L'evento di Pentecoste (At 2,1-13)
di Rita Pellegrini
L'evento dell' effusione dello Spirito descritto nel testo di At 2,1-13[i] è posto da Luca al termine di una lunga e significativa fase preparatoria. Esso era stato preannunciato all'inizio del vangelo quando il Battista aveva contrapposto al proprio battesimo con acqua, il battesimo in Spirito Santo e fuoco, opera del «più forte» che stava per venire (Lc 3,16). E al termine della narrazione evangelica, il narratore aveva riferito le parole decisive e rassicuranti di Gesù risorto agli undici: egli avrebbe inviato la «promessa del Padre» che si sarebbe manifestata come «potenza dall' alto» (Lc 24,48ss).
All'inizio del libro degli Atti, ancora, viene riferito il comando del risorto agli apostoli: «di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre... fra non molti giorni» (At 1,4-5). Infine, nell'ultima parola, il risorto, annuncerà loro la sua assenza e il dono dello Spirito che inaugurerà la fase della missione e della testimonianza apostolica: «avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria fino agli estremi confini della terra» (At 1,8).
Dopo la narrazione dell'ascensione di Gesù al cielo (At 1,9-11) e dopo aver menzionato il ritorno degli undici a Gerusalemme (At 1,12-14), appena ricostruito il collegio dei dodici con l'elezione di Mattia (At 1,15-26) ecco verificarsi l'evento tanto atteso. Ci fermiamo ad analizzare il testo che appare suddiviso in due parti: l'evento della discesa dello Spirito (At 2,1-4) e la descrizione delle reazioni di stupore e di meraviglia degli abitanti di Gerusalemme (At 2,5-13).
La discesa dello Spirito (2,1-4)
La narrazione si apre con un'annotazione temporale carica di significato teologico, che tradotta letteralmente suona così: «Mentre il giorno di Pentecoste stava per compiersi ... » (v. 1a). È utile sapere, che l'evento dell'effusione dello Spirito viene a coincidere con la festa giudaica di Pentecoste che già esisteva; denominata anticamente «festa delle sette settimane» (Lv 23,15-16) o «festa della mietitura» (Es 23,16; 34,22; Dt 16,10), perché concludeva il tempo del raccolto, aveva assunto il nome di Pentecoste in relazione al cinquantesimo giorno dalla Pasqua (Tb 2,1; 2 Mac 12,32) ed era diventata la festa che celebrava l'evento del Sinai e la stipulazione dell'alleanza. La festa giudaica sfocia dunque in quella cristiana portando in essa, come vedremo, tutti quei tesori di risonanze bibliche che ci permettono di cogliere pienamente il senso dell' evento.
La menzione del verbo «compiersi» (sumpleróo) suscita nel lettore un primo interrogativo. Il narratore vuole forse indicare, come sembrerebbe a prima vista, che questo grande e solenne giorno festivo stava per terminare? Ma allora come mai Pietro parlerà più avanti delle «nove del mattino» (2,15)? Il narratore vuole forse dirci qualcosa di più. Usando questo verbo il cui significato teologico è molto denso (cf Lc 1,1; 9,51), annuncia che sta finalmente per realizzarsi la promessa del risorto che è a sua volta il compimento di tutte le profezie veterotestamentarie sull'effusione dello Spirito. Il lettore non può non richiamare alla memoria alcuni significativi passi profetici. L'annuncio del Deuteroisaia: «Spanderò il mio spirito sulla tua discendenza, la mia benedizione sui tuoi posteri» (Is 44,3) o la profezia di Ezechiele: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati ... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, vi darò un cuore di carne ... Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere…» (Ez 36,24-27; cf Ger 31,31-34; Gl 3,15ss). La venuta dello Spirito si presenta dunque come il portare a termine un lungo tempo di attesa e insieme come il punto di partenza di un tempo nuovo. Si viene così ad inaugurare l'ultima fase della storia della salvezza, quello della signoria di Cristo esercitata per mezzo dello Spirito.
