spesso pericoloso e sovente fatale. Il mito dà all’uomo la capacità di far fronte ad una serie di fenomeni diversi da quelli della Mesopotamia. Non si riesce a spiegare perché l’Egitto avesse una mitologia della morte e dell’aldilà così ben sviluppata e perché al contrario la mitologia mesopotamica crollasse di fronte al fenomeno della morte.

Se i fenomeni della natura sono visti come cose, l’uomo può far loro fronte soltanto conoscendoli. Sapere che cos’è un uragano, non serve a formarlo, anche se il fatto di prevederlo può aiutare a trovare rifugio; ma la sua conoscenza libera l’uomo dalla continua paura che una potenza soprannaturale sia in collera con lui per ragioni sconosciute. L’uomo mitologico, al contrario, crede che un essere personale possa essere raggiunto tramite un approccio personale. La sua collera potrà essere calmata o deviata, la sua benevolenza accattivata. In ogni caso, avrà desideri e abitudini personali che si potranno conoscere, e anche se l’uomo non sarà in grado di affrontare o evitare la sua terribile potenza, potrà sempre integrarsi con i desideri e le abitudini conosciute della realtà personale dalla quale dipende e che teme. La risposta mitologica a questa integrazione è in primo luogo il culto, in secondo luogo il rispetto per un codice morale rivelato. Così il mito rivela allo stesso tempo il carattere degli esseri personali che governano il mondo e il modo in cui ci si può accattivare la loro benevolenza.

Il mito, in definitiva, può non essere altro che un’intuizione della realtà che sta al di là dell’esperienza e non è suscettibile di essere analizzata né filosoficamente né scientificamente. Questa intuizione può essere formulata come una convinzione non dimostrata che la spiegazione ultima della realtà deve essere personale. Se l’uomo non potesse trattare questi esseri personali come persone, la disperazione sarebbe l’unica risposta ragionevole. La mitologia non esclude la disperazione. Considerare gli dèi come esseri personali, o in particolare come esseri potenzialmente in contrasto e in conflitto, lasciava aperta la possibilità di un insuccesso personale anche tra gli dèi, alla stessa stregua degli insuccessi personali tra gli uomini, la possibilità insomma di una Götterdämmerung. Se l’ordine cosmico (compreso l’ordine politico) è venuto meno perché gli dèi non sono capaci di conservare la pace nemmeno nella loro casa, l’uomo potrà sentirsi vittima innocente non della malvagità divina, ma dell’incompetenza divina. Naturalmente, noi sappiamo che questo è un limite della mitologia, non della divinità. Nel mondo mitologico israelitico, non si poteva concepire in Dio nessun insuccesso personale, soltanto l’uomo poteva fallire.

Il mito non è un surrogato della scienza, della filosofia o della teologia. È una forma simbolica distinta.

La storia è iniziata quando ad un avvenimento particolare e contingente è attribuita una dimensione di ricorrenza o di durata. Questa dimensione non è la stessa cosa che gli effetti perduranti di un avvenimento storico contingente. L’evento mitico perdura in se stesso, non soltanto nei suoi effetti. Esempi di storicizzazione del mito si possono trovare nel racconto biblico della creazione, soprattutto nell’insistenza da parte di P in Gen. 1,2-2,4 sul fatto che Jahweh «si riposò» (cessò) dal suo lavoro il settimo giorno. P non avrebbe potuto dire in modo più chiaro, pur restando nel suo linguaggio e nei suoi modelli di pensiero, che la creazione non viene rinnovata ogni anno. L’esempio più evidente di quello che chiamiamo un avvenimento mitizzato ci è offerto dall’atto salvifico della morte e risurrezione di Gesù Cristo così come è concepito nella fede cristiana; molti cristiani però penseranno forse che la realtà storica dell’avvenimento ne risulterebbe diminuita, se si affermasse che esso ha una dimensione mitica. Eppure, di tutta la storia religiosa del mondo, è proprio a questo avvenimento che si attribuisce la dimensione della durata; ed è proprio questo il significato del termine “mitico”. Se non fosse un avvenimento che perdura, i cristiani non potrebbero concepirlo come avvenimento salvifico.

