L’avarizia
di Cettina Militello
Di questo vizio abbiamo gia richiamato l'etimologia: aviditas aeris, ossia "avidità del bronzo". Il corrispondente greco philargia, "avidità d'argento", ci rende più evidente di che si tratta: voglia smisurata di denaro, non da spendere ma da conservare, e tanto meglio se le monete sono d'oro - pensiamo a Paperon de' Paperoni, al suo forziere, ai suoi tuffi ripetuti, al piacere dell'affondarvi. Ma in mancanza di bronzo o argento e oro, va bene anche l'accumulo cartaceo e quello virtuale. Tutto e comunque, purché si tratti di denaro.
L'avarizia è dunque smoderato desiderio dell'avere, puntigliosa smania d'accumulare, spasmodica voglia di conservarlo. Conta l'avere più che il fruire. Tant’è che l'avaro nella rappresentazione popolare vive da mendico, preoccupato com'è di mascherare la sua ricchezza. Essa non gli cambia la vita. Gli basta contemplare estasiato il suo tesoro. Si dirà: che male c'e? Alla fine, danneggia solo se stesso, privandosi di ciò che costituisce il pregio della ricchezza: migliore qualità della vita, possibilità d'incidere nella vita degli altri, possibilità d'esercitare il potere che la ricchezza comporta, possibilità d'essere riconosciuti e apprezzati proprio per l'abilità di cui si e data prova nel mantenerla o nel conseguirla.
In effetti, se così fosse, l'avaro potrebbe anche essere meritevole. Le cose però non stanno esattamente in questo modo e il danno - meglio il peccato - di cui l'avaro è colpevole sta nella violenza con cui, con ogni mezzo, accumula denaro, non importa alle spalle di chi o come e nel disordine che provoca il suo sottrarre alla società i beni che nasconde "sotto il mattone". La smania dell'avere a ogni costo si oppone alla giustizia. E questo, quale che sia il motivo, è sempre molto grave.
L'avarizia rende gli uomini gretti d'animo
L'avaro però fa anche altro, dismette quell'attitudine dell'anima che rende benevoli, "liberali" verso gli altri. Violentemente si chiude nel circolo dell'avere incapace di fare spazio agli altri nel fruirlo.
Cicerone, nel De officiis 2,20, afferma che l'avarizia rende «gretti d'animo». Il che dice altrimenti l'offesa a quella liberalità, a quella generosa apertura che è sale della vita. Il romano, pagano, denuncia l'idolatria dell'avere che l'avarizia comporta. Sì, idolatria. Il denaro al posto di Dio. Un Dio comodo, si capisce, sordo e muto, chiuso, egoista, pago di se, impermeabile a nient'altro che al suo luccichio. Un Dio da adorare e servire con poca spesa: niente fiori, candele, incenso e, ancor di più niente richieste, obblighi e doveri.
Giovanni Crisostomo vede l'avaro come un indemoniato che agisce esattamente all'opposto di quell'altro che in Mc 5,15 viene liberato da Gesù (cf In Matth., hom. XXVIII. PG 57,355). La frenesia della possessione induce l'indemoniato della pericope a spogliarsi, a liberarsi di tutto. La frenesia dell'avaro lo porta invece a rivestirsi di tutto, a non lasciare niente agli altri, a tutto recuperare a suo solo presunto vantaggio.
Aristotele (Etica 5,5,14), prima di entrambi, ha bollato l'avarizia in quanto capovolge l'ordine sociale facendo si che tutto obbedisca solo al danaro. In altre parole, nessuna idealità, nessuna gerarchia di virtù, nessuna sana emulazione civica, ma perversione del buon ordine, sovvertimento dei pilastri che fondano il buon vivere comune. L'avaro è un cittadino parassita, un cittadino che non dà niente a nessuno. L'avaro insomma nel segno di un "autismo" imputabile a scelta e perciò riprovevole e vizioso.
Nella Divina Commedia, come si sa, i vizi capitali vengono espiati, nel Purgatorio. Il canto XIX vede Dante e Virgilio visitare il girone degli avari e tra di essi si incontra Adriano V. La pena che gli è comminata è il contrappasso del peccato commesso: «Come avarizia spense a ciascun bene / Lo nostro amore, onde operar perdési, / Così giustizia qui stretti ne tene» (vv. 121-123). Se la giustizia dà a ciascuno il suo, l'avaro non dà niente a nessuno, neppure a sé stesso. Spegne, così, l'amore verso ogni altro bene, bloccando e impedendo ogni impegno, ogni iniziativa a favore proprio come di altri. Questo sostare ripiegati su se stessi, addirittura accanendosi su se stessi pur di non compromettere il presunto bene - con gli esiti grotteschi messi in evidenza nella celebre commedia di Molière - purtroppo prolifica riccamente. Anche l'avarizia ha molte figlie. Secondo Isidoro di Siviglia le sono "naturali": menzogna, frode, furto, spergiuro, inumanità e rapacità; secondo Aristotele le sono consequenziali: usura, spoliazione di vivi e di morti, rapina.
