Rilettura del decalogo: il settimo comandamento
Dietro colui che è sorpreso a rubare c'è uno società che non l'ha garantito nei bisogni primari. In carcere non stanno i ladri sopraffini, quelli che hanno fatto della speculazione un'arte, dell'uso dei beni sociali un fatto privato dovuto.
Introducendo al VII comandamento, abbiamo fatto spazio all'utopia, anzi alla radicalità cristiana, che guarda ai beni tutti come dono e dunque li custodisce, ne ha cura, senza la prevaricazione del possesso. In verità, la radicalità di cui parliamo appartiene anche a certa tradizione ebraica che, poiché le cose tutte appartengono al creatore, legge il furto come profanazione del nome di Dio e perciò come bestemmia. Di fatto, però, cristiani e non, siamo addivenuti a un'accezione privata e/o pubblica del possesso, perciò dell'opporre gli uni agli altri diritti acquisiti circa le persone e le cose. Ci è giocoforza avventurarci nelle maglie di quest'ordinario nostro vivere e declinare il furto nella scala di peccaminosità (e reato) che esso comporta.
Rispetto delle persone e dei beni
Il Catechismo della Chiesa cattolica sotto il titolo "il rispetto delle persone e dei loro beni" distingue il rispetto dei beni altrui e a seguire il rispetto dell'integrità della creazione. Nella prima prospettiva il furto è considerato «usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario» (CCC, 2408). Non c'è furto se il consenso è "presunto", ovvero se il possesso è contrario «alla ragione e alla destinazione universale dei beni».
Dunque, dinanzi a una necessità urgente relativa a bisogni immediati ed essenziali non c'è furto che tenga. Ovvero, non si può parlare di furto. E come beni essenziali vengono indicati: nutrimento, rifugio, indumenti... Proprio i puntini di sospensione fanno capire che l'elenco non è esaustivo e che, a ben riflettere, è, all'opposto, un furto negare a qualcuno il diritto nativo a nutrirsi, ad avere un tetto, ad avere vesti adeguate a difendere il proprio pudore e la propria dignità.
Ebbene, nel mondo in cui viviamo milioni (miliardi?) di persone sono prive di questi diritti inalienabili. Il che ci apre al delitto immane collettivamente consumato verso chi non ha casa, nutrimento, vestito. Le cronache del nostro tempo di crisi, anche nell'opulento Occidente, anche a casa nostra, ci mettono dinanzi a chi per bisogno sottrae cibo dagli scaffali dei supermercati, a chi occupa immobili, disabitati vuoi per iniquità vuoi per incuria. Diventa più sottile la questione del vestirsi. Ma se ne allarghiamo la valenza, anche al riguardo la responsabilità collettiva è enorme.
Una perla del CCC al paragrafo 2409 riguarda la discrepanza tra le disposizioni della legge civile e il VII comandamento. Il furto resta tale anche quando l'azione del sottrarre a qualcuno un bene proprio non si configura come reato. E, bisogna pur dire che, nella dissoluzione dell'ethos pubblico e nell'iniquità di un legiferare a favore del privilegio, tantissime azioni riprovevoli e riconducibili al furto, alla sottrazione indebita a singoli o alla comunità, di fatto non vengono più perseguite come tali, anzi è diventato obbligato vantarsene come azione virtuosa - meglio "fruttuosa" - di chi se ne avvantaggia.
Società all'insegna della frode
L'elencazione del paragrafo citato accosta l'appropriarsi di cose avute in prestito al mantenere come proprie le cose smarrite, il commettere frode nel commercio al pagare salari ingiusti e ancora all'alzare i prezzi speculando sull'ignoranza o sul bisogno altrui. Speculazione, corruzione, uso privato dei beni sociali di un'impresa, lavori eseguiti male, frode fiscale, contraffazione di assegni e di fatture, spese eccessive, sperpero, danno arrecato alle proprietà private e pubbliche. Sembra quasi di scorrere le colonne dei nostri quotidiani. La nostra società è nel segno della frode, della speculazione, della corruzione, dello sperpero, della contraffazione.
È chiaro che a fare la differenza è il peso del bene sottratto. Personalmente trovo che l'ingiuria più grave, purtroppo impunita, è quella relativa alla bellezza. Basta entrare in una stazione, salire su un treno ordinario, entrare in un ospedale, in una scuola, in una Asl per capire come non contano nulla le persone e i loro bisogni e come ci si accanisca a rendere invivibili mezzi, ambienti, risorse di altissimo valore sociale.