Forse l’esodo ha nell’A.T. una dimensione mitica. Abbiamo accennato ad una certa dimensione mitica degli avvenimenti che vengono celebrati nelle feste religiose; il racconto e la riattualizzazione sono dichiarazioni della ricorrenza e della durata dell’avvenimento. La dinastia di David viene mitizzata quando le è promessa una durata eterna; tale promessa viene fatta al fondatore, ma perdura con la dinastia. La dimensione mitica è presente ancora più chiaramente nell’alleanza, che sopravvive perfino alla catastrofe nazionale.

2. La creazione

L’intelligenza umana ha generalmente avuto difficoltà ad afferrare il concetto di un inizio assoluto. Aristotele pensava di aver dimostrato che il primo mosso, come il primo motore, deve essere eterno; e Tommaso d’Aquino affermò che l’uomo non potrebbe concepire un inizio assoluto senza l’insegnamento della rivelazione. I miti della creazione parlano piuttosto dell’inizio del mondo dell’esperienza che non di un inizio assoluto a partire dal nulla; e dietro molti di essi si può cogliere la credenza che la creazione faccia parte di un processo ciclico. Non è così facile o così evidente dedurre, in base ad un ragionamento teologico o filosofico, come una cosa qualsiasi sia venuta all’essere nell’ipotesi che un tempo non esistesse nulla.

Il problema più grave nella storia delle religioni e della filosofia è forse non tanto quello della creazione, quanto quello del dualismo. Supponendo che esista un essere divino dotato di sufficiente potenza e sapienza per creare il mondo dal nulla, come si possono spiegare i numerosi ed evidenti difetti del prodotto? Non è concepibile che una divinità con un potere così imperfetto sia capace di creare, e nemmeno di creare in modo imperfetto. Di qui si deduce la spiegazione ovvia che alla potenza creatrice è contrapposta un’altra potenza contraria, e che la creazione è in un certo senso il risultato di un conflitto mai risolto tra le due potenze contrapposte. Il pensiero mitico è rimasto più colpito dal disordine della natura che non dal suo ordine. La stessa natura che sostiene l’esistenza dell’uomo minaccia la sua vita. Ricondurre questi due avvenimenti ad un’intenzione unica si è rivelato un’impresa troppo ardua per l’uomo nel corso di gran parte della sua storia.

Queste due potenze possono essere chiamate luce e tenebre, vita e morte, bene e male, ordine e caos; e queste denominazioni rivelano perché il concetto di un inizio assoluto non solo sia difficile, ma possa apparire persino inaccettabile. Infatti questo dualismo, con questi termini o con altri, è un dato dell’esperienza nell’universo in cui l’uomo vive. Ambedue le potenze sono vive ed attive, e si affrontano ad armi pari. Se le cose stanno così adesso, non si vede perché un tempo dovessero essere diverse. In un mondo completamente buono, come potrebbe spiegarsi il male? In un mondo completamente cattivo, come potrebbe emergere il bene? Quindi queste due potenze vanno considerate come elementi cosmici fondamentali, per così dire; non è possibile andare oltre, né con la filosofia né con la mitologia. Non ci può essere stato un tempo in cui non esistevano, e quindi non ci può essere stato un inizio assoluto.

Questo non è il ragionamento esplicito degli uomini che produssero i miti della creazione, ma sembra che un ragionamento come questo sia un’interpretazione abbastanza fedele del loro pensiero, tradotta in discorso astratto e razionale. Evidentemente, per noi sono interessanti soprattutto i miti della creazione della Mesopotamia e di Canaan, questi ultimi meno ben conosciuti dei primi. Di questi miti si è giunti a conoscenza soltanto nella seconda metà del sec. XIX, e i miti cananei nella loro forma originale si conoscono soltanto dal 1930; che le credenze e gli schemi di pensiero israelitici a proposito della creazione siano in rapporto con questi miti è oggi fuor di dubbio. Le credenze israelitiche sono molto diverse, ma la letteratura israelitica si muove nello stesso ambito di pensiero e di linguaggio.

