“Nella fede morirono tutti costoro [i patriarchi e le matriarche], pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra”. È quanto leggiamo nella lettera agli Ebrei (11,13). Ed ancora nella prima lettera di Pietro (2,11): “Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all'anima”.
“Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17, 7-10).
“Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come il letame del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi”. Qui è Paolo che parla della propria condizione scrivendo la sua prima lettera ai Corinti (4, 11-13).
“Coloro che piangono, [vivano] come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo! (1Cor 7, 30-31).
Un semplice centone di citazioni bibliche? Potremmo essere portati ad interpretarlo come tale, lasciando però perdere il contenuto di questi testi. Testi che sembrano presentare una prospettiva particolare dell'esistenza cristiana. Una prospettiva troppo proiettata sull'oltre e che mette in secondo piano l'ora, il qui, l'adesso. Eppure questa prospettiva è stata presente a lungo nell'esperienza e nella vita delle comunità cristiane. Oggi, questa prospettiva escatologica (vale a dire: proiettata sul dopo la morte, sulle cose ultime, sul senso ultimo della vita umana) sembra un po' troppo dimenticata. Certo, c'è stata anche la critica radicale del marxismo che ha accusato la religione d’essere l'oppio dei popoli, facendo loro dimenticare i problemi dell'oggi e la fatica del suo vivere per proiettare tutto nel desiderio (irrealizzabile) d’un futuro felice ed appagante rappresentato dal dopo morte. Inoltre, si continua a ripetere che la nostra cultura e le nostre società sono permeate da concezioni nichiliste. Non c'è nulla che valga la pena di essere vissuto. O, meglio, la vita va vissuta per quello che è, senza porsi grandi interrogativi sul suo senso, sul suo fine, sul suo dopo perché queste sono false domande, falsi problemi, questioni senza significato.
Ma la domanda che i testi biblici sollecitano è questa: non è che le comunità cristiane abbiano dimenticato qualcosa di essenziale, fondamentale, della propria esperienza? Non è che si viva stancamente il proprio cristianesimo come religione civile, religione che regola alcuni momenti della vita sociale, senza porsi ulteriori domande, senza porre altre domande a questa società ormai troppo ripiegata su se stessa e sulla sua ossessione a soddisfare i propri bisogni?
Molte religioni hanno l'esperienza comune del pellegrinaggio. Per i mussulmani rappresenta uno dei cinque doveri fondamentali. Ogni buon credente deve fare l'haji almeno una volta nella sua vita. Ed è una esperienza che deve lasciare un segno nella propria vita. Non si cambia soltanto il nome (chi fa il pellegrinaggio assume il nome haji), ma deve essere il segno di un cambiamento radicale. Anche l'induismo conosce i grandi pellegrinaggi, in alcuni periodi dell'anno oppure, quello della Kund Mela, fenomeno che coinvolge decine di milioni di persone ogni 13 anni. Pellegrinaggio ad un fiume o alle sue sorgenti o presso un tempio famoso. Nel buddhismo popolare pure si pratica il pellegrinaggio presso famosi luoghi di culto. Nel mondo biblico il pellegrinaggio era presso il tempio di Gerusalemme. Veniva compiuto in occasione di tre celebrazioni durante l'anno (la principale era la pasqua; anche Gesù, ci narrano i vangeli, compie questo pellegrinaggio varie volte). In tutte queste tradizioni religiose il pellegrinaggio viene ad assumere diversi significati. Vi è legata un'esperienza religiosa di cambiamento: la purificazione dal proprio stato di impurità e/o di peccato. Ci si avvicina al luogo nel quale si crede che la presenza divina è manifesta, luogo di preghiera, ove è possibile compiere i sacrifici migliori, più soavi o fare una più approfondita esperienza religiosa.