Ma davvero l'avarizia si gioca tutta e solo sul piano dell'avere nel senso della monetizzazione ad ogni costo? Non lo credo. Forse anche, ma non soltanto. Certo conosciamo anche gli avari nel senso stretto del termine. Ne troviamo nella Chiesa come nella società. Ma a mio avviso assai più sono nell'uno e nell'altro ambito gli avari d'altro genere.
I mille volti dell'avarizia
Chiamo avarizia la fruizione in proprio della verità, magari elaborata a proprio modo. Chiamo avarizia la grettezza d'animo, che mi rende incapace di prestare attenzione all'altro. Chiamo avarizia l'atteggiamento ecclesiale neghittoso e solitario, che preferisce la comodità delle chiese vuote alla compromissione ed estroversione dell'annuncio. Chiamo avarizia tutto ciò che si chiude, che si crogiola nel presunto bene o ragione propria, senza mai aprirsi alle ragioni degli altri, spesso addirittura masochisticamente cieco al danno che un tale atteggiamento produce alla persona o alla istituzione che così agisce.
E’ comodo custodire gelosamente le convinzioni proprie, indipendentemente da ciò che nel tempo ne ha comportato una migliore intelligenza. E’ facile, ad esempio, etichettare con la parola "natura" tutto ciò che ben altrimenti ci impegnerebbe a ripensare o a rifondare certe nostre posizioni. L'avarizia, insomma, come residua arte del niet, del no ad ogni costo, in nome di valori non più tali, che andrebbero quanto meno riculturati in dialogo con la mutazione in atto. Non si tratta di cedere al relativismo. Si tratta di capire che il cristianesimo è vincente quando osa aprirsi, uscire da sé, dialogare con le culture, quando si spende fuori dal suo recinto, dal bene prezioso di una presunta acquisita salvezza per renderla disponibile anche agli altri.
Siamo davvero liberi dalla menzogna, dalla frode, dal furto, dallo spergiuro? Non è che sovente difendiamo una ideologia piuttosto che la fede e la spacciamo come verità cristiana? Non è frode la nostra incapacità di mediazione, di acquisizione dei valori degli altri?
Non siamo in qualche modo spergiuri tutte le volte che spacciamo per Dio qualcosa o qualcuno che non lo è? E non c'è inumanità nel nostro rapportarci agli altri, uomini e donne? Non abbiamo forse anche noi messo in atto l'espoliazione dei vivi e dei morti, magari prospettando paradiso?
Che cosa temiamo? Che cosa vogliamo che non ci sia tolto? Quale totem custodiamo scambiandolo per Dio? Che senso ha il nostro essere Chiesa se siamo incapaci di compassione, dialogo, comunione?
Né il quadro socio-politico è meno sconsolante. Anche lì la difesa a ogni costo del proprio privilegio rende altrettanto avari, altrettanto rapaci, altrettanto pronti a schiavizzare chicchessia, pur di godersi narcisisticamente il proprio potere. Lì, forse, è più evidente lo spergiuro, non importa se sacralizzato o desacralizzato. Resta il vuoto della parola data, degli impegni presi e poi non mantenuti, anzi capovolti e snaturati in nome di un proprio antisociale tornaconto.
Si può guarire dall'avarizia? Certo che sì. Come Chiesa basta aprire porte e finestre e compartire il nostro tesoro: un Dio sconfitto, un Dio crocifisso e ciò nonostante vittorioso e risorto. Partecipare alla sua vittoria tuttavia non ci esime dall'imitarlo, dal soffrire per gli altri come lui ha fatto, dal dialogare con gli altri come lui ha fatto, dal guarire gli altri come lui ha fatto, chinandosi su uomini e donne, a nessuno ricusandosi, anzi scegliendo gli ultimi. Come comunità civile basta smetterla di riproporre le ragioni della casta, quale che sia, di trasmettere il "posto" da una generazione all'altra con avidità, impedendo ogni ricambio, quasi che l'essere questo o quello sia iscritto in un diritto ereditario. Basta governare l'immaginazione, farsi "umani", "liberali" nel segno della gratuità. Ecco, appunto, la gratuità è l'opposto dell'avarizia. Quando sarà al centro, cristiani e cittadini di certo avranno dato forma nuova alla Chiesa e alla città.
(da Vita Pastorale, marzo 2009)