Lo studio della letteratura mitologica della Mesopotamia e di Canaan, composta per essere utilizzata nel culto, dimostra chiaramente che la creazione era un avvenimento ciclico: annuale in Mesopotamia, e molto probabilmente, anche se meno chiaramente, pure a Canaan. La lotta tra i due poli è individuata nel ciclo annuale della vita e della morte nella vegetazione. Anche la vita degli animali e degli uomini presenta lo stesso ciclo di vita e di morte; l’una e l’altra sono caratteristiche costanti del mondo, e nessuna mai prevale sull’altra. I miti non esprimono la speranza di un mondo in cui la morte sia bandita, e neppure la paura di un mondo in cui la vita scompaia del tutto. Essi riguardano, come abbiamo detto, i due principi ultimi, che non hanno né inizio né fine, e sono irriducibili l’uno all’altro. La creazione rappresenta la sconfitta delle forze della morte e del caos, e la produzione di nuova vita. Il ciclo della vita è il corrispettivo terrestre di ciò che avviene nel mondo celeste degli dèi. Il rito integra l’uomo con le forze celesti. È forse troppo sommario pensare che il mito e il rito garantissero la ricorrenza del ciclo della vita; probabilmente si trattava della celebrazione dell’avvenimento. Ma al di là del mito e del rito c’era la consapevolezza che il mostro del caos sarebbe di nuovo venuto alla ribalta. La vita doveva essere goduta e la morte accettata. L’uomo poteva accettare la morte perché il mito gli insegnava che li dèi gli avevano dato soltanto una porzione di vita e la capacità di goderne. Vedremo come questa dottrina molto semplice non funzionasse più di fronte a catastrofi di ampie proporzioni.

Il sesso, inteso come principio di vita, era un elemento importante nel mito e nel rito della creazione. Il matrimonio sacro del dio e della dea, riattualizzato dal re (o dal sacerdote) e dalla sacerdotessa, faceva parte del rituale dell’Anno Nuovo fin dal tempo dei Sumeri.  Il cananeo Aleyan Baal viene assassinato da demoni nemici; dopo di che egli risorge e li sconfigge, e il ciclo della vita è ripristinato dai suoi rapporti sessuali con la dea. Le allusioni al tempio e alle prostitute sacre indicano che i fedeli entravano in comunione con gli dèi nel rinnovo del ciclo della vita attraverso rapporti sessuali con una sacerdotessa che rappresentava la dea.

Nell’epopea mesopotamica della creazione, non c’è dubbio che il materiale dal quale il creatore forma l’universo sia la carcassa del mostro del caos che è stato appena ucciso. Qui si tratta veramente di ordine imposto al caos. È chiaro che Tiamat, il mostro del caos, è in ultima analisi la madre di ogni forma di vita, dèi compresi. In un certo senso, questi uomini dell’antichità non potevano fare a meno di concepire un caos primitivo, che trovava la sua migliore espressione simbolica nelle acque sterminate dell’oceano. L’uomo viveva veramente sul bordo del caos, e la natura lo colpiva abbastanza spesso da non fargli dimenticare che la vittoria del creatore sul caos era soltanto ciclica. Forse il mito nascondeva il timore che il caos  sarebbe stato il vincitore ultimo, così come era stato la fonte originaria.

Anche la Genesi incomincia con il tohu wabohu, «desolazione e deserto», un abisso acquoso senza forma e senza limiti.

Nel libro della Genesi, i versetti 1,1-2,4 sono diventati il racconto biblico classico della creazione, e per molta teologia  cristiana, sono diventati anche il modello teologico classico, scostandosi dal quale si rischia l’eresia. Però questo è solo uno dei racconti veterotestamentari della creazione; è diventato un modello perché è completo, e anche perché è posto là dove dovrebbe essere posto un racconto di creazione, cioè all’inizio dell’A.T. Questo non significa che sia un documento antico. I critici moderni lo attribuiscono a P, la fonte più recente del Pentateuco, generalmente postesilica.

Il racconto di Gen. 2,4b-25 non è un altro racconto della creazione. La creazione del mondo vi è soltanto accennata. Si tratta invece di un racconto delle origini dell’uomo, e in particolare dell’origine dei sessi. A questo punto è opportuno chiedersi perché non esista una chiara dottrina della creazione nella letteratura pre-esilica. La prima fonte biblica in cui questo tema riveste un’importanza rilevante è Isaia Secondo.

Rischiamo di fraintendere la mitologia antica se consideriamo i miti della creazione come una spiegazione delle origini. L’obiettivo del mito non è di descrivere un inizio che spieghi la situazione presente, ma di mitologizzare la situazione presente in un evento ricorrente. Se questo era il problema, gli antichi Israeliti lo ignorarono semplicemente. Essi non spiegavano l’universo come il prodotto della tensione tra due forze equivalenti. Essi non sollevarono il problema di un inizio assoluto, e nessun altro lo fece. Essi avevano una certa familiarità con il mito della creazione; i libri dell’A.T. sono pieni di allusioni all’adozione da parte degli Israeliti di culti della fertilità cananei. I culti della fertilità erano il racconto e la riattualizzazione del rinnovo ciclico della fertilità, della creazione annuale. Coloro che credevano in Jahweh respinsero completamente tutti i miti della creazione. Quando dovettero affrontare il problema, lo fecero costruendo un altro mito della creazione.