Anche il cristianesimo ha sempre conosciuto l'esperienza del pellegrinaggio. Fin dall'inizio le tombe dei primi martiri sono state meta per i fedeli. Ma anche i luoghi della Palestina che avevano conosciuto le vicende umane del Cristo. In seguito sono diventate mete particolari i luoghi ove erano stati sepolti alcuni degli apostoli (o che la tradizione tramandava come tali): Roma, per gli apostoli Pietro e Paolo; Santiago di Compostela, per l'apostolo Giacomo; Costantinopoli, per l'apostolo Andrea. La via Romea era la strada che dal nord Europa portava i pellegrini a Roma. La via Lattea era quella che conduceva a Santiago. Chi compiva tali pellegrinaggi acquistava un nuovo nome: Romeo, Palmiere (se era stato in Terra santa), ecc. Oltre a questi grandi ed impegnativi pellegrinaggi, si è diffusa la consuetudine di compierne altri meno faticosi, che potevano essere svolti nell'arco di una giornata o poco più. Mete di tali pellegrinaggi sono diventati i santuari locali, spesso legati ad un uomo santo, ad un accadimento miracoloso, ad una immagine particolarmente venerata.
Ma per il cristiano tutti questi pellegrinaggi avevano anche un significato esistenziale. Fare pellegrinaggio era ricordare che la vita stessa era pellegrinaggio. Rappresentava nel piccolo ciò che era l'esistenza stessa. Mettersi in viaggio voleva dire non sentirsi troppo legati alla propria terra e alle proprie cose. Voleva ricordare di essere protagonisti di una realtà passeggera, transeunte. Ora, tutto questo è stato un po' dimenticato. Si insiste di più sul luogo, perché lì si manifesta in modo particolare il mondo divino, e non sul viaggio.
La nostra è anche un'epoca di grande mobilità. È facile spostarsi rapidamente con i più vari mezzi. Alla fatica del viaggio e alla lontananza sono subentrati il comfort e la prossimità. L'esperienza del pellegrinaggio si è totalmente secolarizzata. Mete sono diventate i luoghi artistici o i luoghi turistici. Roma è città d'arte. Ci si reca per vedere le innumerevoli cose belle ed artistiche. Per alcuni, rientra nel corollario il fatto che sia anche luogo della tomba dei due apostoli. Ma al tempo stesso, pur essendo estremamente mobili nella nostra esperienza quotidiana, non ci sentiamo più "pellegrini" su questa terra, ma fortemente radicati ad essa, a tal punto che non ce ne vorremmo più staccare. Ci sentiamo profondamente legati alle nostre cose che diventano importanti più d’ogni altra cosa. In fondo, credo che il fastidio che ci viene dallo straniero, con la sua sola presenza e diversità che si rivela nel colore della pelle, nella diversità delle consuetudini e delle esperienze, sia dovuto al fatto che ci ricorda la nostra estraneità a questa terra. Ed è un aspetto col quale, oggi, non vogliamo più farci i conti.
Per cui, forse, continuiamo a recitare preghiere che di fatto sono negate dalla nostra comprensione quotidiana della vita (faccio soltanto l'esempio della Salve Regina: esuli figli di Eva, valle di lacrime, questo esilio). Ma può il cristiano dimenticare di essere pellegrino e straniero a questa terra? La risposta sembrerebbe ovvia. Però penso che non siano ammissibili le obiezioni di quanti ritengano che un'affermazione del genere sia fuorviante e possa distogliere il cristiano da un impegno fattivo, concreto per la giustizia e la realtà terrena. Tentazione già presente nelle prime comunità cristiane, ma fortemente combattuta da Paolo che afferma continuamente nelle sue lettere l'importanza di vivere, come cristiani, nella prospettiva di una duplice tensione: da una parte l'impegno concreto e fattivo nella vita quotidiana e dall'altra parte la tensione costante verso la vita nuova che il Cristo dona ai suoi discepoli. Siamo di fronte al bisogno di una duplice fedeltà: alla terra ed al cielo. È un paradosso, ma è lo Spirito di Dio a rendere possibile questa esistenza paradossale del cristiano (cf. Rom 8).
Ogni cristiano è chiamato a fare una vera e profonda esperienza di Dio. Ad assumere, per usare la terminologia della teologia scolastica, un particolare abito operativo. A fare una opzione fondamentale. Quella di vivere – di sforzarsi a vivere – nell'intima unione con Dio. Si tratta di un’esperienza che permette un pieno abbandono a Lui, in un atteggiamento di fiducia nei suoi confronti.