Luca prosegue, poi, menzionando con un generico «tutti» (pántes) i partecipanti all'evento: «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (v. 1b). Il lettore si incontra subito con un'altra difficoltà: chi sono questi «tutti»? Si tratta delle centoventi persone che hanno preso parte alla elezione di Mattia (1,15) oppure sono il ristretto gruppo degli undici discepoli, i cui nomi vengono elencati accuratamente, con l'aggiunta di Maria «la madre di Gesù» e di alcune donne, che il narratore presenta riuniti in preghiera in 1,13-14? Con Dupont riteniamo ci siano buone ragioni per dire che il primo destinatario del dono dello Spirito è proprio questo piccolo gruppo di discepoli, al quale e non per caso, sono unite Maria e alcune donne. Infatti la frase del nostro testo: «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (2,1), che esprime comunione e soprattutto unanimità di cuore, richiama il testo di 1,14 dove si dice che i discepoli «erano assidui e concordi (homothumadòn) nella preghiera». Anche «la casa» indicata, dove essi «si trovavano tutti insieme» quando viene l'irruzione dello Spirito (2,2), ricorda il «piano superiore» dove gli Apostoli abitavano (1,13).
Dunque il gruppo dei discepoli, al quale si è aggiunto Mattia (1,26) insieme a Maria e alle donne, stretto in una comunione profonda, attende nella preghiera il dono promesso dal Signore risorto come, al momento del battesimo, Gesù stava in preghiera prima che discendesse su di lui lo Spirito per la missione (Lc 3,21-22). Sappiamo quanto è caro al narratore collegare il dono dello Spirito al momento preparatorio della preghiera (cf Lc 11,13). A confermare questa «lettura» c'è inoltre la promessa di Gesù che riguardava gli Apostoli e dunque sarebbe strano che il dono dello Spirito si realizzasse a favore del gruppo dei centoventi che era presente alla elezione di Mattia. Destinatario dello Spirito è dunque la piccolissima comunità. Descrivendo la loro unità e concordia il narratore intende richiamare alla memoria, l'unanimità dell'assemblea di Israele al momento dell'alleanza del Sinai: «Tutto il popolo rispose insieme ("unanime" - homothumadòn - secondo il testo greco) e disse: Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!» (Es 19,8). Luca, dunque, anticipa in questa introduzione un quadro teologicamente denso e invita il lettore ad unirsi alla comunità apostolica ponendosi nello stesso atteggiamento di attesa e di preghiera.
L'effusione dello Spirito è poi raccontata con un linguaggio molto particolare, si accenna a fenomeni uditivi (v. 2) e visivi (v. 3) attraverso i quali l'evento sembra visibilizzarsi. Il racconto lucano fa continuamente riferimento all'evento del Sinai: il linguaggio usato è quello del genere della teofania, si parla di fragore, di voce, di vento e di fuoco. Appare lo sforzo di esprimere con immagini un'esperienza inesprimibile.
Il fenomeno di carattere uditivo (v. 2)
La presenza dello Spirito si manifesta inizialmente come un rumore fortissimo, un «rombo» (échos) che poi al v. 6 è chiamato «fragore» o «voce» (fhoné). Il termine greco «échos» indica un rumore rimbombante, come il frastuono delle onde del mare (Lc 21,25; Sal 65,7) o il rumore del tuono (Sir 46,17) o della tromba (Es 19,16; Eb 12,18-19). Questo fragore che si produce «improvvisamente», proviene «dal cielo», come la voce di Dio che risuonò sul Sinai[ii] (Es 19,3) o che si udì al momento del battesimo di Gesù (Lc 3,22), o che Pietro intese a Giaffa (At 11,9) o ancora che udì il veggente dell' Apocalisse (Ap 10,4.8). Questo rumore è poi paragonato ad un «vento gagliardo», simbolo della potenza misteriosa vivificatrice e creatrice di Dio (Gn 1,1; Gv 3,8ss). Luca precisa ulteriormente, dicendo che questo rumore «riempì tutta la casa» dove il gruppo dei discepoli con Maria e le donne era radunato. Lo Spirito, non è ancora stato nominato ma vengono presentati i segni annunciatori della sua presenza. Fra poco irromperà sui presenti come un avvenimento che dipende totalmente dall'iniziativa di Dio e, come Gesù aveva annunciato, che discende come «potenza dall'alto» (Lc 24,49).
