Difendere la laicità
per combattere l’integralismo
di Alessandra Garusi
«La religione dovrebbe essere un affare privato. E il suo ruolo nella vita politica dovrebbe essere nullo. La laicità non è un semplice spazio di tolleranza. È un valore. L’idea di vivere assieme trascende le appartenenze religiose. Cioè le relazioni fra individui sono più rilevanti del fatto che uno appartenga a una data comunità di fede». Chi parla è il professor Marc Augé, classe 1935, uno dei più affermati antropologi contemporanei. Arriva dall’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, di cui è stato per molti anni presidente. Oggi ne è directeur d’études.
«In origine ero un antropologo africanista», racconta. «Nelle società che ho frequentato, i riti avevano un’enorme importanza. Quindi sono stato portato a riflettere su questo, ma anche sulla rappresentazione del corpo, sulla malattia. Ho dovuto entrare in un mondo di interpretazione che non era il mio: è stata un’esperienza affascinante, perché l’Altro è il colmo della differenza». Dalle ricerche sulle religioni tradizionali africane, a una seconda fase, assai diversa: dagli anni ’80, lo studioso ha elaborato un’antropologia della pluralità dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità. Più di recente, si è invece occupato dei modi di produzione della memoria culturale e dell’assottigliarsi dell’orizzonte del passato nella società contemporanea.
Aveva ragione Samuel Huntington, il famoso teorico dello «scontro di civiltà»?
«La formula da lui coniata nel 1993 – the clash of civilizations appunto – mi lascia perplesso. Il termine "civiltà" si inserisce in una lunga storia; e il suo uso, in questo contesto, non è appropriato. È evidente che è in corso un’offensiva, da parte dell’islam politico, anche sul suolo europeo. Ma è tutta la religione, tutto l’islam, o solo una parte estremista? Anche questa è un’approssimazione. Perché una religione è l’insieme della sua storia. Un esempio: il cristianesimo non può dire di essere fondamentalmente nonviolento, perché una parte della sua storia è stata violenta. Tuttavia, non si può ridurre il tutto a quella singola parte. Lo stesso vale per l’islam. Credo che i monoteismi, per definizione, facciano del proselitismo. Non pensano a un "solo" Dio, pensano a un Dio "unico": lo stesso per tutti. È normale che vogliano convertire. Sono delle religioni d’azione. Senza dubbio le dottrine, le attuali interpretazioni del cristianesimo da parte dei cristiani, sono il frutto di un’evoluzione. Il pensiero laico in Europa è il risultato di conflitti, di lotte. Quindi, c’è sì in corso uno scontro. Ma è l’aggressione dell’ideale democratico da parte del totalitarismo religioso. Le civiltà, lasciamole fuori».
C’è il pericolo di un ritorno della religione politica?
«Sì. Si rischia un ritorno al passato, una fusione fra religione e politica. In questo senso, la lettera indirizzata dal presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad a George Bush è emblematica. Dall’Iran all’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi al Marocco, dove Mohammed VI è anche il rappresentante dei credenti, l’islam si definisce come una religione politica. Quindi, ha una posizione del tutto particolare, indipendentemente dal problema della violenza. Tra il dogma religioso e l’esercizio del potere non c’è alcuna separazione. Certo, anche la Chiesa cattolica ha una sua dimensione politica. Lo si vede bene nei Paesi europei a forte maggioranza cattolica. Il punto è che i rappresentanti delle religioni monoteiste non ammettono che la religione sia diventata un affare privato. O meglio, lo ammettono per forza di cose, ma esiste sempre la tentazione di pensare che debba avere una dimensione sociale. Il problema della relazione fra la cristianità e la politica non ha comunque niente a che fare col problema della relazione fra l’islam e la politica dei Paesi musulmani».
Ma il fondamentalismo islamico non è una pianta che attecchisce ovunque?
«No. Mette radici, di solito, dove la povertà è estrema. Queste disuguaglianze economiche vanno corrette. E l’Occidente non deve trasformare l’esistenza di eventuali gruppi di fondamentalisti in un alibi perfetto per disinteressarsi e non intervenire».
In Francia è passata la legge sulla laicità. La domanda è: fino a che punto bisogna rispettare le differenze?
«Non tutte le differenze sono rispettabili. Ce ne sono alcune che creano esclusione; dunque, vanno rigettate senz’appello. Lo dico da antropologo. Quello delle mutilazioni genitali femminili è un esempio calzante: non è ammissibile che ciò avvenga nel territorio di una Repubblica. Chi commette un reato del genere, va condannato. E, naturalmente, educato».
Che cosa pensa delle violente reazioni del mondo islamico al discorso del Pontefice a Ratisbona?
«Lei s’immagina che un manifestante per le vie di Karachi, in Pakistan, 24 ore dopo il discorso del Papa, fosse già al corrente di quel che era stato detto? Tutto questo è stato manipolato. Con le loro reazioni, i responsabili del mondo islamico hanno dimostrato di essere intolleranti. È come se uno dicesse: "Se mi dici che sono un violento, ti picchio". Sarebbe invece stata l’occasione ideale per aprire un confronto. Fra i leader musulmani moderati, c’è chi ovviamente si è reso conto dell’errore. Ma che un capo di Stato moderato come il re del Marocco abbia richiamato i suoi ambasciatori, significa una cosa sola: che teme di essere rovesciato dai fondamentalisti. È la paura che governa il mondo. E questo è molto pericoloso».
Nel contesto attuale, che cosa possiamo fare noi europei?
«Dobbiamo rivendicare i valori della democrazia e della laicità. E dobbiamo rendere la democrazia desiderabile. È una guerra pacifica, che richiede l’impegno di ciascuno di noi, in particolare dei politici. Per questo, a costo di apparire naïf, mi sento di fare un appello al volontarismo. In gioco, c’è il futuro dei nostri figli, la sopravvivenza».
Come evitare il rischio di un ritorno indietro? Di una fusione fra religione e politica?
«La democrazia deve continuamente progredire. Come tutte le cose umane: se non va avanti, va indietro. Le culture che non cambiano, diventano culture da museo; le lingue che non si parlano più, diventano lingue morte».
La democrazia potrebbe morire o anche solo affievolirsi?
«Sì. Il XX secolo è pieno di regressioni. Inoltre, la democrazia può essere impotente, può aver paura. O ancora, può essere sottomessa al potere dei soldi: la globalizzazione ha degli aspetti profondamente ingiusti. In secondo luogo, la democrazia talvolta non fa quello che dice, o non dice quel che pensa. Oppure arriva a non pensare a niente. Quindi è un combattimento, uno sforzo permanente. La storia per fortuna non è finita».
(da Jesus, dicembre 2006)