Chiamare “mito” questa nuova produzione è un po’ una forzatura. Nel cap. primo della Gen. La creazione è diventata chiaramente un avvenimento accaduto una volta per tutte, dopo il quale Jahweh si riposa; egli ha terminato la sua opera e cessa di lavorare (Gen. 2,1-3). Per quanto riguarda la concezione dell’universo, esposta qui, bisogna dire che non è mitologica, ma espressamente antimitologica. Il sole, la luna e le stelle non hanno nulla a che vedere con gli dei e le dèe. Non sono segni astrologici, ma semplicemente strumenti per misurare il tempo. La separazione della luce dalle tenebre riecheggia l’antico dualismo; il buio della notte non è il buoi cosmico del caos, anche se è spesso assimilato al caos nelle metafore bibliche. Una volta che Dio ha creato la luce, le tenebre del caos sono per sempre bandite dall’universo. È molto verosimile l’affermazione, più volte ripetuta, che l’opera è buona, detta delle singole opere del tutto, intenda negare che il principio dualistico del male sia un elemento costitutivo della creazione.

Il primo cap. della Genesi presenta una certa ambiguità nei confronti dell’opera della creazione. Si dice che Dio crea sia attraverso la parola sia attraverso l’azione; che cosa si intende con questo agire, non è meglio precisato, ma lo si può chiarire partendo da Gen. 2.7.19, dove si afferma che Jahweh “plasmò” l’uomo e gli animali. Il verbo è quello proprio del lavoro del vasaio, ed è illustrato da un rilievo egiziano che raffigura il dio Khnum mentre sta plasmando un re e il suo ka. Il termine “costruire” usato a proposito della creazione della donna (Gen. 2,22), probabilmente si riferisce alla stessa immagine. Ovviamente la creazione attraverso l’azione è più antropomorfica che non la creazione attraverso la parola, la quale sta ad indicare una pienezza di potenza.

Non tutte le allusioni veterotestamentarie alla creazione storicizzano il mito; ma non esiste nessun’altra versione così completa e così organica come il racconto di Gen. 1. Una descrizione che si fondi sulle allusioni sparse qua e là nei libri dell’A.T. non permette una sintesi organica. Jahweh ha diviso il mare, ha schiacciato la testa dei draghi, ha spezzato le teste del Leviathan (Sal. 74,13-14). Jahweh controlla l’orgoglio del mare, placa i suoi flutti (…). Ha chiuso tra due porte il mare, lo ha rivestito di nubi e di oscurità (…).

Queste allusioni fanno riferimento ad un combattimento tra Jahweh e i suoi avversari che possono essere identificati in base ai miti cananei di Ugarit.

Queste allusioni non ci dicono se esistesse una versione israelitica del combattimento della creazione o se invece i poeti israelitici abbiano semplicemente fatto di Jahweh l’eroe di un racconto mitologico in luogo dell’originario Baal. Gli Israeliti si mostrarono spesso disposti a praticare il culto di Baal. Alcuni cenni fanno pensare che il culto di Baal sia stato trasferito a Jahweh. In entrambi i casi, il rito doveva includere la recita del racconto mitico. Sembra più probabile che esistesse un racconto israelitico di questo combattimento, ed esso trova la sua naturale collocazione nella festa pre-esilica del Nuovo Anno.

L’ambiguità del mito della creazione ci ha indotti a non includere la creazione, sia nei termini di Gen. 1 o nei termini del combattimento cosmico, tra gli atti salvifici di Jahweh. Anche se parliamo di storicizzazione del mito, la creazione, sia come parola e come opera, sia come vittoria di Jahweh sul mostro che minaccia la vita e l’ordine, non ha quel carattere di storicità che gli Israeliti attribuivano all’esodo.

Abbiamo notato un certo contrasto tra il mito della creazione e la creazione «una volta per tutte» di Gen. 1. Lo stesso contrasto ricompare tra Gen. 1 e le allusioni mitiche dell’A.T. In effetti, il concetto di creazione come un atto compiuto una volta per tutte non soddisfa né dal punto di vista teologico, né da quello filosofico, né da quello scientifico; rassomiglia a quella concezione un po’ antiquata dell’universo che si rappresentava il mondo come un orologio il quale, una volta caricato, va avanti finché la molla non si distende. Le allusioni mitiche rendevano possibile il formarsi di un concetto di creazione come attività continua di Jahweh.