Il fenomeno di carattere visivo (v. 3)
Dopo il fenomeno sonoro, ecco quello visivo: si parla dell'apparire di «lingue come di fuoco». Esse «furono viste» dai presenti nell'atto di dividersi e di posarsi su ciascuno di loro. Nel linguaggio lucano il verbo «apparire» che è stato riferito agli angeli (Lc 1,11; 22,43; At 7,30-35), a Dio (At 7,2) o al Risorto (Lc 24,34; At 9,17; 26,16) dice che siamo di fronte alla manifestazione di una realtà soprannaturale: incomincia la descrizione dell'effusione dello Spirito. Le «lingue» (glôssai) fanno pensare al «dono delle lingue» che gli apostoli riceveranno, come il testo fra poco mostrerà, e portano a pensare alla connessione stretta che esiste tra dono dello Spirito e dono della Parola. Il paragone con il «fuoco» riporta al contesto delle teofanie ed è segno del manifestarsi del divino. Le rivelazioni di Dio sono spesso messe in relazione con l'immagine del fuoco che diviene simbolo di «alterità» e di «santità»; in particolare lo è quella del Sinai (Es 19,18; 24,17), ma anche quella della manifestazione di Dio a Mosè nel roveto ardente, dove il fuoco arde ma non consuma (Es 3,16). Viene alla memoria l'annuncio del Battista che aveva associato lo Spirito Santo al fuoco (Lc 3,16). Le «lingue» viste nell'atto di dividersi[iii] vanno poi a posarsi su ciascuno dei presenti. Il verbo «si posò» usato nel testo greco al singolare per fare meglio allusione allo Spirito è ekáthisen, che significa più esattamente «si stabilì». Con questa immagine il narratore vuole dire che lo Spirito santo è «presenza divina», è come fuoco che purifica e che avvolge, e con la sua azione unica e singolare, «prende possesso» di ogni persona, si adagia per poi rimanere su ciascuno dei presenti, come lo Spirito «discese e si fermò» su Gesù al momento del battesimo (Gv 1,32-33).
«Tutti furono riempiti di Spirito Santo» (v. 4)
Siamo giunti così al momento culminante dell'avvenimento. Nominando lo Spirito Santo due volte il narratore spiega ora apertamente quanto i segni premonitori avevano annunciato: «tutti» i presenti (cf v. l) furono «ripieni di Spirito Santo». Avviene su tutti un'effusione interiore che li riempie fino a traboccare; Pietro infatti, nel successivo discorso apostolico dirà che Gesù, salito al cielo lo ha ricevuto dal Padre per «riversarlo» sui suoi discepoli (At 2,33). Nel tempo della promessa lo Spirito era stato donato ai profeti e ad alcuni grandi uomini dell' Antico Testamento, poi a pochi eletti i cui nomi vengono ricordati dal narratore nel vangelo dell'infanzia: Giovanni Battista quando ancora stava nel seno materno (Lc 1,15), Elisabetta e Zaccaria (Lc 1,41.67), Simeone (Lc 2,26), Maria (Lc 1,35). Esso poi si era concentrato unicamente in pienezza sulla persona di Gesù (Lc 1,35; 3,22; 4,1.18). Ora questo dono raggiunge «tutti»: così il gruppo dei discepoli viene definitivamente costituito e intimamente trasformato. Successivamente molte altre persone verranno designate nel libro degli Atti come «riempite» di Spirito Santo: Pietro (4,8), la comunità cristiana (4,31), Paolo (9,17; 13,9), Stefano (6,5; 7,55), Barnaba (11,24), i discepoli di Antiochia (13,52). Lo Spirito resterà da ora in poi sempre all'opera nella Chiesa come il protagonista principale.