Una cosa esige la morale cattolica e anche questa ce la siamo dimenticata: il risarcimento. Non basta mettere in carcere chi ha rubato. Il più delle volte non serve, anche perché i ladri che popolano le carceri, quelli che del furto hanno fatto un "mestiere", il più delle volte sono tali per "bisogno". Dietro colui che è sorpreso a rubare - quale che sia l'entità del furto - c'è una società che non l'ha garantito nei bisogni primari. In carcere non stanno i ladri sopraffini, i "colletti bianchi", quelli che della speculazione hanno fatto un'arte, della corruzione uno stile di vita, dell'uso dei beni sociali un fatto privato dovuto.
In carcere non vanno quelli che allungano e incrementano il costo delle opere pubbliche, che frodano sulla qualità dei materiali, che "ungono" per ottenere autorizzazioni poi disastrose. In carcere non vanno quelli che hanno a disposizione congrui rimborsi spese e che se ne servono, oltre la legittimità della loro funzione, per gratificare e corrompere. Ebbene tutti costoro dovrebbero restituire il mal tolto, risarcire l'offesa arrecata ai singoli e alla collettività. Il più delle volte - nel nostro ordinamento – proprio questi reati vanno in prescrizione.
Il tragico è ancora che soggetti siffatti passano pure per buoni cristiani; li si assolve senza che abbiano restituito il mal tolto. Discorso questo che tocca tutti, laici e chierici. Per questi ultimi, poi, c'è spesso, purtroppo, la pretesa di collocarsi al di sopra della legge. Risarcire, restituire il bene sottratto, riparare all'ingiustizia compiuta. Sono cose praticamente impossibili nella misura in cui la frode, la speculazione, l'appropriazione crescono qualitativamente.
Una finanza creativa, che calpesta le persone
Nella babele dell'infinito numero di leggi è facile trovare vie d'uscita. Quelle che non ha chi non ha mezzi, non ha cultura, non ha santi protettori, non ha la possibilità di farsi valere e perciò paga anche quello che altri dovrebbero pagare al suo posto. Penso alla cosiddetta finanza creativa, all'andare in fumo di miliardi e miliardi così come all'incrementarsi di miliardi e miliardi, senza che ciò abbia un corrispondente riscontro di beni, mentre reale e concreto, è l'impoverimento di chi s'è fidato, di chi, magari, ha provato pure lui a rischiare e si ritrova alla fine privo di risorse. Penso allo scandalo dei "derivati", al debito gestito come denaro contante e pagato, tragicamente, non dalle banche, ma da singoli e incauti loro clienti.
Forse, però, l'aspetto più inquietante è quello relativo non alle cose, ma alle persone. E, ancora sulla scia del CCC 2014, lo dico non genericamente, visto che il furto nel sottrarre un bene tocca sempre comunque la persona. Lo dico delle persone ridotte in schiavitù, asservite per ragioni egoistiche, ideologiche, mercantili, totalitarie, negando loro la dignità personale. Persone acquistate, vendute e scambiate come merci. E il discorso si fa pesante relativamente all'appoggio offerto, direttamente e indirettamente, anche con una legislazione ingiusta, ai «mercanti di carne umana» - come li ha chiamati Papa Francesco. Offende il VII comandamento il mercato dell'immigrazione, lo sfruttamento dei lavoratori, clandestini e non o comunque irregolari. E di nuovo è mercato di carne umana il racket della prostituzione, del gioco d'azzardo, o anche quello che accende le guerre e recluta addirittura bambini-soldati. È mercato di carne umana quello che incrementa nuove e vecchie schiavitù, la più odiosa delle quali è quella legata all'idolatria dell'utile, con disprezzo di chi vi contribuisce e ne resta escluso.
Offende il VII comandamento la pretestuosa delocalizzazione delle imprese; la vergognosa rottamazione dei lavoratori; lo sfruttamento dell'ingegno, della creatività, dell'immaginazione; lo sfruttamento nei Paesi poveri (ma anche da noi) di quanti sono costretti a incrementare le ricchezze di pochi, avendo negati regole e diritti. Offende il VII comandamento il furto della dignità, della speranza, l'orizzonte buio di un presunto do ut des comunque utilitaristico e mercantile; l'imposizione disperante di una vita senza ideali, senza utopie, senza la bellezza e l'armonia del vivere e dell'operare "insieme". Detto altrimenti, è offesa contro il VII comandamento tutto ciò che viola l'essere umano, la sua dignità di persona fatta a immagine di Dio. Il che offende anzitutto Dio stesso, la sua signoria, il suo progetto di affidare a tutte le sue creature la "culturazione" del vivere e la "coltivazione" del creato.
Cettina Militello
(Vita Pastorale, n. 3, 2014, pp. 46-47)