La regolarità che presenta la natura non è vista nell’A.T. come il prodotto di un sistema organizzato di potenze naturali e neppure come il difficile equilibrio raggiunto da diverse volontà personali. Essa è considerata come il risultato di quell’atteggiamento di Jahweh che abbiamo tradotto con “fedeltà”. La fede israelitica  manifesta un senso di sicurezza che non troviamo nei miti della creazione della Mesopotamia e di Canaan; questo senso di sicurezza non avrebbe avuto ragione di esistere senza la certezza che la potenza creatrice di Jahweh era costantemente attiva per impedire che la natura ricadesse nel caos.

I critici dell’A.T. indicano in Isaia Secondo il primo autore veterotestamentario che tratti della creazione con una certa ampiezza, ma è anche il primo che fa appello alla creazione come motivo di fede nelle promesse di Jahweh. Oggi noi possiamo essere sicuri dell’antichità dei miti della creazione.

Isaia sentì il bisogno di affermare la fede nella creazione in una forma nuova. Dal modo in cui procede Isaia Secondo, appare chiaro che la restaurazione di Israele sarà un’opera ancora più meravigliosa della creazione di Israele. Infatti, la restaurazione di Isarele fu compiuta perché Israele potesse testimoniare Jahweh di fronte al mondo intero.

C’era una differenza profonda tra la fede nella creazione dell’A.T. e i miti mesopotamici e cananei. Nel mito cananeo l’uomo non compare affatto. Nell’Enuma Elish l’uomo è creato quasi come un ripensamento. Anche nelle forme di creazione più propriamente mitiche dell’A.T. la vittoria di Jahweh sul caos rende il mondo abitabile per l’uomo; secondo le parole di Isaia Secondo, Jahweh non ha creato il mondo perché fosse un tohu (il termine che indica l’abisso di Gen. 1,2), ma perché fosse abitato (Is. 45,18). Nel racconto P di Gen. 1 la creazione dell’uomo, ben lungi dall’essere un ripensamento, è l’atto culminante della creazione, ed è descritta con particolare solennità e in modo più esteso, poiché l’uomo è il signore delle opere che Jahweh ha creato.

3. La funzione morale della natura

Il politeismo mitologico spiega il disordine e la diversità della natura come manifestazioni di volontà personali diverse e divergenti. Così non esiste un concetto di natura e neppure un termine che significhi natura né in accadico né nell’A.T. Dèi e dèe sono  messi in relazione con diverse forze e fenomeni naturali precisamente perché queste forze e fenomeni sono spesso in opposizione gli uni agli altri. Gli Israeliti evitarono il politeismo mitologico, anche se non riuscirono ad evitare il problema posto dal disordine e dal contrasto palesi dei fenomeni naturali. La proibizione delle immagini rendeva impossibile ogni rappresentazione visiva di Jahweh. Egli sta al di sopra e al di là delle forze e dei fenomeni della natura, li governa tutti e non si identifica con nessuno.

La proibizione delle immagini non fu estesa alla poesia; per far questo ci sarebbe voluto il pensiero filosofico. Platone dovette pensare precisamente, anche se non fondamentalmente, a questo quando espulse i poeti dalla sua repubblica. Sarebbe possibile, a partire dalle immagini usate nella poesia biblica, dipingere un ritratto di Jahweh, anzi, più di uno. Il più straordinario sarebbe probabilmente quello basato sulle teofanie, e inoltre presenterebbe una forte somiglianza con alcune immagini di divinità del Medio Oriente antico. Si tratta di immagini del dio della tempesta in varie religioni antiche. Nonostante la diversità delle religioni, il dio della tempesta presenta una tipologia comune: è un guerriero con una lancia che rappresenta o simboleggia il fulmine. Spesso siede a cavallo di un leone o di un toro; questo molto probabilmente simbolizza non soltanto la forza, ma anche la mobilità. In Egitto, dove non piove quasi mai, non c’era un dio della tempesta.