Il narratore descrive poi gli effetti prodotti da questa effusione dello Spirito: il gruppo dei discepoli comincia a «parlare in altre lingue» (v. 4b). Come comprendere questo fenomeno straordinario? Si tratta forse del dono della «glossolalia» che consisterebbe in un parlare estatico, misterioso, con suoni che non corrispondono a nessun idioma dell'epoca ma estremamente comunicativo grazie all'emozione di chi lo parlava? Questo «parlare in lingue» è abbastanza frequente nella Chiesa primitiva, come ci testimoniano il libro degli Atti stesso (10,46; 19,6) e le lettere paoline (cf l Cor 12-14), e nel nostro testo, il sospetto di ubriachezza (2,13), smentito da Pietro nel suo seguente discorso (2,15), potrebbe far pensare che si tratti di questo fenomeno. Oppure il narratore intende descrivere un dono di «profezia» per cui il gruppo dei discepoli parla realmente in altre lingue e con un linguaggio, per ciascuno dei presenti, comprensibile e intelligibile?
Se leggiamo attentamente il v. 4 troviamo elementi per operare una scelta: il testo dice chiaramente che il gruppo dei discepoli incomincia a «parlare» (laleîn) in «altre» (hetérais) lingue (v. 4a). L'aggettivo «altre» (hetérais) è molto importante perché indica che gli apostoli si mettono a parlare in lingue diverse dalla propria.[iv] Il narratore, poi, sottolinea come questo dono sia frutto della irruzione dello Spirito: «come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi (apophthéngomai)» (v. 4b). Questo verbo «esprimersi» che introduce anche l'inizio del bellissimo discorso di Pietro che segue questo avvenimento, fa sempre riferimento in Luca, ad un parlare «solenne», «ispirato» e «comprensibile» (cf At 2,14; 26,25). Ci pare dunque di poter affermare, da questi primi dati, che il prodigio della Pentecoste consista nel dono che gli apostoli ricevono di «parlare» con le lingue stesse degli uditori: essi proclamerebbe una «parola» che, proprio perché tutti capiscono, ha una valenza universale. Notiamo però che non è ancora noto il contenuto di tale messaggio. Nei versetti seguenti troviamo altri elementi che ci portano in questa direzione e possono chiarire il senso pieno dell'avvenimento. Ma lasciamoci guidare dalla narrazione.
2. Le reazioni di stupore e di meraviglia degli abitanti di Gerusalemme (2,5-13)
Dopo aver descritto i fenomeni uditivi e visivi che accompagnavano l'irruzione dello Spirito sul gruppo apostolico e dopo aver annunciato il prodigi del loro parlare in «lingue» straniere, il narratore descrive le reazioni che tale evento provoca. Lo sguardo dell'evangelista si sposta, dal gruppo apostolico radunato «nella casa», ai «Giudei osservanti» che abitavano la città di Gerusalemme e che provenivano «da ogni nazione che è sotto il cielo».
Ci pare utile non passare inosservate queste annotazioni introduttive che riguardano i testimoni dell'evento di Pentecoste. Essi sono qualificati «Giudei osservanti», si tratta dunque di circoncisi per nascita o per religione (cf v. 11 «proseliti»), che si erano stabiliti a Gerusalemme per vivere all'ombra del tempio. L'espressione «uomini osservanti» (àvdres eùlabeîs) tanto cara all'evangelista, rende l'idea della loro religiosità fatta essenzialmente di timore di Dio e di osservanza scrupolosa e amorevole della «Legge» dei padri. La loro devozione o pietà evoca quella di Simone (Lc 2,25), di Anania (22,12) o dei seppellitori di Stefano (22,12). Essi, pur provenendo da nazioni pagane («tutte le nazioni che sono sotto il cielo»), hanno sempre mantenuto la loro identità giudaica ed appartengono a pieno titolo al popolo d'Israele.