Questa esperienza si esplica nel dare la giusta dimensione alle realtà terrene che vanno usate come strumenti e non devono mai diventare idoli. L'affidarsi alla Provvidenza del Padre e alla grazia relativizza le sicurezze offerte dalle realtà terrene ed il sostegno di tutto ciò che conta nel mondo. La coscienza della precarietà, della nostra fragilità esistenziale aiuta a volgere lo sguardo verso il Padre celeste, il quale, a sua volta, lo rivolge benevolo verso i suoi figli che confidano solo in Lui.
“Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo (...) Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6, 25-33).
Il fare affidamento su Dio solo, l'esperienza dell'intima unione con Dio, si concretizza nel dare il giusto posto alle realtà terrene. Uno stile di vita semplice, che non rincorre il superfluo, e che usa delle cose come se non ne usasse, permette al cristiano di approntare uno stile di vita significativo per la sua salvezza e per la sua testimonianza nel mondo.
Questa esperienza di essenzialità, di precarietà e di semplicità si deve tradurre anche nella solidarietà con coloro - non importa per quale motivo - sono piccoli e poveri agli occhi del mondo, cioè con i più poveri, i più svantaggiati, con coloro che soffrono perché mancano anche del minimo necessario (cibo, lavoro, salute, pace, dignità, casa, patria...).
S. Agostino invita a scoprire «il Cristo povero in noi, con noi e per noi» (PL 37, 1295). I vangeli raccontano che Gesù visse poveramente. I poveri inoltre sono i destinatari della buona novella (Mt. 11,5), sono scelti da Dio. Nella Lettera ai cristiani di Filippi (2, 6-8) la povertà del Cristo viene presentata anche in senso teologico: il mistero della Incarnazione del Figlio rappresenta l'esperienza di assoluta povertà (Kénosis).
La Parola di Dio fa osservare che quando l'uomo non ha più in Dio il suo fine e il suo compimento egli finisce col cercare la pienezza in se stesso e nella brama di possedere sempre di più. Attraverso l'avere (cose, persone, denaro...) l'uomo pone se stesso come idolo che vuole assoggettare tutto a sé. Gesù, in una parabola, ci presenta la figura dell'uomo che fa progetti: Lc 12, 13-21. Gesù mette in guardia i suoi discepoli circa l’incompatibilità del servire a due padroni: Dio e Mammona (cioè la personificazione dei beni stessi e del denaro). Il pellegrino e lo straniero non sono attaccati ai propri beni, anzi li hanno saputi lasciare. La cupidigia delle cose viene equiparata all'idolatria e il servizio di Dio non è compatibile con l'attaccamento alle cose. L'uomo nei confronti dei beni deve sempre stare in guardia, anche quando apparentemente ne ha il controllo: essi possono presto trasformarsi in idoli che lo invischiano in una bramosia senza fine (Mt. 6,24).
Le radici dell'essere discepoli del Cristo povero oggi affondano in un terreno ricco di fermenti. In un mondo dominato dal consumismo l’impegno a vivere come pellegrini e stranieri può assumere il significato di protesta contro le dittature dell'avere e del possedere. E, ancor più, praticare la precarietà significa non tanto ritenerla una virtù in se stessa, ma l'itinerario privilegiato per vivere la fraternità in Cristo. Quella fraternità che per essere evangelica deve iniziare proprio dal basso: dai più umili e dai più poveri.
La fragilità della condizione umana, la debolezza esistenziale si trasfigura, per mezzo dell'abbandono alla provvidenza divina; la precarietà di vita diventa così strumento di salvezza. Non si tratta, allora, di essere degli erranti (nel senso di persone che sbagliano), ma di vivere l'esperienza cristiana con una libertà interiore inimmaginabile. Essendo centrati sulle cose essenziali possiamo così intendere la nostra condizione come quella del pellegrino e dello straniero.
Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia. Il ridimensionamento, la relativizzazione delle cose ci permette di dare il giusto indirizzo alla vocazione dell'uomo: la ricerca del Regno di Dio.
Faustino Ferrari