Lo studioso di religioni antiche è tentato di chiedersi se il Jahweh delle teofanie non sia stato modellato su Adad. La possibilità esiste, ma in questo caso lo studioso dovrebbe spiegare perché la simbologia israelitica non presenti altri paralleli altrettanto chiari. L’A.T. fu scritto facendo bene attenzione a distinguere Jahweh dalle forze e dai fenomeni naturali; se gli autori sapevano quello che stavano facendo, non riusciamo a capire come potessero mancare di distinguere Jahweh dalla tempesta. E infatti lo distinsero; gli dèi della tempesta del Medio Oriente antico presentano tratti che non sono caratteristici di Jahweh. Come la tempesta, essi non sono benevoli. È difficile immaginare un antico poeta mesopotamico che scrivesse, a proposito di Enlil o Adad, che il loro tenero amore è sopra ogni altra opera. Jahweh certo poteva presentare i tratti di Enlil e Adad; ma la differenza, ed è grande, sta nella motivazione della teofania di Jahweh signore della tempesta. La teofania è evidentemente una rivelazione di potenza, ma non di potenza cieca. L’ostentazione di potenza è sempre motivata, e la motivazione è comprensibile.

Per l’uomo moderno il tempo è, in ultima analisi, moralmente neutro. Non abbiamo nessuna difficoltà ad accettare il detto di Gesù, secondo il quale il padre celeste fa sorgere il sole tanto sui buoni quanto sui malvagi, e fa piovere imparzialmente sui giusti e sugli ingiusti (Mt. 5,46). Ci volle veramente la rivelazione evangelica del padre celeste per rendersi conto di questo. Nel mondo antico, dove la natura era il prodotto di volontà  in conflitto, e non di un processo impersonale o di un’unica divinità benevola, si aveva la sensazione che il sole e la pioggia dovessero essere proporzionati alla giustizia o all’ingiustizia. Altrimenti sarebbe sembrato che gli dèi non si preoccupassero molto della differenza tra le due. Ma siccome il tempo era ed è moralmente neutro, gli uomini che pensavano in categorie mitologiche non potevano che spiegare la natura come il prodotto di esseri capricciosi e, in fondo, potenzialmente irrazionali. Gli uomini erano fatti così, e la natura non garantiva affatto che gli dèi fossero migliori.

Per gli Israeliti, dire che la natura o il tempo erano moralmente neutri, significava dire che Jahweh è moralmente neutro; e questo sarebbe stata una bestemmia. Non ci poteva essere ambiguità o ambivalenza nei fenomeni della natura se questi erano tutti governati da Jahweh solo,  i cui attributi erano giustizia e giudizio. Come vedremo, la creazione in senso largo è l’opera più saliente della sapienza di Jahweh. Non sarebbe stato né giusto né saggio permettere alla natura di reagire allo stesso modo di fronte alla giustizia e all’ingiustizia. Nella teofania, Jahweh non è il dio della tempesta, ma il giudice giusto, la cui sapienza e potenza non sono contrastate da nessun altro concorrente nei cieli, sulla terra o sotto terra.

Credere che Dio sia realmente giusto non è frutto di osservazione, bensì la spiegazione di ciò che si intende dire quando si afferma che Dio è una potenza morale. Jahweh si serviva manifestamente della natura per compiere i suoi giudizi su Israele. Egli concede la pioggia o la trattiene, colpisce con la ruggine e il carbonchio, e manda le cavallette (Am. 4,7-9). Elargisce la pioggia a suo tempo, ha fissato le settimane per la messe; ma le iniquità di Israele sconvolgono queste cose e allontanano da lui il benessere (Ger. 5,24-25). Osea prega perché Jahweh dia ad Israele un grembo infecondo e un seno senza latte (9,14). Le messi di Israele saranno disseccate (Os. 8,7). Queste cose furono dette per davvero, e nulla nel corso della storia le mette in dubbio. Ma questo principio è aperto alla critica: lo possiamo dimostrare a partire da due passi del Pentateuco, uno dei quali è alle origini sicuramente mitologico, e molto probabilmente anche l’altro.

La pubblicazione dell’epopea di Gilgamesh nel 1900 eliminò ogni dubbio sul fatto che il racconto biblico del diluvio dipendesse da un originale mesopotamico.