Ecco infatti cosa accade: il «fragore» della discesa dello Spirito che ha «riempito tutta la casa» (v. 2) dove abitava il gruppo apostolico, viene percepito anche all'esterno: la «moltitudine[v]» dei giudei si raduna, eccitata e confusa. Il narratore riferisce le loro reazioni e sottolinea con insistenza «l'effetto sorpresa» provocato su di loro dai discorsi degli apostoli. I termini che parlano di stupore e di meraviglia si accavallano l'uno all'altro. La moltitudine è presentata al v. 6 come «stupefatta», in piena confusione (sunechùthe) perché «ciascuno li udiva parlare la propria lingua»,[vi] poi al v. 7 si ripete che essi erano «stupiti» e «meravigliati», e ancora al v. 12, dopo l'enumerazione dei popoli rappresentati nell'uditorio, si dice: «Tutti erano stupiti e perplessi». Questa meraviglia si traduce in movimento, in concitate gesticolazioni e in esclamazioni poi si formulano una serie di domande che riguardano il prodigio del parlare in lingue. Essi sottolineano dapprima la stranezza del fenomeno, per il fatto che il gruppo apostolico è formato da Galilei: «costoro che parlano non sono forse tutti Galilei?» (v. 7); si domandano poi come mai i presenti li sentano parlare nella lingua del loro paese di provenienza: «E come è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?» (v. 8); e successivamente le loro parole si precisano ulteriormente: «li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (v. 11). È interessante notare come il verbo «parlare» è ripetutamente riferito al gruppo dei discepoli ed è specificato dalle espressioni «la nostra lingua nativa» (v. 8) e «nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio» (v. 11). Abbiamo ulteriori elementi per confermare
quanto abbiamo sostenuto precedentemente. Il lettore si accorge che il racconto non lascia più alcun dubbio sul significato da dare al prodigio. Il narratore intende sottolineare che lo Spirito rende capaci i discepoli di parlare nelle lingue delle diverse nazioni alle quali appartenevano questi Ebrei pii ed osservanti. Nasce il linguaggio nuovo della fede, che tutti comprendono e che raggiunge questa moltitudine stupefatta.
Infatti la lista dei popoli e delle regioni, elencate al centro delle insistite affermazioni sullo stupore dei presenti (vv. 9-11), pur non essendo esaustiva di tutto il mondo allora conosciuto, è stata inserita dal narratore con un chiaro significato universalistico: esso rappresenta la pienezza d'Israele, ora simbolicamente radunato come le profezie veterotestamentarie avevano annunciato per gli ultimi tempi: «Vi prenderò tra le genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo ... porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi ... » (Ez 36,24ss). Questa promessa che sembrava già essersi realizzata quando Israele giunse al Sinai (cf Dt 1,10; 10,22) ha invece in questo momento il suo vero compimento, perché tutta questa «moltitudine», proveniente «da tutte le nazioni che sono sotto il cielo», è anche simbolicamente rappresentativa di tutti i popoli pagani, ai quali gli apostoli porteranno la loro testimonianza. Il narratore vuole dunque affermare, attraverso questa lista, non solo che l'intero Israele, lì radunato, è il primo destinatario del prodigio dell'effusione dello Spirito, ma che esso farà da legame tra Gerusalemme e il resto del mondo. Dunque in questa moltitudine radunatasi a Pentecoste occorre vedere tutta l'umanità. Il linguaggio della fede, parlato dal gruppo apostolico a Pentecoste è destinato a raggiungere gli uomini di ogni popolo e di ogni cultura, perché il linguaggio dello Spirito è un linguaggio universale!
Ma lo stupore dei presenti non riguarda solo il fenomeno del parlare in lingue straniere, ma anche e soprattutto, «l'annuncio» sorprendente che viene loro rivolto. Il gruppo apostolico parlando nella lingua stessa degli uditori, proclama con forza e con parole persuasive, intelligibili e comprensibili a tutti «le grandi opere di Dio» (tà megaleîa toû Theoû, 2,11). Finalmente il contenuto della predicazione apostolica è ora formulato apertamente e condensato in questa ricca espressione, in cui Dio, il Padre di Gesù, è al centro della lode, così come lo era nei cantici proclamati da alcuni personaggi dei vangeli dell'infanzia. Infatti, sotto l'impulso dello Spirito il gruppo dei discepoli incomincia a lodare Dio e a cantare le sue meraviglie. Si tratta di un parlare estatico, pieno di gioia che assomiglia alla proclamazione di un cantico che tutti comprendono. Come era avvenuto per Zaccaria che ripieno di Spirito Santo profetava dicendo: «Benedetto il Signore Dio d'Israele» (Lc 1,67ss) o per Maria nel cantico del Magnificat: «L'anima mia magnifica (megalùnei) il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore» e «Grandi cose (megala) ha fatto in me l'Onnipotente ... »
(Lc 1,46.49), così essi proclamano le meraviglie di Dio, in mezzo alle nazioni! (cf Rm 15,9). Lo Spirito infatti, riempiendo i loro cuori, li fa traboccare di gioia, di ammirazione e riconoscenza verso Dio, li «travolge» e li fa «parlare»! Pietro, nel successivo discorso «profetico» che lo Spirito gli farà proclamare (2,14-36) espliciterà così il senso delle «grandi opere di Dio» di cui i presenti sono testimoni: il Padre ha risuscitato Gesù, lo ha innalzato alla sua destra e ha effuso il suo Spirito come essi stessi possono vedere e udire (2,33). È proprio questo dono che viene «dall'alto» che ora permetterà a tutti di proclamare che «Gesù è il Signore» e di gridare, come dirà Paolo, «Abbà, Padre!» (Rm 8,15). L'evento della passione e morte di Gesù che sembrava prima un enigma e una tragedia inspiegabile (cf Lc 24) viene ora compreso come il punto di arrivo di un disegno di misericordia e di salvezza per tutti loro. Il dono dello Spirito, infatti, dà al gruppo apostolico un'intelligenza «piena» del senso degli avvenimenti della Pasqua (cf Gv 15,26). Pietro dirà senza esitazione alcuna: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso» (2,36). Il crocifisso è dunque il risorto, il Kyrios, della storia. La realtà interiore dello Spirito, donato dal Signore Gesù, che essi hanno così fortemente sperimentato non può più essere trattenuta. La bontà incondizionata del Padre che si è rivelata nel Figlio va proclamata a ogni uomo! Nasce in loro la coscienza che la vicenda di Gesù di Nazaret non è più circoscrivibile dentro un arco di tempo limitato, ma supera i limiti del tempo e dello spazio per raggiungere ogni uomo e ogni popolo, vicini e lontani. Essi dunque diventano «apostoli» e «profeti» nel senso pieno della parola. Incomincia in questo momento il tempo «dell'annuncio della Parola»: è l'inizio dell'evangelizzazione!
Ci sembra, dunque, che siano proprio e soprattutto l'«annuncio» della bontà incondizionata di Dio e la scoperta della sua paternità e del suo perdono a suscitare stupore e meraviglia. L'ultima domanda «Che significa questo?» (2,12) manifesta il desiderio di comprendere ancora di più «la Parola» sorprendente degli apostoli. Questo stupore dei presenti, che testimonia in modo molto efficace la natura straordinaria dell' avvenimento, è preambolo della fede. L'essere fuori di sé e la meraviglia erano gli atteggiamenti tipici delle folle di fronte ai miracoli e alla rivelazione divina di Gesù (Lc 8,25; 9,43; 11,14), dunque l'uditorio della Pentecoste ricorda, ma su scala più vasta, quello che Gesù ha conosciuto nell'arco del suo ministero.