Non c’è motivo di pensare che il mito si riferisca ad una catastrofe di dimensioni cosmiche realmente accaduta, anche se la storia conosce fin troppi casi di simili cataclismi naturali improvvisi, che hanno ucciso migliaia di persone nel giro di pochi minuti. Il fatto di considerarli come espressione della collera di Dio sconvolge molte teologie. Ma il mito mesopotamico tiene conto di questa possibilità e dichiara che tale atto di Dio resta senza spiegazione. La natura umana può ammettere che un dio in collera invii una catastrofe parziale, ma una distruzione totale è irrazionale. E in questa affermazione i mitografi mesopotamici dichiarano la loro completa sfiducia circa l’esistenza di un reale ordine morale nel governo divino del mondo.

Non sappiamo perché gli scribi israelitici abbiano sentito la necessità di riscrivere questo mito, dal momento che ne hanno tralasciati molti altri. Per qualcuno, questa sfiducia nell’esistenza di un ordine morale richiedeva di essere corretta. Il mioto sarebbe stato corretto non attraverso una critica teologica o filosofica, ma riscrivendo il mito stesso. Come gli abitanti della Mesopotamia, gli Israeliti non conoscevano una catastrofe di simili dimensioni, può darsi che abbiano preso per storia il mito mesopotamico. Un diluvio simile non poteva essere opera di dèi inesistenti; soltanto Jahweh, il signore della natura, avrebbe potuto fare questo. Se lo fece, allora il fatto di per se stesso dimostra che tutti gli uomini, ad eccezione di Noè e della sua famiglia, erano malvagi.

L’altro esempio è la distruzione di Sodoma e Gomorra (Gen. 18,20-19,29). Si tratta molto probabilmente di un racconto mitico, altri sarebbero più precisi, e lo chiamerebbero eziologico. Il Mar Morto e la regione di Ghor sono così ostili ad ogni forma di vita, anche vegetale, che sono stati per lungo tempo il simbolo classico della terra maledetta da Dio.

Come il diluvio, la catastrofe è descritta come tale, anche se non universale, e ritorna il problema della sua motivazione. L’autore fa ogni sforzo perché risulti chiaro che gli abitanti di quelle città erano depravati, e inoltre dediti a quel vizio che ha preso il nome da Sodoma e che la moralità fortemente mascolina degli Israeliti trovava particolarmente rivoltante. Il racconto dà una dimostrazione della perversione di Sodoma, e la sentenza viene eseguita. Gli unici innocenti, Lot e la sua famiglia, sono fatti allontanare prima che si verifichi il disastro.

Il racconto introduce una finezza che non era presente nel mito del diluvio. Abramo si impegna in un dialogo di intercessione con Jahweh. Non sarebbe stato possibile evitare la catastrofe totale per amore di coloro che fossero stati riconosciuti giusti nella città? Quanti potevano essere? Cinquanta? Quarantacinque? Quaranta? Trenta? Venti? Dieci? Il dialogo è organizzato in modo che, ad ogni gradino, Jahweh, se avesse voluto rifiutare la richiesta, avrebbe distrutto la città non perché fosse interamente  malvagia, ma a causa di cinque persone malvage: la differenza tra cinquanta e quarantacinque. Ma egli non può uccidere il giusto insieme con il malvagio, trattandoli allo stesso modo; il giudice di tutta la terra deve applicare il diritto (Gen. 18,25).

Evidentemente, in questo caso il “giudizio” permette al giudice di tenere in sospeso la punizione dei malvagi, se non può punirli senza coinvolgere i giusti; ma quando strumento di esecuzione era la natura, gli Israeliti non vedevano in che modo si potesse operare questa distinzione. La bestia feroce, la carestia, la pestilenza – gli esempi del poeta di Gilgameh – la tempesta il terremoto, l’eruzione vulcanica non fanno distinzione tra giusti e ingiusti. Se viene utilizzata la natura, i destinatari de giudizio devono essere abbastanza malvagi da meritarlo.

È chiaro che, in fondo, i miti non risolvono il problema; abbiamo detto che la mitologia non si prefigge di risolvere i problemi, ma di rendere gli uomini capaci di vivere con essi. Anche l’uomo moderno, che ha conosciuto episodi di violenza, sia nella natura sia nella storia, che gli Israeliti non avevano mai conosciuto, è ancora abbastanza sensibile ad inorridire di fronte alla morte istantanea di migliaia di persone, soprattutto se vi sono dei poveri e dei bambini. La teologia del diluvio e di Sodomia non soddisfa in simili frangenti. E in fondo non soddisfece nemmeno gli Israeliti, come vedremo quando parleremo della sapienza.

Letto 3938 volte
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search