La narrazione dell'evento di Pentecoste termina riportando però, anche reazioni opposte, di chiusura e di perplessità. Alcuni dei presenti commentavano l'evento dicendo: «Si sono ubriacati di mosto» (2,13b). Questa espressione riassume probabilmente quell'esperienza di rifiuto e di derisione che la chiesa subirà in seguito, quando proclamerà la notizia straordinaria del crocifisso risorto (At 17,32; 26,24). Perché da queste prime reazioni si arrivi alla conversione, sono necessari però, due ulteriori passi: il primo accedere al «significato» profondo dell'evento e il secondo aderirvi con una risposta personale. Sarà proprio questa «Parola» annunciata da Pietro a condurre a questa meta. Rispondendo agli interrogativi e alle provocazioni degli uditori, Pietro proclamerà con forza che lo Spirito, dono del Signore risorto, è ora effuso su tutti, come la profezia del profeta Gioele aveva annunciato e inviterà i presenti ad accogliere l'opera meravigliosa del Padre, che ha risuscitato colui, che da loro è stato crocifisso. Il narratore concluderà il discorso dando un'altra notizia straordinaria: coloro che accolsero la Parola dell'apostolo furono battezzati e «in quel giorno si unirono a loro circa tremila persone» (2,41). È lo Spirito che ha fatto nascere la prima comunità di credenti! Il gruppo apostolico sperimenterà così il pieno compimento della promessa fatta ad Abramo di renderlo padre di una «moltitudine di popoli» (Gn 17,4-5; cf Dt 26,5; Eb 11,12) e il popolo d'Israele qui radunato e rappresentato da questi giudei, accoglierà la Nuova Alleanza, proclamata a loro per la prima volta pubblicamente. L'esegesi cristiana vedrà in questo avvenimento di Pentecoste l'opposto di quanto si verificò a Babele (Gn 11,1-9). Il dono dello Spirito restituisce agli uomini e ai popoli quell'unità che essi avevano perduto, perché la lingua dello Spirito è l'unica capace di unire. Da questo momento la Parola di Dio inizierà la sua corsa per conquistare tutte le genti, cominciando da Gerusalemme per poi raggiungere progressivamente la Giudea, la Samaria ed arrivare fino agli estremi confini della terra (1,8).
(da Parole di vita, n.1, 1998)
[i] Segnaliamo ai lettori lo studio autorevole di J. Dupont, «La prima Pentecoste cristiana (At 2,1-11») pubblicato in: Studi sugli Atti degli Apostoli, Paoline, 1973, 823-860, al quale abbiamo fatto ampio riferimento e l'ottimo articolo di A. BARBI, «La narrazione della Pentecoste e le altre pentecosti. già comparso nella nostra rivista (n. 2 [1983] pp. 26-42), che merita tutta la nostra attenzione.
[ii] « ... dal cielo Dio fece udire la sua voce ... » (Es 19,3; cf 20,22).
[iii] Il verbo «dividersi» (diamerizômenai) consente un nuovo accostamento con le tradizioni rabbiniche che commentano gli eventi del Sinai. Rabbi Johanan del III secolo d.C. riferisce che sulla santa montagna la voce di Dio si sarebbe divisa in sette voci e poi in settanta lingue, così ogni popolo la intese nella sua propria lingua (Es 19,19).
[iv] L'espressione parlare in «un' altra lingua» si ritrova in questi testi: Prologo del Siracide v. 22; l Cor 14,21 per indicare il parlare in lingua straniera.
[v] Manteniamo il termine «moltitudine» che traduce il greco plèthos, invece di «folla» (CEI) perché il narratore vuole probabilmente creare un collegamento con la promessa di Abramo (Gn 17,4-5).
[vi] L'espressione «la propria lingua» (2,6) va tradotta letteralmente «nel proprio dialetto».